Quando lasciamo Asuncion ci aspetta una lunga notte attraverso il desertico Chaco e una nuova frontiera da attraversare, quella tra Paraguay e Bolivia. Alle prime luci dell’alba l’autobus sfreccia su di una pista fatta di sabbia e sassi, alzando nuvoloni di polvere che si depositano su alberi e arbusti che a perdita d’occhio circondano la strada.
I terreni sono proprietà private dei ganaderos, vietato l’ingresso a chiunque sembrano dire i portoni di legno stile ranch americano che si vedono di tanto in tanto. L’autista dell’autobus si destreggia per evitare buche e sassi, io penso a quanta fortuna abbiamo a non aver trovato la pioggia, qui col fango c’avremmo impiegato dei giorni.
Attraversiamo la frontiera per uscire dal Paraguay, anche se il confine vero è solo tra altri sessanta chilometri, lì dove troviamo la dogana boliviana. La polizia fa scendere tutti e ci fa aprire gli zaini uno a uno, quando l’autista apre il portabagagli scopriamo amaramente che sono completamente ricoperti di polvere.
All’ufficio immigrazione i bagagli verranno controllati una seconda volta mentre al controllo passaporti rischio di non entrare nel paese perché insisto nel chiedere il visto turistico di 90 giorni a un doganiere scorbutico e arrogante. Niente da fare: imprime quello da 30 con un gesto di vittoria.
Chissà perché avevo l’idea che la Bolivia profonda della campagna, dei campesinos e dei popoli indigeni avrei dovuto andarmela a cercare, riconoscerla, scovarla, invece mi è arrivata addosso tutta d’un colpo. Avevamo previsto altre dodici ore di viaggio per arrivare a Sucre, invece c’abbiamo impiegato altri tre giorni, ma come spesso avviene, le deviazioni e i fuori programma regalano esperienze inattese.
Scendiamo dall’autobus a Camiri, sulla strada verso Santa Cruz, da qui partono autobus che tagliano direttamente verso Sucre, quando arriviamo in stazione il pullman ha appena chiuso le porte e sta partendo, troppo tardi per fermarlo, “A che ora è il prossimo?”, chiedo al poliziotto all’ingresso. “Tra ventiquattr’ore”, mi risponde placido, vedendomi disorientato mi spiega meglio. “Ci sono dei minibus che partono verso Monteagudo, da lì potrete proseguire verso Padilla, Taraburo e Sucre”.
Mezz’ora dopo stiamo già salendo su una jeep carica all’inverosimile che ci porterà fino a Monteagudo, impiegherà tre ore per fare meno di cento chilometri. Qui la strada non è ancora asfaltata, rimane una delle principali arterie del paese fatte di sabbia.
Arriviamo a Monteagudo all’imbrunire, giusto in tempo per vedere anche qui l’ultimo autobus della giornata che se ne va, “Quando è il prossimo?” chiedo alla ragazza dell’agenzia, che mi risponde, anche lei, placidamente: “Tra ventiquattr’ore.” Ci rassegniamo a passare la notte qui, prendiamo una stanza e andiamo a mangiare qualcosa. Monteagudo è il ritrovo serale di chi abita nelle campagne circostanti, la sera c’è movimento, il mercato e qualche bar aperto fino a tardi.
Il giorno dopo, non volendo aspettare il prossimo pullman che partirà solo all’imbrunire, decidiamo di spostarci in autostop, usciamo da Monteagudo e aspettiamo più di un’ora a bordo strada senza veder passare quasi nessun veicolo. Poi arriva un camion, mi arrampico per raggiungere il finestrino e parlare con il conducente: “Il passaggio fino a Padilla costa 15 bolivianos”, dice,“salite dietro, ci sono già altri passeggeri”.
I camion che passano da queste parti sono dei veri e propri traghettatori di anime: rientrano vuoti dopo le consegne e arrotondano dando uno strappo alla gente del posto. In assenza di un servizio di trasporti pubblico efficiente sono l’unico mezzo di comunicazione e contatto tra le varie comunità.
Il pavimento del cassone del camion è fatto di assi di legno, così come le sponde laterali, alte come un uomo in piedi, una volta dentro per vedere il paesaggio dovrò mettermi in punta di piedi o spiare attraverso le feritoie. Dentro al cassone polveroso troviamo altre tre persone: tre campesinos che abitano poco lontano e che vanno a vendere i loro prodotti.
