Sono milioni ormai i precari in Italia. C’è chi il lavoro non lo cerca più. Chi lo trova dopo lunghi periodi. Chi si accontenta di poco pur di pagare l’affitto. Una piccola parte è perfino fortunata e riesce a svegliarsi dall’incubo. I precari sono un titolo a una riga sul giornale, un numero diramato dall’Istat, il sintomo più accentuato di una patologia vecchia di sei anni che il mondo chiama semplicemente “Crisi”. In ognuno di loro, però, c’è un sentimento, uno schema comportamentale, un nugolo di frustrazioni compiute e rabbie irrisolte. Ci sono anche speranze, voglia di lottare e l’improvvisa consapevolezza che un cambio di vita radicale è possibile. È un mondo interiore condiviso, una dimensione che nessun dato statistico potrà mai raccontare. Q Code Magazine ci prova lasciando aperto questo spazio.
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Massimo, 55 anni, Roma
Ero al corteo di Roma quattro giorni fa. I giornali hanno scritto che eravamo oltre ventimila, che erano presenti tutte le forze di sinistra e che si inneggiava a Syriza e Podemos. Tutto vero. Ma guardandomi intorno non ho visto una sola faccia, una personalità politica o della società civile, che potesse rappresentare in questo Paese ciò che Tsipras e Turrión rappresentano in Grecia e Spagna: la speranza di un popolo. C’erano i sindacati con le loro belle parole di circostanza. A loro basta far entrare nella stessa frase i sostantivi “lavoro” e “disoccupazione”. Li usano scleroticamente come se fossero le ampolle di un alchimista. Vogliono applausi, riconoscimento, vogliono stare tranquilli che il loro ruolo di forza al servizio dei lavoratori sia recitato a dovere. C’erano le solite facce della sinistra italiana: quelli a cui non sono bastate decine di legislature e sconfitte politiche. Quelli per i quali la colpa è sempre degli altri. Quelli che “l’elettorato non ha colto il messaggio”, ma che non si sono mai sforzati di renderlo chiaro quel messaggio. La gente comune (i disperati senza lavoro come me) parla del premier greco, del suo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis. Non gliene frega un cazzo del look, dell’aspetto o del fatto che guidi una moto con il giubbotto di pelle. Parlano tutti del suo braccio di ferro con la controparte tedesca, Wolfgang Schäuble. La Grecia parla di lavoro, non di prestiti. La Grecia vuole rinascere davvero, non bere il latte acido di mamma Unione. Mi guardo intorno e penso che, a parità di condizioni, preferirei essere un disoccupato greco che un disoccupato italiano. Preferirei essere nella Plaza Mayor di Madrid, che non in piazza Indipendenza a Roma. Preferirei pensare che le mie riflessioni, il mio attivismo, la mia protesta sostengano un’azione politica concreta, non la retorica opportunista di chi non sa fare i conti neanche con l’abaco. Vorrei vedere quella faccia che oggi posso solo immaginare. Vorrei leggere di un giovane uomo o una giovane donna, a capo di una giovane squadra di persone oneste, i cui unici interessi siano il bene comune e la crescita di questo Paese. Vorrei che lo facesse guidato/a dall’intelligenza e dalla civiltà, senza gridare o mandare a quel paese un invisibile e atavico nemico. Perché il nemico dell’Italia un volto ce l’ha. Anzi, più di uno. È il volto dell’inciviltà, della furbizia, del desiderio di colpire e farla franca, dell’individualismo, della rabbia sociale. Sono questi i veri antagonisti del popolo. Chi li foraggia, da destra, dal centro o da sinistra, dimostra solamente un’arroganza politica ed etica che continuerà a generare metastasi in un corpo sociale già gravemente malato.
Anonimo, 25 anni, Milano
Ho provato a fare una domanda per lavorare a Expo. Poi un amico mi ha fatto notare che offrire una prestazione in cambio di niente non significa affatto lavorare, ma fare volontariato. Per quale cazzo di motivo dovrei fare volontariato in un evento di cui tanto si è scritto solo male e su cui in tanti hanno speculato? Se proprio devo impegnarmi gratuitamente in qualcosa, ho pensato, preferisco farlo per qualcuno che ha veramente bisogno. Non certo per un carrozzone tirato su con miliardi di euro, che finiranno nelle tasche di pochi, e su cui aleggia il fantasma del malaffare. Preferisco dimenticarlo proprio, l’Expo. Concentrarmi sulla sua controparte per eccellenza: quelli che fanno la fame. C’è un’altra Italia che non sta nello spot dell’Esposizione Universale. Un’Italia che non ha neanche i soldi per un piatto di pasta, un qualsiasi pasto caldo. C’è una fetta d’Italia, sparsa per le strade di Milano e del resto del Paese, per la quale l’Expo è solo una beffa. Ho deciso che mi presenterò da una delle associazioni che li aiutano quotidianamente e presterò servizio lì finché l’Expo non chiuderà, finché non sarà uscito l’ultimo visitatore. È la mia protesta. È il mio modo costruttivo di urlare in faccia a quegli sfruttatori. A quei ladri di sogni. A quegli incivili che alla luce vendono l’immagine dell’Italia nel mondo, mentre nell’oscurità svendono il futuro dei loro figli.
Serena, 40 anni, Roma
Ho deciso di partire. Finalmente. Lascerò l’Italia. Non è stata una decisione semplice, non è arrivata come un’illuminazione al termine dell’ennesimo giro di gin tonic. Ci ho riflettuto tanto, nel modo più difficile: da sola. Per giorni. Il programma, avere un programma, scrivere un programma di vita, come se fosse una cosa semplice. Come se decidere quello che sarà di te e della tua vita dopo averlo già stabilito vent’anni prima, fosse come bere un bicchier d’acqua. Ho dovuto mettere da parte i sogni precedenti. Quelli legati al programma più naturale che si fa quando si è molto giovani, pieni di speranze e di voglia di entrare nel mondo del lavoro. Io volevo fare l’insegnante. Sono diventata una precaria della scuola. Una delle decine di migliaia di precarie della scuola italiana. Le riforme del settore sono state promesse, annunciate, alcune varate, ma non hanno cambiato la situazione. C’è un sovraffollamento d’insegnanti in scuole in cui mancano perfino le cattedre, intese anche come quelle strutture di compensato verdino chiaro risalenti agli anni Ottanta non molto diverse dai banchi degli studenti. Quelle assi montate su quattro gambe che stanno in aule fatiscenti, con tetti pieni di muffa e intonaco scrostato. L’insegnamento. Per una cresciuta con il mito di Maria Montessori, l’insegnamento oggi è uno schiaffo in faccia. Uno schiaffo a mano aperta da parte delle istituzioni al sistema scolastico, ai programmi, al lavoro quotidiano, agli insegnanti, agli studenti, ai bidelli. È uno schiaffo sferrato da chi il sistema non lo conosce, da chi è stato studente, ma mai insegnante. Lascio l’Italia perché ancora lo posso fare, dicono, ma quarant’anni si sentono. Andrò all’estero per provare a insegnare la nostra lingua. La nostra suprema lingua italiana. Lo farò come si faceva una volta, avendo rispetto delle regole e dell’eleganza. Insegnando come usare davvero “piuttosto che”, insegnando che se vuoi usare una parola in inglese devi inserirla in un discorso in inglese, che la struttura base di una frase prevede soggetto, predicato e complemento. Le basi. Le regole. La civiltà. Se vengono meno le prime due, nel linguaggio, come nella vita, viene meno l’ultima. Vado alla ricerca di basi e di regole, per ricercare la civiltà, dunque, lontana da un Paese che sembra averne dimenticato il significato. Spero un giorno di poterti riscrivere, Q Code, e annunciarti di averla trovata. Spero molto di più di leggere sulle tue pagine la notizia che, finalmente, gli italiani si siano messi d’impegno per cercarla.
Matteo, 46 anni, Milano
È visibile, palpabile, dicibile quello nelle manifestazioni di piazza di questi giorni, nei cortei per il diritto alla casa, nei numeri delle statistiche, nelle riviste – come per es.questa, nei blog – come per es. questo, nei romanzi. Ce n’è anche di impalpabile, indicibile, invisibile. Fra i genitori che aspettano l’uscita dei figli a scuola o dall’attività sportiva, fra i vicini che abitano sopra e sotto i nostri appartamenti, in mezzo alla strada e vicino alle stazioni, nelle sale d’attesa dei centri per l’impiego e dei patronati.
Ho accompagnato recentemente un parente disabile – la cui ditta ha licenziato 30 persone – nelle varie tappe burocratiche che seguono il licenziamento. Salto i due mesi di procedura di mobilità: la ditta apre la procedura, fa una lista di mansioni in esubero, vari incontri con i sindacati per contrattare la proposta di accordo, talvolta mobilitazione dei dipendenti, definizione dell’accordo, incontri individuali con i dipendenti, prefirma, firma presso conciliatore. In un clima carico di rabbia, preoccupazione, paura, angoscia, rassegnazione. Lo salto perché richiederebbe un post a parte.
