Parole per una strage / 3

Qui la prima puntata
E qui la seconda puntata

 

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Je suis Charlie. La risposta civile dei cittadini. Già dal 7 gennaio pomeriggio persone cominciano a affluire in Place de la Republique, alla sera sono migliaia. In silenzio dicono je suis Charlie, tutti siamo Charlie coi primi cartelli fatti in casa. Lo stesso succede in altre città. Il movimento cresce e si estende geograficamente la sera successiva come un’onda che s’ingrossa. Non c’è rabbia. Dolore, tristezza e resistenza contro l’aggressione fascisto islamica sono i sentimenti dominanti. I cittadini pongono il loro corpo in comune a scudo e difesa della polis, cioè della libera convivenza. S’avverte che bisogna difendere la libertà in pericolo, perché senza libertà non c’è democrazia nè convivenza civile, in specie nelle moderne metropoli e città dove stratificano culture, costumi, religioni molto diverse tra loro. Soltanto riconoscendoci tutti concittadini portatori di eguali diritti e libertà, possiamo stare insieme in pace. Mai come oggi è stata vera la definizione di Aristotele secondo la quale “la città è un sistema di differenze”, e ognuno deve essere libero di portare la sua senza subire violenza, discriminazione, esclusione. Il che non significa senza conflitti, soltanto evitandone la degenerazione in guerra civile, larvale o dispiegata. Scrive Ian McEwan: “Il solo garante della libertà di culto e della tolleranza universale è lo stato laico. Esso rispetta tutte le religioni in seno alla legalità e crede a tutte – o a nessuna. (..) Il principio della libertà di parola è fondamentale. Il prezzo da pagare è l’offesa occasionale. E’ lecito pretendere che l’offesa non conduca alla violenza o a minacce di violenza. (..) La libertà che consente ai redattori di Charlie Hebdò di fare satira è la stessa libertà che consente ai musulmani di praticare il loro culto e di esprimere apertamente le loro opinioni.(..) La libertà di parola è dura, fa rumore, a volte ferisce, ma quando è necessario far convivere una simile pluralità d’opinioni non lascia alternative, se non l’intimidazione, la violenza e l’aspro conflitto tra comunità. La libertà di parola non è mai esagerata.(..) Senza libertà di parola la democrazia è una finzione. (..) La libertà di parola non è il nemico della religione, è il suo nume tutelare.” Aggiungerei che la libertà individuale, il libero arbitrio, o free will, libera volontà, è costitutivo dell’essere umano, frutto dell’evoluzione, andando quindi al di là della definizione politica, per accedere alla nostra natura biologica sul versante sia del corpo che della mente. Diciamo che il libero arbitrio è proprietà cognitiva intrinseca all’essere umano. Inoltre quanti più gradi di libertà sono presenti e attivi, tanto più la vita associata sarà ricca, creativa e la convivenza civile robusta. Il discorso sulla libertà di McEwan vive nelle piazze francesi che si riempiono, a volte specie nelle cittadine di provincia raccogliendo oltre la metà degli abitanti, in pratica tutti gli adulti. Il Presidente Hollande e il primo ministro Valls intuiscono che l’onda sta diventando uno tsunami, scegliendo di cavalcarlo e in qualche modo incanalarlo nella grande marcia repubblicana di domenica 11 gennaio. Essi hanno un duplice obiettivo, quello di misurare e mostrare l’unità del popolo francese nonchè, con l’invito a molti capi di stato e di governo, europei in primis, di mettere in risonanza questo popolo francese ma anche europeo, con i suoi governanti. Pare quasi che Hollande e Valls si siano improvvisamente resi conto del fossato che divide i popoli dai loro governanti, fossato che rischia di diventare una frattura abissale dentro cui può precipitare la democrazia rompendosi le ossa mentre nascono e crescono mostri, in buona sostanza fascismo, razzismo, antisemitismo. Non a caso fin dai primi momenti essi fissano i paletti della libertà di satira ovviamente ma anche di religione, esplicitamente affermando e ripetendo che nessun atto ostile ai cittadini di fede musulmana e contro le moschee sarà tollerato dalla Republique. Col che in pochi giorni ci saranno tra i 150 e 200 attentati che vanno da alcune molotov a una miriade di scritte offensive sui muri e di sfregi come la cacca e/o la carne di maiale sparpagliata qua e là.

 