C’è una signora anziana, i lunghi capelli grigi che le cadono sulle spalle e le coprono la fronte, la pelle ricoperta da profonde rughe dovute al sole, è seduta su di un sacco pieno di erbe e appoggia la schiena sul retro della cabina, apre gli occhi solo per farci un cenno della testa e li richiude per quasi tutto il resto del viaggio. Accanto a lei c’è una ragazza giovane, sulle sue ginocchia dorme una bambina che protegge dal sole coprendola con una coperta, ci fa un sorriso. In piedi un signore sulla quarantina: basso, magro, con il cappello nero alla Indiana Jones tipico dei campesinos di questa regione.
Il camion parte, io e Alessia non abbiamo quasi neanche il tempo di sederci che i dossi già fanno sobbalzare il cassone. La strada non è delle migliori, là dove la pista ieri era di sabbia oggi è di sassi, sale in alcuni tratti con pendenze elevate, scavalca su e giù i primi monti delle Ande.
Lungo la strada attraversiamo numerosi villaggi, tutti composti da non più di una decina di case, sembrano disabitati perché durante il pomeriggio gli abitanti, tutti allevatori, sono al pascolo. Qua e là noto i mattoni di terra cruda e paglia messi ad asciugare per nuove abitazioni, i tetti sono tutti di paglia o tegole fatte a mano, qualche pollo scorrazza nelle corti interne, i bambini giocano a bersagliare il camion che passa con i palloncini pieni d’acqua.
Dopo un po’ il contadino in piedi richiama la mia attenzione, fa segno di avvicinarmi, apre un sacchetto di plastica e mi riempie la mano di foglie di coca, mi spiega in un dialetto sconosciuto come si masticano e come si sputano. Io e Alessia decidiamo di provare: hanno un sapore amaro, mastichiamo per circa mezz’ora senza sentire effetti particolari. Probabilmente bisogna far come lui, che per lasciare il risicato spazio in ombra della cabina sul cassone alla donna con il bambino resta in piedi tutto il viaggio sotto al sole e per avere abbastanza energie (o semplicemente pazienza) mastica foglie in continuazione.
Nel frattempo il camion continua ad arrampicarsi sulle montagne, il radiatore sbuffa, la frizione cigola, i freni bollono, le ruote masticano centimetro dopo centimetro la sabbia e i sassi. Su queste strade viaggiare è un’impresa: al minimo errore si corre il rischio di cadere nel precipizio. A tratti incrociamo anche piccoli torrenti che scendendo dalle montagne invadono la strada, lì l’autista si ferma, rimette la prima e avanza a passo d’uomo con le ruote in mezzo all’acqua. Nei passaggi peggiori io e Alessia ci sediamo a guardare il cielo, per non farci venir l’angoscia al vedere le ruote del camion che sfiorano il vuoto.
Percorriamo così altri cento chilometri, impiegando più di sei ore. I contadini che viaggiano con noi scendono molto prima di Padilla, ne salgono altri che ci offrono pesche e fichi. Quando finalmente vedo la cittadina comparire in fondo alla vallata la mia schiena è letteralmente a pezzi. Qui siamo ampiamente in anticipo per il prossimo autobus, che parte nel cuore della notte, ma noi non abbiamo più abbastanza soldi liquidi per il biglietto, a Padilla non ci sono ne banche ne uffici per il cambio. Andiamo a comprare pane e formaggio dai campesinos nella piazza del centro e dormiamo alla stazione degli autobus.
In tutti i villaggi che abbiamo attraversato per arrivare fino a qui, soprattutto i più grandi come Camiri, Monteagudo, Padilla e Tarabuco, abbiamo incrociato bandiere colorate che sventolano sulle abitazioni e pareti ricoperte di intonaci colorati: è la campagna elettorale per le elezioni municipali (300 città, tra cui i capoluoghi) e regionali che si svolgeranno il 29 marzo 2015. I due avversari principali qui in Chuquisaca sono il MAS di Evo Morales e il FRI, il Fronte Rivoluzionario de Izquierda. Una vera e propria battaglia cromatica: bianco/azzurro per il MAS, rosso/blu per il FRI. In centro circolano jeep con le bandiere e la musica ad alto volume, semplicemente la gente dipinge le pareti di casa del colore del partito che voterà. Quasi banalmente le scritte “Evo presidente 2015-2020” sono ampiamente predominanti.