L’iscrizione al centro per l’impiego.
Quello di Milano è in una struttura architettonica pensata non so bene per cosa. Ha un che di avveniristico ma come lasciato a metà.
Il luogo dei servizi per il lavoro che dovrebbe aprirci la strada al futuro, che per ora rimane sospeso… Sembra il salone di una nave da crociera, più low cost che lusso con un’immensa spirale, stile MoMART, che porta ai piani alti dell’edificio. Le sedie per l’attesa sono disposte ad arco sotto un’imponente struttura di specchi che ricorda un alveare e che riflettono ombre e immagine indefinite delle persone (ex lavoratori?), contribuendo a creare confusione nella identità personale e professionale di noi seduti ad aspettare.
Persone in attesa come in un ambulatorio medico. Chi sfoglia un giornale preso gratis nella metro, chi guarda il proprio smartphone, chi ascolta musica, chi cerca gli sguardi degli altri, chi parla con il vicino, chi prende un caffe alle macchinette, chi arriva e chiede dove sono gli sportelli, che – stranamentevedono da dove si aspetta seduti. Mi sono immaginato di essere Nanny Loy che pazientemente con un microfono in mano raccoglievo le storie di questi nuovi fantasmi. Storie di persone, soggetti, descrittori del contesto attuale che sfugge ai media e alle statistiche. Il titolo banale: i figli del boom nella crisi.
Tocca a noi.
Finalmente si avvicina il nostro numero. Avevamo 80 persone prima di noi e sono passate due ore.
Tocca a noi. Nel salone con gli sportelli, un giovane impiegato chiede la fotocopia della lettera di licenziamento (Non c’è l’abbiamo; La faccio io; Grazie!), inserisce dati anagrafici al computer, stampa e ci consegna la copia dell’iscrizione al CPI. Avete 60 giorni per iscrivervi alle liste di mobilità dell’INPS o attraverso un patronato. Ma vi consiglio di farlo prima possibile. Mi domando perché, ma non oso chiederlo. Forse prima ci si iscrive prima riceve la mobilità. Mah. E invece mi trasformo in un goffo Nanny Loy ne vedete tanti ogni giorno? E’ sempre così; Grazie, arrivederci.
Il patronato
Diligentemente cerco un patronato. Trovo una sede comoda per me e per il mio parente che abitiamo a un capo all’altro della città. Cerco le informazioni su orari, ma al telefono non rispondono e su internet non le trovo. In rete trovo un altro numero della stessa sede, penso che avevo quello vecchio, rispondono! Mi spiace ma deve chiamare il patronato; E’ quello che ho fatto, non è la sede di via Volturno? Si, ma noi siamo il CAAF; Ah, e non può passarmi il patronato? No, è un altro numero; Lo so, ma non rispondono, non può passarmelo lei? No, mi spiace non posso farci niente. Se non ci riesce lei che ha il collega nella stanza di fianco. figuriamoci io, mi viene da dire.
Mantenendo il giusto understatement (la mia compagna francese se li sarebbe mangiati vivi…) ci rechiamo alla sede del patronato. Quando entriamo, alle 9.30 di un martedì mattina di metà dicembre, non c’è nessuno a parte gli impiegati che in un ufficio parlano fra di loro. Desidera? Dovremmo iscriverci alla lista di mobilità; Oggi è chiuso, deve venire negli orari indicati; Ah, e quali sono gli orari indicati? Si alza un omone grande e grosso, esce dalla stanza e mi fa vedere un foglio A4 di fianco ad una porta chiusa con la targa Patronato. E’ seccato, non so se perché non li ho visti (ma come facevo erano un po’ nascosti e non immediatamente visibili) o perché ho interrotto la sua conversazione e il suo lavoro (beato lui che ce ne ha uno, anche se non sembra molto contento di avercelo).Lo sportello è aperto lunedì, giovedi e venerdì dalle 9.00 alle 12.30; Ma come facevamo a saperlo? Dovevate chiamare! Respiro profondamente. Guardi che ho chiamato più volte ma non rispondeva nessuno; Certo perché lo sportello era chiuso; Eh, allora come facevo a chiamare? nemmeno la sua collega del CAAF me lo ha detto; Non so che dirle, adesso non c’è; Potete mettere un messaggio che dia informazioni. Eh si, adesso paghiamo un dipendente per dare le informazioni quando l’ufficio è chiuso! Doppio respiro. Magari una segreteria telefonica? o su internet? Non ce l’abbiamo la segreteria! Sto solo DICENDO che ho cercato le inf al tel e su internet e non le ho trovate, sono venuto qui e vorrei capire cosa bisogna fare per iscriversi alle liste di mobilità.
Si apre la porta del patronato (ma allora qualcuno c’era…) e, per fortuna, un signore dice,venga con me che le dico che documenti deve portare (perché non ce lo ha detto quello del CPI???). Mi raccomando venga presto, perché riusciamo a fare solo una decina di pratiche in una mattinata; E c’è tanta gente? Normalmente si.
E così alle 8.00 di venerdì mattina ci diamo appuntamento al patronato. Non vedendo gente fuori in coda (gli uffici aprono alle 9.00) andiamo a bere un caffe.
Dopo 20 minuti ancora nessuno in coda, ci avviamo lo stesso pensanso di essere i primi. E invece dentro, nella sala d’aspetto, una decina di persone sono già sedute in attesa. Chi è l’ultimo? Devono ancora distribuire i numerini; Ma a che ora siete arrivati? Io alle sette…. Alle 8.45 arriva l’impiegato del patronato a distribuire i numeri chiedendo ai presenti di indicare l’ordine di arrivo. A noi tocca l’ultimo. il numero 10. Un paio di persone arrivate dopo di noi restano senza biglietto. E noi? Io lavoro fino alle 12,30. Se finisco prima queste pratiche ne prendo altre. Se volete rimanere è a vostro rischio. Non vi garantisco nulla. Ed esce, penso, a prendere un caffe. Alle 8.55 rientra e alle 9.00 chiama il numero 1.
Rosita
Dopo essere usciti per ingannare l’attesa con un altro caffè, facciamo conoscenza con Rosita, 46 anni. Vive sola con due gatti. La multinazionale per la quale lavorava ha licenziato 29 persone. Non
sa come fare, La mobilità mi basterà per pagare l’affitto e qualche bolletta. Le mie amiche che si sono trovate nella mia situazione ci hanno messo anni a trovare un altro lavoro, chi vuoi che mi prenda, dovrò inventarmi qualche cosa; Può essere l’occasione per riscoprire una passione fare ciò che le piace (potevo starmene zitto…!).
Rosita è un’esperta di questi uffici. E’ bravissima a orientare tutte le persone che entrano e scambiano la sala d’attesa come front office di una segreteria che non c’è. C’è la moldava (badante?) che vuole chiedere l’alloggio, il pensionato, la giovane mamma che ha bisogno dell’ISEE. Per ognuna di queste persone, Rosita ha una parola carina, rassicurante, affabile, gentile, premurosa. L’opposto del dipendente che mi ha maltrattato tre giorni prima. E pensare che lei un lavoro non ce l’ha… L’avessi trovata io quando sono venuto la prima volta.
Pausa caffe
Sono le 10.20. Siamo al numero 6. Il dipendente del patronato va a prendere un caffe. Ci mancherebbe.
È finita!
Alle 11.20 tocca a noi. In tempo per arrivare alle 12.00 alla festa di auguri nella classe di mio figlio. Dove, ovviamente, si continuerà a far finta di niente…
Buon Natale?
tratto dal blog Appunti di Lavoro[/tab] [/tabs]
Anonimo, Lombardia
L’Italia si fonda e affonda sul lavoro, e la lettura di questa rubrica me ne ha dato prova più di una volta. Però, ora che è venuto il mio turno, ho voglia di raccontare un punto di vista sul sopruso alternativo, di parlare di te: di te che utilizzi e speculi, che non offri né dignità economica né dignità umana. Sei donna, sei giovane, in questo Paese dove i quarantenni sono i nuovi post-adolescenti, sei istruita, benestante. Ti sei costruita, in quindici anni, una carriera d’imprenditrice di successo, grazie a cervello, formazione e sì, grazie ai soldi di papà. Gestisci un’attività tutta tua, una piccola azienda, non più di cinque dipendenti, che fattura bene e regge alla crisi: ti vedo, il taglio corto che dice di business e controllo, l’impermeabile per il primo autunno, una bellezza docile. Hai, tra le altre cose, un marito, una figlia e una bella casa tra le campagne di un mortifero capoluogo lombardo, dove i vecchi giocano a carte ai tavoli di plastica dei bar e le domeniche non svolgono che le immagini, della vita: famiglia in casa, famiglie in bicicletta, la piazza vuota e la parrocchia che scampana. Ecco: quando possiedi, m’hanno insegnato, dovresti essere più propenso a dare. Eppure tu, che hai bellezza, potere e fortuna, non dai quasi nulla: assumi chi devi, sorridi i primi giorni, poi annulli il rapporto umano al minimo, utilizzi il dipendente in tutti i modi possibili – straordinari, cambi di orari, di contratto, di mansioni. Nessun rispetto per le qualifiche e nemmeno per la vita privata. Sei stata capace di lasciare a casa da un giorno con l’altro persone che ti hanno dedicato anni della loro vita, pur sapendo di precarie condizioni economiche, di mogli e mariti infortunati o disoccupati. Licenziare, assumere, licenziare. Giocare a prendere decisioni, scegliere il tuo interesse, sempre, comunque e in maniera totalizzante. L’Italia affonda anche per queste forme di violenza, che non sono leggi né normative, ma persone dedite al sopruso quotidiano del prossimo. Come te, mia cara. Ed è per questo che ho deciso di far scrivere di te, immaginando di parlarti, di raccontarti chi sei davvero. Perché anche tu affondi questo Paese. E devi saperlo. E non ci devi dormire, non ci devi chiudere occhio. Che questa consapevolezza ti perseguiti e che prima o poi ti restituisca la prevaricazione che vai regalando. Che tu capisca. E che tu, un giorno, abbia vergogna di te.
Storia raccolta da Ilaria Rossetti
Giuseppe, papà della provincia di Reggio Calabria
Scrivo dal Sud. Da una parte d’Italia che non è più considerata Italia, forse non lo è mai stata, forse non lo è proprio. Qui, nel Mezzogiorno profondo, negli ultimi anni si produce sempre di meno, anzi non si produce affatto. Manca il lavoro, mancano le risorse. Mi chiedo come potremo sopravvivere fra qualche anno. Una regione che perde giovani, talenti, persone con la voglia di fare che offrono le proprie conoscenze e le proprie idee in altri territori. Altri Stati, spesso. I miei amici sono partiti già da tempo, io ho deciso di restare perché ancora un lavoro ce l’ho, ma mi chiedo ogni giorno che cosa ne sarà di questa terra quando mio figlio avrà l’età per dover scegliere se restare o partire. A volte penso che sia un posto buono per la lentezza della vecchiaia, per l’aria buona, i panorami, il verde dei boschi, il blu del mare. Niente di più. Vi scrivo perché ho questo pensiero ogni giorno: che ne sarà di noi? Gli amministratori non amministrano, l’economia non gira, il comparto agricolo non produce. Hanno campato per anni alle spalle dei finanziamenti europei, hanno imbrogliato e ora, che Bruxelles ha chiuso i rubinetti, piangono miseria e sfruttano quei poveri ragazzi che arrivano dall’Africa. La nostra marcia è quella di una bicicletta su un’autostrada a cinque corsie. Siamo immobili e il governo di Roma pensa a delle riforme che non ci toccheranno minimamente. I politici locali pensano a squallidi cerimoniali di corte e a cercare consenso attraverso giochi di potere che non hanno a che fare con la democrazia o la corretta gestione del Bene comune. Parlando con un amico dicevo “siamo morti”. In effetti qui è un lento e atavico trascinarsi, non un vivere. Non c’è riforma che tenga. È questione di civiltà, in Calabria, come in tutta Italia. Manca la cultura del rispetto della legge, della tutela di un sistema di vita che non ci appartiene come fosse materia, ma che dobbiamo salvaguardare per noi e le future generazioni. Parlo del lavoro, ma anche delle strade, delle scuole, delle regole, della coscienza privata e pubblica di compiere le azioni avendo rispetto del concittadino. L’Italia operaia del nord e quella contadina del sud, l’Italia che ha ricostruito il Paese non c’è più e la rassegnazione di non vederla mai più è dura da digerire. È come l’elaborazione di un lutto. Ma io non smetto di sperare, non per il mio futuro, che ormai sento esser sempre più precario, forse inesistente, ma per quello dei miei bambini. Lotto silenziosamente e civilmente nella mia terra, e nel mio piccolo, per far capire loro quelle parole che la società tutta sembra aver dimenticato da tempo: giustizia, libertà, lavoro, emancipazione.[/tab] [/tabs]
Roberta, Milano
Tra qualche giorno sarà il mio ultimo giorno di lavoro. Non si tratta di un trauma o di qualcosa di cui non ho mai avuto esperienza, avendo cambiato, nella vita, molti ruoli e molti luoghi. Questa volta però sono particolarmente arrabbiata. Avevo un contratto a tempo determinato, e sapevo che la legge non obbliga il datore di lavoro a dare alcun tipo di preavviso, in caso decida di non proseguire il rapporto di lavoro. Tuttavia, ora che mi trascino tra le ultime ore di quel che è stata la mia esistenza quotidiana da un anno a questa parte, non riesco a smettere di pensare: questa è un’azienda piccola, a conduzione familiare, un posto dove tu, il capo, mi offrivi caffè, raccontavi della tua bambina, ti lamentavi delle multe, dei raffreddori. Un posto in cui ti hai imparato che tipo di persona sono, in cui hai scoperto delle mie angosce quotidiane, del fatto che sono l’unica a portare uno stipendio a casa. Non riesco a smettere di pensarlo: tu sapevi, eppure non hai nemmeno avuto la decenza di comunicarmi la fine del nostro rapporto di lavoro con un preavviso ragionevole, umano, che mi permettesse di ricercare un nuovo impiego per tempo. No: alle mie domande, hai sempre rimandato, ti sei nascosta dietro i “devo ancora decidere” semplicemente per non guardarmi negli occhi. Perché? Non sarebbe stato meglio restare umani, almeno per quel poco che c’era da salvare? Molto spesso mi chiedo che razza di società e di Paese siamo diventati.
Tra due giorni sarò disoccupata, ma almeno me ne vado senza vergogna. Tu, invece, continuerai la tua vita come se niente fosse: ti auguro almeno qualche notte agitata, qualche sogno stilizzato e misero, e infine il cortile buio, dove rientri la sera, popolato di sussurri.
Storia raccolta da Ilaria Rossetti
Maurizio, 50 anni, provincia di Monza, pazzo, marito e padre
La mia è una storia in controtendenza, una storia di pazzia, in effetti.
A cinquant’anni ho deciso di lasciare la mia azienda, dopo lunghi anni d’infelicità, orari disumani e la costante sensazione di essere di troppo. Mi sono licenziato da informatore farmaceutico, ho intascato la liquidazione e ho guardato la mia vita e il Paese dove vivo: e adesso?, mi sono chiesto. L’idea è stata quella di provare a trasformare la mia passione per le arti marziali in una professione: ho aperto una palestra e ho cominciato a insegnare. E sì, sono felice. Squattrinato, terrorizzato, precario, insicuro, ma faccio qualcosa che amo, che è solo mio, una realizzazione personale che mi scalda il cuore anche nelle notti più ostili. Sapevo fin dall’inizio che l’Italia non era un Paese per imprenditori, né tanto meno per sognatori, ma dopotutto, tra incertezza e incertezza, che cosa conta davvero? Vorrei solo che l’iniziativa del singolo non fosse ostacolata così tanto da burocrazia, tasse mortali e regole assurde. Vorrei che l’economia girasse intorno a me come una bambina gioiosa, che fosse un salto con la corda, una gara di velocità, non un turbinio di cappi e terreno che si sgretola. Una volta facevo regali ai medici per convincerli a comprare antibiotici, pastiglie, calmanti, psicofarmaci; ora vendo alla gente l’autodifesa e la comprensione del prossimo.
Non male, come redenzione.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Anna, 24 anni, Milano
Alcuni giorni fa, durante il mio solito tragitto ufficio-casa, mi son ritrovata a pensare al futuro. Sapete, uno di quei momenti amletici nei quali i grandi quesiti della vita ti assalgono e l’incertezza diventa l’unica costante. Chi sono? Cosa sono diventata? Dove voglio andare? Che direzione voglio dare alla mia vita? Un po’ angosciante come riflessione, me ne rendo conto, soprattutto dopo una giornata di lavoro abbastanza intensa. Già, perché io un lavoro ce l’ho. Seppur sottoforma di stage, seppur precario e relativamente sottopagato, tutte le mattine da sei mesi a questa parte mi alzo, mi preparo e vado in ufficio, a cercare di essere utile agli altri e a me stessa. E a quanto pare ci sono riuscita anche abbastanza bene da convincere chi sta sopra di me ad offrirmi una nuova possibilità. “Beh, allora cosa hai da lamentarti?”, vi chiederete voi. E in effetti non mi lamento, anzi! Il fatto è che sono un animo inquieto e c’è un pensiero fisso che continua a martellarmi nella testa, tenace e insistente: e il dottorato?