Lungo questa strada nazionale l’avanzata dell’Evismo è lampante, fatta di grandi mappe per la stagione delle piogge affisse nelle agenzie dei trasporti che indicano i vari tipi di fondo stradale: sabbia, sassi, asfalto. “L’asfalto dovrebbe arrivare a Padilla l’anno prossimo” ci spiega Beimeitu quando ci incontra alle prime ore dell’alba all’uscita di Padilla mentre aspettiamo che passi qualche macchina per fare autostop. “Anche la nuova linea elettrica interrata ormai è installata: con quella di prima durante la stagione delle piogge bastava un lampo su di un palo e tutta la regione rimaneva senza luce per giorni.
Adesso con questo nuovo metodo non ci saranno più di questi problemi.” Quella del MAS, almeno da queste parti, sembra essere una campagna elettorale basata sui risultati ottenuti. Un consenso popolare che dura dal 2006 e che non sembra conoscere crisi. Vedendo quante poche probabilità di riuscire a trovare un mezzo che ci porti a Sucre Beimeitu ci aiuta parlando con un suo amico che lavora per la compagnia dei bus: gli pagheremo il biglietto una volta a Sucre, dove troveremo gli sportelli bancari con i circuiti internazionali. Stringo la mano a Beimeitu ringraziandolo. Alla fine c’avremo messo tre giorni per fare poco più di trecento chilometri.
Avviamo a Sucre in serata, la città è un simbolo della storia boliviana: odierna capitale costituzionale del paese, fu il primo avamposto spagnolo all’epoca della colonizzazione. Qui ha avuto luogo la prima rivoluzione del continente sudamericano: la rivoluzione di Chuquisaca del 25 maggio 1809.
Sucre è la capitale della regione, fin dall’antichità abitata dal popolo dei Chargas, segna la linea di confine tra i primi monti andini e le cime più alte, oltre che tra i Quechua e i Guaranì. Fu l’unica città della Bolivia indipendente dall’impero Inca e oggi è patrimonio dell’umanità UNESCO per il suo centro storico in stile coloniale. Una carta d’identità di tutto rispetto.
Il giorno dopo andiamo a fare colazione al mercato campesino: il mercato coperto ospitato dentro a un edificio dagli intonaci bianchi a tre piani. Il mercato è un ammasso, ordinato ma caotico, confusionario ma preciso di piccole bancarelle, macellerie, tovaglie stese a terra da donne che vendono fiori o frutta secca, banchetti di frutta e verdura, erbe, fichi, formaggi, carne.
Il mercato è organizzato per settori, vicino all’ingresso ci sono i banchi delle frutta e della verdura, vicino a due di torte fatte in casa e a uno di candele colorate. Avanzando si trovano i banchi con i cesti in vimini fino a un chiostro interno, dove ci sono esclusivamente enormi sacchi pieni di patate rosse e gialle. Vedo molte specialità e prodotti locali che non conosco.
Al primo piano si vendono le spezie e in un angolo si può bere l’Api, la bevanda calda zuccherata fatta con mais giallo o nero. Al secondo piano invece ci sono alcune piccole cucine improvvisate: in grandi pentoloni il caffè bolle e ce ne servono due grandi tazze prendendolo col mestolo. Ci sediamo in uno dei tanti tavoli, attorno a noi i lavoratori del mercato mangiano piatti di bistecche impanate e patate fritte, cosce di pollo arrosto con riso, carne in umido al pomodoro con le verdure. Tutto cucinato sul momento dalle donne campesine che si muovono agilmente tra gli spazi stretti dei fornelli.
A Sucre mi colpiscono gli autobus, quasi tutti Nissan degli anni ottanta e novanta, ancora con gli ideogrammi giapponesi sulla fiancata di quando, rifiutati dal mercato nipponico, sono stati importati di seconda mano qui. Al museo dell’arte indigena scopro che il ricco e variegato artigianato indigeno non solo è protetto, studiato e tutelato, ma che è anche abbastanza prolifico per creare nuovi stili derivati sui temi tradizionali.
Culture ancestrali che si mescolano alle influenze globali moderne, il risultato è affascinante. Mi attirano particolarmente una serie di disegni su stoffa fatti col telaio che rappresentano le divinità, quelle venerate dagli indigeni da migliaia di anni, solitamente raffigurate con forme geometriche rigide e precise e che ora si fondono in colori caldi, rosso, giallo, blu. Diventano un’onda che vagheggia sul tessuto, quasi un effetto psichedelico. Come a dire che le antiche divinità riescono a mettersi a loro agio anche con la globalizzazione, in Bolivia sembra essere davvero così.
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