Ah, il dottorato! Troppo incerto, troppo frustrante, troppo rischioso…qui in Italia poi! E davvero hai voglia di rimetterti a studiare, china sui libri e sul pc, senza sabati né domeniche, con un progetto di ricerca che ti assorbe tutto il tempo e le energie e il conto in banca che di certo non è quello di un milionario? Ne vale veramente la pena?
Sembrerebbe di no; razionalmente parlando sembrerebbe la scelta meno efficiente in termini di costi-benefici. In fondo potrei tranquillamente continuare a coltivare i miei interessi “accademici” nel tempo libero, potrebbe essere una soluzione soddisfacente.
Eppure…eppure ho 24 anni e non sono ancora disposta a smettere di tentare, ad abbandonare un progetto di vita che, per quanto impegnativo ed incerto, mi sembra il più adatto a me. Mi ritengo incredibilmente fortunata, perché penso di aver trovato una dimensione nella quale, bene o male, sento di poter mettere a frutto i miei talenti e le mie energie. Perché rinunciarci senza neanche averci provato? Male che vada, sarò cresciuta un altro po’ lasciandomi dietro un rimpianto in meno.
storia raccolta da Sara Siddi[/tab] [/tabs]
Lina, 27 anni, giovane insegnante precaria e testarda, amante delle proprie radici, della lingua italiana e del futuro (provincia di Lodi)
La mia storia mi fa quasi tenerezza. E più che un storia è il mio presente, la linfa dei miei giorni e delle mie scelte: sono io. Perché mi faccio tenerezza? Perché sono davvero brava. Le false modestie qui non hanno senso e dire le cose come stanno è l’unico modo per chiamare la realtà con un nome preciso: dramma generazionale. Ho ventisette anni appena compiuti, due lauree con lode in antichità classiche, esperienze di tesi all’estero e un numero non indifferente di lavori sul campo: sono stata topo di biblioteca e un’Indiana Jones con la schiena irrisa dal sole in Turchia molte volte. Però alla fine ho fatto una scelta non convenzionale: ho detto di no al mondo accademico – troppo invischiato in amicizie, amichetti, favori e nepotismi – e all’estero soprattutto, perché l’Italia l’amo profondamente e la vorrei migliore. Ho deciso che volevo insegnare. È quindi cominciato il tunnel infinito delle abilitazioni e dei concorsi, un gioco alla burocrazia dove la preparazione vera molto spesso si perde e finisce per privilegiare solo chi non molla e chi ha dei genitori disposti a mantenerlo per un po’. Io sono stata brava e fortunata. Le miei abilitazioni le ho ottenute e ora, sì, posso insegnare: il problema è che non ci sono garanzie, non c’è continuità, e la sua scuola pubblica resta un miraggio. Ho passato l’anno scorso in un istituto privato di Milano, a combattere contro genitori paganti e ragazzini svogliati: mi è piaciuto, amo lottare per ogni margine di miglioramento e credo profondamente che è dai limiti che bisogna cominciare, per salvare questo Paese. Quando mi chiedono se sono contenta, dico che sì, tutto sommato lo sono, perché, almeno un po’, sto facendo ciò che amo. Eppure non ho un contratto, non ho stabilità, non ho uno stipendio decente e non potrei mai permettermi di vivere per conto mio, seppur alla soglia dei trent’anni. È per questo che mi faccio tenerezza: l’Italia non mi aiuta, mi sfrutta e mi umilia, eppure io sorrido e resto fedele a me stessa. Se la mia fatica avrà avuto un senso, solo il futuro potrà dirlo.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Francesco, 53 anni, precario fuori età dalla provincia di Piacenza
A cinquantatré anni mi sono ritrovato a fare due lavori: eppure sono parte della generazione “fortunata”, quella che sperava di sopravvivere indenne alla crisi e starsene lontana, al sicuro, a compatire i giovani. Invece no: l’operosa zona di Italia dove vivo non mi ha garantito l’immunità che speravo, e la mia data di nascita è diventata un fardello mortale. Sei fuori età. Sei obsoleto. Così ora vivo a casa di mia suocera, con una moglie e un bambino di dodici anni da mantenere: dopo vent’anni di onorata carriera in una ditta di import/export, mi barcameno tra due impieghi profondamente precari e profondamente poco remunerativi. E sono pure tra i fortunati. Un po’ rispondo al telefono del gabbiotto di una ditta di autotrasporti, un po’ mi vesto da pinguino e servo portate di nouvelle cousine in una villa-ristorante del bresciano. Un giorno, ho servito anche Berlusconi e figli. Comunque sia, non metto mai insieme uno stipendio che basti. Al che intervengono i miei genitori, mia suocera: gente che sopravvive di pensioni misere e che deve allungare la mancia a una coppia di cinquantenni, perché questo Paese non sa dove metterli. È umiliante. Non so se e qualcosa cambierà: sono vecchio, ormai, per nuove idee e nuovi stimoli. Sono una ruota che andrà cambiata presto, e che non vale la pena di montare. Mio figlio mi guarda con ammirazione, il suo papà fa ben due lavori! Povera anima: non sa che il mio presente disastrato è solo il riflesso stilizzato della tragedia che sarà il suo futuro.
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LiberaFra, 32 anni, cosmopolita
Volevo qualcosa di diverso dalla Sicilia. Volevo crescere, stare più vicina all’Europa. Ho lasciato un posto a tempo indeterminato per il quale ricevevo uno stipendio a metà. Nel senso che una metà era in nero. Ho scelto Milano. Ho iniziato dalla base come tutti, quasi tutti. Agenzie interinali, annunci, giornali di offerte, invio di curricula come se non ci fosse un domani. Le interinali non lavorano più come una volta, non c’è la consegna del foglio, la firma e il loro lavoro dietro, ma una procedura che prevede due step, una visita in agenzia e una registrazione al sito grazie alla quale sei tu a controllare direttamente gli annunci e a iscriverti alle offerte. L’ho fatto per venti volte. La prima credevo che mi avrebbero presa: era una posizione per tour operator di vacanze all’estero, il lavoro che ho fatto ogni giorno per tre anni. Ho sostenuto il colloquio e delle simulazioni in lingua straniera. Si sono detti contenti di me e mi hanno anche detto che ero molto vicina alla figura che stavano cercando, tranne precisare, alla fine, che si trattava di un contratto da stagista 6 + 6 a 500 euro al mese. Ho chiesto se fosse possibile ottenere un inquadramento diverso, visto che il lavoro lo conoscevo già. Non hanno risposto alla mia richiesta, mi hanno fatto sapere che avevano scelto la loro stagista di ventitré anni neolaureata. Non mi sono sentita sottovalutata, mi sono sentita non considerata affatto. Mi sveglio pensando a come impiegare le mie giornate anche se la voglia di fare sta lentamente scemando, inizio a credere che sia tutto inutile. Che cosa pensereste voi? La mia unica esperienza di lavoro qui nella Gran Milan si riduce a quattro giorni, sei ore al giorno, al call center della Rinascente. Paga di 153 euro in tutto. Sei euro e trentasette centesimi all’ora. Dopo questa esperienza ho guardato più in basso. Ho una laurea, una specializzazione e un master, ma me ne sono fottuta e ho cercato un posto da segretaria. Piacevo alla office manager che mi ha fatto il colloquio. Mi ha chiesto come mai con i miei titoli avevo deciso di puntare a quel posto. Le ho risposto la cosa più semplice: che avevo bisogno di lavorare e di guadagnare per vivere. Mi ha detto che mi avrebbe ricontattata, è inutile dire che non è stato così. Ho richiamato io e ho saputo che i miei studi mi avevano precluso quella possibilità. Ero troppo qualificata.
Non sono una di quelle che al mattino si sveglia con la necessità di controllare le offerte di lavoro, con l’ansia di non arrivare a fine settimana, non sono neanche una che cerca uno stipendio da 3.000 Euro al mese. Non pretendo neanche, oggi come oggi, di avere tante scelte; vorrei solo che qualcuno mi desse una possibilità. Vorrei andare a letto la sera sapendo che il giorno dopo riprenderò ciò che ho lasciato quello prima.[/tab] [/tabs]
Alcuni numeri del rapporto sulla disoccupazione diramato dall’Istat in questi giorni.
Tasso di disoccupati in Italia nell’ultimo trimestre: 13,6 %
Tasso di disoccupazione giovanile: 46 %
Tasso di disoccupazione al Sud: 21,7 %
Tasso di disoccupazione giovanile al Sud: 60,9 %
I disoccupati in Italia sono attualmente 3.500.000
L’Italia non soffriva di questi livelli di disoccupazione dal 1977[/tab] [/tabs]
Mi chiamo Alessandro, ho trentun’anni e una laurea in Scienze Politiche.
Vivo a Milano da un po’, ormai, ci sono giorni in cui la amo alla follia e altri in cui vorrei darle fuoco. La mia vita, comunque, sarebbe certamente più serena se le prospettive lavorative di cui godo fossero diverse. Mi dicono di non lamentarmi (troppo): io almeno un lavoro ce l’ho. Sto seduto nel call center milanese di un famoso istituto di credito italiano, circa sette ore al giorno, sei giorni a settimana. Ho un contratto a progetto, che si rinnova di mese in mese: vado avanti così da quasi tre anni. Ho il mio team, i miei target; devo vendere al telefono e tirare scema la gente, essenzialmente, e più vendo meno fa schifo il mio stipendio. I capoccia cercano di motivarci in tutti i modi: giochi di squadra, cene fuori, competizione interna a tutti i livelli – non solo risultati, ma quiz, gare di cucina, disegni. Cercano di inculcarsi un qualche senso di appartenza. Dovremmo sentirci parte dell’azienda e del nostro team, in teoria. Io più che altro vedo un gruppo di adulti confusi e spremuti come in una centrifuga, adulti che affrontano le giornate tra alienazione e uno spirito da scuola materna, e che ogni tanto si chiedono perché hanno dei contratti a progetto, visto che non c’è nessun progetto. Eppure molti di noi lavorano e vivono così da anni. Perché, vi chiederete. Perché non leviamo i tacchi e non facciamo fruttare le vostre lauree. Avete ragione, assolutamente. Se non fosse che devo pagarmi da solo affitto, bollette, cibo, medicine, macchina e benzina per la macchina, mollerei subito. Ma non posso lasciare senza avere qualcos’altro in mano, senza un lavoro vero. E l’alternativa non arriva: passi le notte a inviare curriculum, spesso ti ignorano, a volte ti rispondono per offrirti uno stage non retribuito. A trentun’anni. In quei casi, provo a una furia dolorosa e comincio a ridere: che razza di circo siamo diventati, pagliacci circondati da pagliacci.
E intanto continuo a proporre conti corrente a tasso zero a casalinghe che, tutte le volte, gentilmente, mi mandano affanculo.
Alessandro, da Milano e dalla maltrattata tribù degli operatori di call center
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Virginia, libraia instancabile e piena di speranza, dalle nebbie padane
La mia è una bella storia, posso dirlo. E ho voglia di raccontarla perché so quanto la fiducia e la speranza in questo Paese si stiano affievolendo giorno dopo giorno, perché vedo gli occhi dei giovani che erediteranno la mia città e non riescono a mettere insieme un futuro coerente. Sono stata fortunata, bisogna dirlo: gli anni giusti, una famiglia solida, possibilità economiche. All’epoca nessuno mi ha riso in faccia e nessuno mi ha sbattuto davanti un mutuo da decapitazione. Ho tirato fuori le palle e ho deciso di cambiare la direzione della mia vita professionale: non più impiegata di banca, ma libraia d’assalto in una piccola provincia sonnolenta. Ho aperto il mio negozio e sono sopravvissuta a Mondadori e Feltrinelli, creandomi uno zoccolo di clientela affezionata. E non ho venduto soltanto libri: ho organizzato circoli di lettura, performance pubbliche, presentazioni di autori itineranti, ho – penso – soffiato vita al tessuto culturale della mia città, storicamente abbastanza spenta. Sono stata felice e lo sono tuttora. Certo, le cose si fanno più difficili anno dopo anno: la burocrazia che è una trappola, le tasse sproporzionate e una dinamica economica che non premia la diversità ma ricerca ossessivamente orari d’apertura infiniti, sconti giorno sì e giorno sì, servizi standard. Non fa niente se poi il commesso del tal libreria è un completo ignorante, tanto ci sono computer… Insomma, nemmeno il mio è un universo felice. Però io sono agguerrita. Io ce l’ho fatta. Ed è questo che voglio a urlare a questa Italia imprigionata: la creatività e l’intraprendenza devono essere sollecitate, il lavoro dev’essere soprattutto un diritto e se diventa soddisfazione, bé, ben venga. Ma nessuno costruirà nulla più in questo Paese, se si lasciano i nostri giovani affogare nell’immobilità e nell’insicurezza. Sono loro le nuove luci e io, nella mia piccola libreria, se potessi, ne vorrei a centinaia. Accendeteli.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Serena, 35 anni, Pescara
Ho riflettuto tanto sull’opportunità di scrivervi. Ho riflettuto il doppio sull’opportunità di premere il tasto invia. Alla fine l’ho fatto. Ho trovato il coraggio di raccontarmi, di raccontare che oggi sono scesa a compromessi con l’idea, il principio, l’assioma morale, la direttrice della mia vita: quella che mi ha sempre imposto di non lavorare mai per meno di una cifra eticamente giusta. Ci sono caduta. Mi sono impegnata per i prossimi tre mesi a 600 euro netti. Quando ci penso non posso fare a meno di chiedermi perché abbia accettato. Perché abbia colto l’opportunità di offrire lavoro a chi lo retribuisce con quattro lire. Seicento euro. In questo numero non c’è neanche lontanamente qualcosa di paragonabile all’equità: la metà mi basta appena per pagare la mia stanza qui a Pescara, il resto dovrò farmelo bastare per le spese e per vivere. Amo leggere, ma ho dovuto rinunciare a comprare libri. Amo il cinema, ma ho dovuto tagliare anche su quello. Avrei tanto voluto vedere Grand Budapest Hotel, ma aspetterò che qualche amico lo scarichi da internet e me lo passi gratuitamente.
Amo viaggiare, un lusso ormai. Il problema è che l’arte, la cultura, il lavoro non sono lussi, sono diritti. Ci deve essere un libero accesso alla crescita intellettuale di ognuno di noi. Seicento euro sono come le sbarre di una prigione: ti permettono di vivere, di sopravvivere, ma non di essere libero. Seicento euro, e menomale che ci sono, sono l’inizio del pensiero più brutto: sto sprecando la mia vita? Non so che cosa farò fra tre mesi, magari vivrò nella consapevolezza che con queste entrate non si può proprio andare avanti, e allora manderò tutto e tutti a quel paese; forse accetterò di proseguire anche con uno stipendio più basso, affinché almeno l’affitto possa riuscire a pagarmelo. Fino ad allora tirerò la cinghia cercando di immaginare una vita vera oltre queste sbarre.[/tab] [/tabs]
Marilena, 39 anni, provincia di Parma
Ho quasi quarant’anni e non si può dire che nella mia vita non mi sia impegnata a costruire qualcosa. Ho studiato fino alla laurea, mi sono sposata e poi, un giorno, ho afferrato il concetto per me più importante: la vita è solo una, bisogna usarla bene. Così ho lasciato il mio lavoro di pubblicitaria a Milano e mi sono buttata nelle mie passioni: laboratori con bambini e disabili, libri, cultura in generale. Le cose per un po’ di tempo sono andate abbastanza bene, sono stata molto felice. Poi, lentamente, gli equilibri sono mutati: ho perso marito, casa e contratto a tempo indeterminato e mi sono ritrovata a dover ricominciare da capo. In questo settore essenziali sono i contatti che si è creati, e proprio questi mi hanno consentito di restare a galla: qualche ora come commessa in una libreria, qualche ora a leggere storie a un gruppi di bambini ammutoliti e felici, qualche ora in un centro per disabili mentali. Amo tutti questi lavori, eppure le mie settimane sono diventate un collage di ore: otto da una parte, otto d’altra, quattro in un terzo posto, in un’affannata corsa per mettere insieme qualcosa che somigli a uno stipendio. Non sempre ci riesco. Certi mesi le ore sono meno, dopotutto non ho nessuna tutela e i miei datori di lavoro possono ridurmi il lavoro a loro piacimento. Nessuno mi ha mai offerto un contratto: le mie sono tutte prestazioni occasionali. E adesso ho quarant’anni e nessuna stabilità. Ho sbagliato a mio tempo, a lasciare un lavoro più “incasellato”? Forse. Ma sento che c’è qualcosa che non va in questa società che non premia la creatività e la passione, ma le relega all’incertezza e al precariato. Ecco qual è il mio impiego, in fin dei conti: fare la precaria. Non posso pagare un mutuo, non posso chiedere un finanziamento, non posso mettere al mondo un figlio: non so mai cosa entrerà nelle mie tasche e come arriverò a fine mese. Risparmio il più possibile perché non posso mai sapere quale voragine si spalancherà. Qualche settimana non riesco nemmeno a lavorare venti ore. Ho cercato dell’altro, qualcosa di più stabile, ma nulla: sono troppo vecchia e con esperienza troppo specifica. Sembra una barzelletta, ma di pessimo gusto. Eppure sono una brava persona, una che lavora duro. Eppure mi apprezzano.
Ma nessuno sa offrirmi l’unica cosa che meriterei davvero: il diritto alla serenità.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Matteo, 46 anni, Milano
Ti svegli e non sai che giorno è.
Hai perso la cognizione dello scorrere del tempo. Come i bambini quando ti chiedono se domani c’è scuola, anche io non so oggi, che apro gli occhi sempre un po’ prima della sveglia, cosa dovrò fare. Accompagnare i bambini a scuola, in piscina perché è sabato, al campo per la partita di domenica? Il lavoro aiuta a scandire il tempo. Il tempo senza lavoroè un tempo indistinto, uguale, anche un po’ eterno, come testimoniano i lavoratori di Agile ex Eutelia. Da qualche giorno a Milano c’è il sole. Dopo un inverno piovoso e grigio. Mi dico, alzandomi, che devo fare un’azione. Scrivere ciò che da tempo penso e che non riesco a dire. Sfuggo gli altri, per sottrarmi al solito, Come va? Cui non saprei come rispondere, in modo telegrafico
Già, come va?
A che ora si è alzato stamattina? Domanda il giornalista per rompere il ghiaccio in apertura di intervista al premier Renzi. Sento un brivido e un po’ di imbarazzo. Alzarsi presto la mattina, anche molto presto, è sempre stata normale quotidianità, nulla di eccezionale. C’era un treno da prendere, un viaggio da fare, per cercare di tornare a casa la sera e mettere a letto i bambini e stare un po’ con la mia compagna preferivo fare anche 600 km in un giorno. Oppure c’erano le mail da mandare, o una relazione da iniziare (i pensieri del mattino…) o una giornata di formazione da sistemare. Nulla di eroico. Lavoro. Era lavoro. Perché il lavoro forse è così. Un po’ ginnastica, un po’ droga. Quando ne hai, sai cosa fare o ti ingegni per farlo, sei allenato, ne hai bisogno, ti tiene su. Certo preoccupa, ti domandi se sarai all’altezza, utile, se imparerai qualche cosa. Devi stare attento a non confondere il valore che hai di te, la tua autostima con l’idea di valore che ti rimandano gli altri. Ma in una condizione di lavoro si impara a gestire anche questo. Quando ne hai poco, o punto, ne senti la mancanza, fino alla crisi di astinenza, che ti fa perdere il contatto con il tuo corpo e con la realtà. Che giorno è oggi? Perdi capacità di organizzarti. Anche lo spazio della mattina resta vuoto. Nella confusione temporale i giorni passano più o meno uguali, indistinti.
Dovresti fare quella telefonata per promuovere un’iniziativa… o scrivere una sintesi dell’unico lavoro che hai in ballo e che ti tiene agganciato al mondo dei giusti come un elefante che si dondola appeso al filo di una ragnatela… Perfino il bollettino in posta, che non hai mai saltato, rimarrà sulla scrivania a guardarti ben oltre la scadenza. Sai che devi farlo. Ma hai perso la forza per svolgere il compito che prima era normale. Come posso continuare a svolgere servizi di formazione e consulenza, ascoltare gli altri, coglierne punti critici da ricollocare e provare insieme a comprendere, trasformare, per rimettere in moto dinamiche organizzative più congruenti con la situazione reale, se io per primo sono schiacciato dalla realtà. Vorresti forse che gli altri capissero te. O che quantomeno sapessero di questa tua condizione, per evitare scissioni. Quando sono in situazione, con i clienti, uso la mia esperienza velandola dietro quella di altri, parenti, amici, conoscenti. E la uso con il contagocce, dosandola, per timore, per paura delle reazioni che potrebbe scatenare, per non scoprirmi troppo e proteggere quel poco di identità professionale che rimane. Un conoscente-collega mi ha parlato di attrezzatura vulnerabile – o qualcosa del genere – come condizione essenziale per uno psicosociologo. Oggi mi sento solo vulnerabile e per nulla attrezzato. E come faccio a far intravedere a chi un lavoro ce l’ha, forse malpagato, non riconosciuto socialmente, ma importante e concreto, come quello che implica una relazione con gli altri, siano malati, anziani, studenti, carcerati, colleghi, altri servizi, che ha un patrimonio in mano che altri, che io non ho.
Legami deboli?
Con i colleghi e con i clienti con cui hai lavorato per anni le relazioni cambiano. Con chi continua, pur con maggiori fatiche, a riempire agende aumentano le distanze. I clienti forse neanche si immaginano che hai poco lavoro, nonostante provi a farglielo capire. Ci si sente sempre meno, poi più nulla. Reciprocamente. Forse con ragioni diverse. Le mie oscillano fra il timore di disturbare chi lavora, che lavorando poco non ho più argomenti da scambiare, esperienze da condividere, che la telefonata venga presa come una rivendicazione. Le loro non lo so. Ecco forse questo potrebbe essere l’argomento di una telefonata. Ma il legame professionale non è sufficiente per trasformarsi in un altro tipo di legame. Anni a valorizzare i legami deboli, a promuovere multiappartenenze organizzative, e ora mi domando se sia stata la strada giusta. Con chi, come me, ha agende con qualche mezza giornata qua e la, ogni tanto ci si sente. “E’ un’epidemia”, “ti capisco”, “scrivilo” mi dicono colleghe-amiche. Qualcuno di noi comincia ad avere seri problemi di reddito. Là dove è a rischio o è già saltato l’altra gamba del reddito mensile familiare, o i risparmi si vanno esaurendo a furia di attingere. E anche chi continua a lavorare lamenta una sempre maggiore separazione fra agenda pur piena e remunerazione che rimane sufficiente “per il minimo di galleggiamento, e ciò mi fa paura, tanta”.
Ecco si, stamattina provo a scrivere dell’indicibile sul lavoro, anzi sul NON-lavoro.
ps. Scritto di qualche settimana fa, ho esitato molto – come sanno i colleghi della redazione dell’Indicibile sul lavoro e gli altri cui l’ho fatto girare – prima di decidermi a pubblicarlo. Un po’ di pudore, la paura di essere etichettato, il desiderio di non personalizzare. Ho ricevuto invece commenti generosi e spunti interessanti di riflessione. Per questo ho pensato che forse valeva la pena di farlo. Sperando che possa continuare il dibattito. Ci tengo a ringraziare Emmanuelle, “mia compagna di vita, d’amore, di strada e di crisi”, parafrasando le sue parole, secondo cui non c’é solo il solito “come va?” ma anche il “vi-dico-io-come-sto…”.
tratto dal blog Appunti di Lavoro[/tab] [/tabs]
Emanuele, 32 anni, provincia di Lodi
Mi piace pensare che la fatica di mio padre, che da più di trent’anni si spacca la schiena nei campi di questa pianura operosa e sfilacciata di nebbia, abbia un senso. Che questo senso si rintracci nel mio presente di figlio, nelle possibilità che ho avuto – studiare, imparare un mestiere, non essere costretto a ereditare la vita di campagna a tutti i costi. Oggi ho trentadue anni e, dopo dodici spesi sui libri contabili di un’azienda a pochi chilometri da casa mia, sono disoccupato. Hanno chiuso d’un tratto, quando nessuno se l’aspettava. Ho dovuto sistemare i loro numeri e le loro fatture, prima di sloggiare. Sono stato gentile, credo che avessero cercato di salvare la nave che affondava, o almeno voglio sperarlo, perché sono gli esseri umani con cui ho diviso quasi i tutti i giorni della mia vita, dal 2002 ad oggi. È anche questo che ti annienta, quando perdi il lavoro: l’improvviso black out che spegne visi, voci, sorrisi, pranzi, che svuota la tua quotidinità con uno scossone brutale. D’un tratto mi sono ritrovato a casa con mia madre, a dar da mangiare alle galline e ad aspettare il rientro di mio padre, ormai l’unico che lavora, un uomo di sessant’anni dalle mani rovinate, gli occhi celesti e una stanchezza millenaria sulle spalle. Lui prega spesso che piova, quando piove non si va per campi e può riposare un po’. Io invece invio curriculum e parlo con la gente, in tanti mi hanno assicurato una mano, la raccomandazione giusta. Aspetto. Non sono vecchio, ma non sono più nemmeno un ragazzino – con la mia fidanzata stavamo pensando a una casa insieme, ma adesso va rivisto tutto. Mi dicono di avere pazienza, che qualcosa salterà fuori, che sono un buon professionista e in fondo siamo al Nord, di lavoro ce n’è ancora. Però sono quattro mesi che sono disoccupato. E la campagna può essere feroce, quando hai il cuore pesante: spesso guido per chilometri, senza una meta, solo per perdere lo sguardo tra il granoturco e i suoni dei campi – i macchinari, l’abbaiare dei cani, le grida degli uccelli, e il silenzio. Ancora un paio di mesi e le colture germoglieranno. Mio padre avrà parecchio da sudare, e mia madre gli rimboccherà le lenzuola dopo cena, lasciando il ronzio della televisione da sottofondo: sparecchierà la tavola e scivolerà a dormire con un sorriso, perché è questo che fanno le madri, sorridono e incoraggiano, sempre e comunque. Spero abbia ragione. E spero che questo Paese si ricordi di me, perché trentadue anni sono troppi pochi per invecchiare immobili, sentendosi così impotenti.
Intanto l’operosa pianura mi guarda, io figlio di contadini che sognava un futuro diverso.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Silvia S., 29 anni, Catanzaro
Nella vita ho fatto di tutto: la commessa, la barista, la cameriera, la babysitter, ho venduto caffè, cappuccini, scarpe da ginnastica, mutande, reggiseni, pigiami, calendari, cancelleria. Adesso lavoro in una fabbrica di orologi al confine con la Svizzera: è un mestiere massacrante, un salto in un mondo che, da bambina, mi appariva distante, come se potesse appartenere solo al futuro dei miei genitori, non al mio. E invece, visto che gli anni passano anche per chi è giovane e l’Italia disprezza i choosy, e gli affitti in qualche modo si devono pagare, faccio quello che non avrei mai pensato: l’operaia laureata. Ogni tanto ripenso a Manzoni e allora l’Italia diventa una creatura che atterra e suscita, che affanna e che consola: ma io sono battagliera e continuo a pretendere una vita, una casa, un presente che non scricchioli a ogni contratto a tempo determinato e a ogni tornata politica. Quindi sorrido e tiro avanti: assemblare orologi ti ricorda che il tempo ha una misura tutta umana, e la speranza è il ticchettio più assordante che ci possa essere, anche in un Paese di sordi.
storia raccolta da Ilaria Rossetti[/tab] [/tabs]
Massimo, Reggio Calabria, 40 anni
Ti dicono che a 40 anni la tua vita non è ancora finita. Ti concedono un piccolo sogno e ti illudono che tu possa realizzarlo. Ti dicono che sono pronti a finanziare una piccola attività, purché sia fattibile e originale, che loro sono lì proprio per questo. Ti incoraggiano a non lasciare la tua terra, perché vogliono che ci rimani, che ci rimani lavorando. Al diavolo la disoccupazione, la corruzione, il clientelismo.
Invitalia sembra la risposta ai tuoi problemi. Ci metti tre mesi a compilare la domanda, vuoi che sia chiara, vuoi che non ci siano dubbi. Le tue giornate vuote diventano piene di parole, di pagine e moduli da compilare, di preventivi da richiedere. Il resto del tempo lo impieghi sistemando il locale che hai preso in affitto. Dicono che in sei mesi avrai la tua risposta. Nel frattempo fai anche un colloquio nella sede locale di Reggio Calabria. E sono strette di mano, complimenti e sorrisi. Non ti lasci confondere, ma dentro di te inizi davvero a sperarci un po’. Inizi a pensare che forse in quell’idea cominciano a crederci anche loro. Passano dieci mesi e arriva LA raccomandata. Pensi che il tuo sogno finalmente è lì che sta per avverarsi, ma quella lettera ti sta dicendo un’altra cosa.
La domanda viene respinta perché non è considerata credibile (o forse perché sul tavolo dell’esaminatore non c’hai appoggiato una bustarella!).
La domanda viene scartata perché il colloquio non è stato convincente: nella domanda non sono stati inseriti beni strumentali che loro considerano indispensabili quindi…
La domanda non può essere accettata perché è impossibile che la tua idea sia così originale da non avere concorrenti nella tua zona…loro non ti credono.
La domanda è rigettata perché la tua idea non vale un cazzo!
Mi sembra che crolli tutto. Mi sembra di aver trascorso dieci mesi a rincorrere un miraggio. Eppure in quella nuova disperazione qualcosa ancora resiste: è la mia idea. Ancora salva. Ancora viva. Mi rialzo. Vado avanti. Posso fare ricorso, ma dopo due mesi viene respinto.
E dopo un anno quella porta socchiusa diventa una porta sbattuta in faccia! Invitalia: il non aiuto alle imprese. Eccolo qua il triste spettacolo di un Paese che prende per il culo i propri giovani. Un complotto eseguito da un gruppo di ricchi ciarlatani, trampolieri, saltimbanchi e acrobati del raggiro, seguiti da un fedelissimo esercito di servi, ruffiani, giullari di corte e pecoroni. Chi non riesce a salire sul carrozzone del circo più triste del mondo è condannato a soccombere. Ma io no, non ci sto! Oggi sono titolare di un piccolo laboratorio di stampa fotografica e fineart. E devo ringraziare solo la mia famiglia. Il laboratorio è operativo da qualche mese, con sacrifici e privazioni inimmaginabili, ma ce l’ho fatta. Le mie giornate non sono facili oggi e non lo saranno neanche domani, ma io credo nel mio lavoro e nelle mie capacità.
Dicono che siamo smarriti. Voi non ascoltateli e andate da un’altra parte a costruire.[/tab] [/tabs]
Maria, Roma, 30 anni
T. non riesce a guardarmi in faccia. Sa che so. Qualcuno ha notato il suo impegno, quando era ancora una studentessa, qualcuno che nell’Università, di potere, un po’ ne ha. Non mi piace la targa “baroni”, quelli ci sono, sì, ma non sono poi molti – ah, e non dimentichiamoci le baronesse. Soprattutto, mi sembra più efficace la parola “feudalesimo”, per descrivere le sottili dinamiche di potere che governano l’accademia italiana. T., dicevo, ha vinto una borsa di dottorato e si è impegnata a portare a termine un’ottima ricerca che, dicono, potrebbe anche meritare una pubblicazione. Riconosciamo i meriti di T., dunque. Peccato che quel professore, quello che l’aveva notata quando era ancora studentessa e che le ha consigliato di iscriversi al dottorato di ricerca, peccato che proprio lui fosse nella commissione per valutare gli aspiranti dottorandi. Un caso? Chissà. Di certo non un caso isolato. La stessa sorte è toccata a M. ed anche a C. Tra noi, colleghi nel medesimo dottorato di ricerca, passa una tensione particolare. Chi, come me, si è sentito a lungo “dottorando di serie B”, non ha perso occasione di rimarcare le ingiustizie, anche solo con sguardi eloquenti. Sono stata aggressiva, a volte. Non mi pareva giusto che T., motivata e studiosa quanto me, fosse così inserita nella vita accademica, mentre io mi sentivo un fantasma. Così, quando ci incrociamo, T. abbozza un saluto e tira dritto, a volte non riesce a guardarmi in faccia. F. invece il dottorato l’ha finito, e ora ha già vinto un assegno di ricerca. Inizia così, a colpi di assegni, la vita di ricercatore precario. Guarda caso il professore di riferimento è lo stesso che l’ha seguito durante il dottorato. F. ha dei comportamenti simili a T. Il suo sguardo è sfuggente. Un dottorato di ricerca, in Italia, dura tre anni. Ho passato i primi tempi a godere del mio senso di superiorità morale nei confronti dei colleghi “di serie A”, come amavo chiamarli al bar con gli altri outsider come me. Poi un giorno mi sono chiesta: “Ma se fosse capitata a me, l’avrei rifiutata un’ala protettrice? Sono davvero poi così superiore?”. In tutta sincerità, penso che la risposta sia No. Non sono diversa da T. Chi può dire di esserlo, in fondo? Basti la consapevolezza che questo sistema, con le sue logiche assolutamente medievali, ci mette l’uno contro l’altro. A conclusione di un dottorato di ricerca, e dopo essermi confrontata su questi temi con decine di persone, posso affermare (parafrasando Ryszard Kapuściński) che il cinico è adatto al mestiere di ricercatore universitario, almeno in Italia.[/tab] [/tabs]
Dalle vite di Sara, Reggio Calabria, Alessandra, Napoli, e Marco, Milano. Giovani emigrati
La nostra storia la racconteremo ai nostri nipotini, a casa nostra, con la vecchiaia che ci abbraccia alle spalle e disperde le ultime angosce. Racconteremo loro di quando – a venti, trenta, trentacinque anni, da giovani italiani senza lavoro – siamo saliti su aerei, pullman e treni e abbiamo lasciato indietro tutto quello che avevamo conosciuto fino a quel momento: i nostri genitori, le nostre città, i nostri paesi di un pugno d’anime, la lingua e l’aria che eravamo soliti respirare, molti amici. E casa. Diremo loro quello che si provava ad attraversare l’Europa, o un oceano, o addirittura più oceani, con un paio di valige e un terrore profondo, drogati di eccitazione e speranza. Diremo loro quello che eravamo, senza tanti giri di parole: una generazione di emigrati, di senza futuro. Diremo loro che l’Italia non sapeva dove metterci, come darci uno spazio, un lavoro e una vita. Spiegheremo che all’epoca il nostro Paese accettava le nostre fughe silenziose come una perdita di sangue che non si poteva tamponare, le madri imparavano a usare Skype e noi tentavamo di costruire qualcosa lontano da una casa marcia, corrotta e depredata, che per noi non aveva nulla. E che spesso ci riuscivamo. Alla grande. Racconteremo ai nostri nipotini la sensazione di una vita a metà, di due scarpe diverse, del vecchio e del nuovo costante, dello sradicamento e delle nuove famiglie che germogliano in case condivise e accampate, delle parole che rimescolano le lettere e trovano suoni diversi, del mistero doloroso della nostalgia. Loro, i nostri nipotini, ci guarderanno con occhi sgranati e ci chiederanno: nonni, ma quindi perché siete tornati in Italia? La risposta, allora, la conosceremo anche noi: perché lo volevamo e perché l’Italia, a un certo punto, aveva finalmente raccolto le propria ossa scomposte e ci aveva richiamati indietro, a curarla e lavorare per lei, e per noi stessi. Sarà una bella storia da raccontare. Sarà una storia che nessuno dovrà dimenticare mai.
storia raccolta da Ilaria Rossetti [/tab] [/tabs]
Stefano, Milano
Dopo due mesi e mezzo di lotte e tentativi di portare la nostra azienda al tavolo di trattativa, possiamo dire di essere riusciti ad ottenere probabilmente il miglior risultato possibile, visti i presupposti. I lavoratori nel breve periodo di quest’anno saranno tutelati dalla Cassa integrazione alla fine della quale riceveranno, nel caso non abbiano trovato lavoro, una buona uscita proporzionale agli anni di anzianità. Siamo riusciti, cosa non scontata, a strappare con le unghie e con i denti una tutela, alla quale Privalia si opponeva strenuamente, per i lavoratori con un contratto a tempo determinato e per quelli che avevano dei carichi e delle situazioni familiari più difficili. Siamo cinquantadue esuberi. Cinquantadue persone. Ci hanno accordato il mantenimento delle nostre posizioni contrattuali anche quando la produzione verrà spostata in India e Spagna. Lì, per quelli che lo chiederanno entro giugno, ci sarà la possibilità di una ricollocazione. Ma ci pensate? In Spagna. Dieci di noi avranno, come nei patti, un nuovo lavoro a Milano. Per altri ci sarà la possibilità di godere di aiuti all’autoimprenditorialità e alla ricerca di una ricollocazione esterna. Abbiamo limitato i danni, cosa che era impensabile solo due mesi e mezzo fa. Per ora siamo ufficialmente fra quei quattro milioni, ma le garanzie che ci sono state accordate ci consentono di respirare per almeno un anno e di sperare in tempi migliori.[/tab] [/tabs]
Giulia, Milano, 38 anni
La sera mi addormento male, ma carica di speranza. Sono certa che il giorno seguente sarà il mio giorno. Sono certa che arriverà una telefonata, che qualcuno noterà nel mio curriculum quel centodieci e lode in Giurisprudenza sudato per cinque anni della mia vita. Mi basterebbe che lo notasse anche un libraio a cui serve una commessa, il capo di una minuscola azienda in Brianza, l’ufficio risorse umane della più piccola impresa di Milano. Mi basterebbe che lo notasse qualsiasi persona che abbia la possibilità di offrirmi un’occupazione. Uno stipendio vero. Anche per tre mesi, quelli che poi ti rinnovano per due volte e alla terza ti lasciano a casa. Prenderei anche quello, senza promesse o proclami. Prenderei la prima cosa che possa interrompere il lavoro parallelo di mandare cv o incontrare persone a cui consegnarli. La frustrazione ha raggiunto livelli altissimi. Non riesco più a fare l’amore con l’uomo che amo e con cui vivo. Mi sento un peso per lui, un peso economico, psicologico. Mi sento brutta e fallita. Lui mi dice che tutto gira e tutto cambia, ma qui siamo arrivati al Medioevo e non si sentono echi rinascimentali. Sento solo un dolore profondo, nero, ovattato. Un dolore in cui l’unica frase che riesco a leggere è “Non vali un cazzo”. Poi mi chiedo se è davvero così o se non sia un grande disegno. Certo è che chiamare il bigliettaio di un treno, ticket specialist, non aiuta molto. Cambiare i nomi ai lavori ti fa sentire incapace perfino di farla una telefonata per chiedere. Che non sia più giusto provarci e barare? Tanto loro lo fanno. Barare, però, è sbagliato e non voglio sentirmi peggio di quanto già non mi senta. Vado a dormire con un briciolo di speranza e gli occhi impastati di lacrime. Sono una di quei quattro milioni, o forse siamo già cinque?[/tab] [/tabs]
Francesco, Roma, 40 anni
Prima di trovarlo quel dannato lavoro ho penato tanto. È un contratto di otto mesi, ma a me sembra di toccare il cielo con un dito. Finalmente non si sta più a casa, finalmente produco, creo, penso. Finalmente il divano ritorna a essere l’amico che ti accoglie alla sera e non il mostro che ti incatena durante le settimane. Sarebbe facile ora dire di non mollare mai, per cui non lo dirò. Scriverò, più semplicemente, che la vera crisi, questo Paese fondato sul lavoro, l’ha prodotta quando si è dimenticato dei suoi figli che un lavoro lo cercano. Questo oblio ha portato individualismo ed egoismo. Ha portato rabbia e mal di pancia insensati. Ha portato gli italiani a dividersi. Mia nonna mi diceva sempre che quello che chiamano boom economico in realtà è stato il risultato di una nazione che ha saputo convivere pacificamente. Un’altra Italia, dove i ricchi e i poveri c’erano, ma si ascoltavano, si affrontavano con rispetto e facevano un passo indietro quando era giusto farlo. Oggi ricchi e poveri sono due nemici in una guerra in cui muoiono lavoro e prosperità. Paese del G7. Ma per piacere. A volte credo che non siamo più neanche un Paese. Ma una sessantina di milioni di persone che parlano la stessa lingua e basta. Oggi la mia rabbia è attenuata dal fatto che qualcuno sta credendo in me. Lo farà per otto mesi solamente, ma lo fa e paga il mio lavoro. Fino ad allora non sarò più uno di quei quattro milioni, o forse sono già cinque?[/tab] [/tabs]
Clara, Bologna, 32 anni
È una sensazione di immobilità assoluta. Ti lega al letto. Al divano. Alla sedia. Sull’autobus. Non sai che fare. A quale santo votarti. Sono una di quei quattro milioni. O forse siamo già cinque? Ho una laurea in lettere. Un master profumatamente pagato e parlo tre lingue, oltre l’italiano, ovviamente. Non guardo più la televisione per non sentire le storie di chi è andato via. Di chi a Berlino, Londra, Parigi, New York, ce la fa. Di quelli che, come me, hanno un passaporto italiano. Numeri. Tanto grandi quanto vuoti quelli diramati dall’Istat. Milioni di giovani, la nuova generazione, l’Italia del futuro che rischia di non esserci perché non può, perché non vuole già più. Avete mai provato a fare un colloquio di lavoro per telefono? Molti chiedono le misure dei fianchi e il livello di disinvoltura. Che cosa c’entra questo con il lavoro? Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, è vero anche che oggi rende peggiori quelli che dovrebbero darlo. Non so se è la legge, la famosa crisi, o sono proprio le istituzioni a essere colpevoli. So che ho davanti, ogni mattina, una strada in salita. Chilometri in pendenza. E io sono lì con la voglia di provarci e la paura di non farcela. Sono una di quei quattro milioni, o forse siamo già cinque?[/tab] [/tabs]
Luca, Catanzaro, 29 anni
Provate a pensare alla risposta di un amico a cui comunicate di aver trovato un lavoro. È una domanda in realtà, la più comune, la più sentita, quella che nel Paese dei Pulcinella e dei tormentoni è diventata una battuta di spirito: «Ma ti pagano?». È insulsa come quella del tipo che ti risponde «non fumo» quando gli chiedi di farti accendere la sigaretta. Se solo penso alle lotte sindacali del dopoguerra, se penso agli uomini che hanno occupato le piazze, incalzato politici, organizzato scioperi all’ombra delle grandi, quelle sì, organizzazioni sindacali. Non c’è più nulla, neanche il ricordo, se oggi ti fanno quella domanda. Perché il lavoro per definizione è qualcosa che va retribuito: sia che duri cinque mesi o che sia quello di tutta la vita. A un servizio va corrisposto un onorario, uno stipendio, una busta paga anche bassa. Oggi si retribuisce in visibilità, in occasioni di mettersi in mostra e poi domani chissà, in «tieni duro e la tua ora arriverà». Quando sei fortunato. Quando non lo sei subisci mobbing, gratuito ovviamente, e ricatti di ogni sorta. La moneta non è più l’euro. Della lira (i soldi veri come li chiamano dalle mie parti) c’è solo un vago ricordo. La moneta di oggi è la manipolazione psicologica di una categoria disperata, quella dei precari. Giocano sulla nostra sofferenza, sul nostro senso di inadeguatezza, sulle nostre frustrazioni per farci sentire non idonei a ogni cosa. Ho concluso un dottorato di ricerca in una delle più grandi Università italiane e mi hanno rimbalzato anche per fare il commesso in un negozio. Nel mio settore, neanche a parlarne. È pieno di baroni e baronie e i grandi vecchi stentano a lasciare il posto e quando lo fanno piazzano uno dei loro. Sono uno di quei quattro milioni, o forse siamo già cinque?[/tab] [/tabs]
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