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Avviene poi domenica 11 la fiumana di cittadini/e a milioni ovunque in Francia, e a Parigi in particolare, con i governanti in cordone, seppure separati dalle masse, che camminare nelle stesse strade passi, ma proprio a contatto di gomito sarebbe troppo. Alcuni poi erano in palese contraddizione con sè stessi, perché nel mentre sfilavano a Parigi per la libertà di satira, nei loro paesi la libertà di stampa, d’opinione e di religione non era proprio all’apice, anzi veniva calpestata, per esempio in Arabia Saudita dove il blogger Raif Badawi proprio nelle stesse ore è condannato a ricevere mille frustate in pubblico, comminate 50 a settimana, lo stesso potrebbe dirsi per la Turchia o l’Egitto, seppure con gradi diversi di violenza oppressiva. Per questa mobilitazione di piazza, certamente la più massiva dal dopoguerra a oggi, bastino ora alcune scritte e cartelli che mettiamo semplicemente in fila. Su Dio e la religione: Rire bordel de dieu, Dieu est humour, l’umanità prima della religione; sulle differenze: siamo tutti francesi siamo tutti ebrei siamo tutti mussulmani siamo tutti Charlie Hebdò, io sono ebreo io sono mussulman io sono poliziotto io sono Charlie, coltiviamo le differenze restiamo uniti; sulla paura I am not afraid je suis la Republique, non ho paura io sono la Repubblica; sul diritto al dissenso ecco una parafrasi di una famosa frase di Voltaire io disapprovo quel che dici ma darei la vita per continuare a non essere d’accordo con te; ma da qualche parte si combatte ci ricordano i più militanti quindi Kobane Charlie meme combat; nè può mancare il richiamo ideologico: il capitalismo e le religioni totalitarie ci dividono, l’arte e la libertà ci uniscono. Possiamo anche chiederci se questa eccezionale discesa in piazza dei multiformi cittadini francesi e europei possa prefigurare una nuova cittadinanza europea, una Costituzione Europea dico fondata su Liberté Egalité Fraternité, e un corpus di diritti sociali. Non sarà cosa facile epperò almeno potrebbe da qui mettersi in cammino, lungo accidentato ma che mi pare del tutto necessario per non rimanere stritolati tra la guerra d’Ucraina, l’avanzata brutale di forze di destra e nazionaliste, le diseguaglianze estreme e ormai insopportabili tra pochissimi ricchi che hanno tutto e una moltitudine di poveri senza nulla, le aggressioni dei fascisti del terrore islamista. Infine le parole di Jeannette Bougrab compagna di Charb a un giornalista che le chiede se questa folla enorme che dice je suis Charlie non sia un forma di vittoria: “No no. Assolutamente no perché lui è morto. Non è assolutamente una vittoria. E’ una sconfitta, una tragedia per il nostro paese. E io non posso gioire all’idea che ci siano dei giovani che scendono in piazza per manifestare perché hanno ammazzato e mi hanno strappato l’essere caro che mi ha accompagnato nella vita.”

 

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L’amore di Elsa per il suo papà. A proposito dell’amore e del dolore per i morti, riportiamo di seguito la lettera che Elsa Wolinski scrive al padre Georges. Papà ci sei? Mi senti? Se ci sei, fammelo capire…mandami un disegno! Bene, bene, non puoi sentirmi. Un po’ lo sospettavo. Da quando sei morto, mi dico che tu devi finalmente sapere se Dio esiste. Tutti ti immaginano in cielo, con delle ragazze nude che ridono di te. Ma io, io so quello che stai facendo. Devi aver domandato una matita, per disegnare un tavolo, delle foglie e una lampada. E ora, sicuramente, starai disegnando due volte mamma perché lei sia con te anche lassù. Ah, e poi starai cercando un letto per un pisolino. La siesta è sacra in casa Wolinski. Sai, io dormo nel tuo letto. Sai ho dovuto cospargere la tua camera del mio profumo, perché sapeva troppo di te. È strano dormire al tuo posto. Ma io sto bene con te, là, fra i tuoi fogli. Mamma ti aveva regalato dei pantaloni, non hai avuto il tempo di metterli. A proposito, papà, ne approfitto: posso prendere i tuoi maglioni di cachemire? Papà, Elle Magazine mi ha chiesto di scriverti una lettera. Ma non ho tempo. Il telefono non smette di squillare e devo prendermi cura di mamma. Sai, lei si sta comportando bene. È sempre molto bella, come sua abitudine. Anche le mie sorelle sono là. Ci teniamo l’un l’altra. E poi ci si deve incontrare al 36, quai des Orfèvres per mandare avanti il tuo lavoro. Ho l’impressione di trovarmi in quei famosi thriller che entrambi amiamo tanto. E poi, le pompe funebri, per sceglierti un’urna e un pezzo di terra. Non ci si pensa, ma è più difficile scegliere un’urna che un paio di scarpe di Prada. Mi piacerebbe tenere l’urna con me. Ti terrei nella mia borsa, ti metterei accanto al mio letto. Papà, mi chiedo: hai sofferto? Perché è questo quello che mi angoscia, sai. Ho paura che tu abbia avuto paura. Ho paura che tu abbia sentito dolore. Non ti hanno toccato che il tronco, le ferite, non si vedono. Sei bello, in questo drappo bianco che ti avvolge. Hai l’aria felice di sempre. Non vorrei avvicinarmi troppo, non mi vuoi? Vorrei essere in grado di baciarti per l’ultima volta, ma non ci riesco. Ho chiesto alla signora dell’Istituto di Medicina Legale se si poteva coprirti, ma lei mi ha detto di no. Papà,sembra che stai dormendo. Ma tu non dormi, sei morto. Per tutti gli altri, Wolinski è ancora vivo. Ma per me te ne sei andato. Elsa ha perso il suo papà”.

 

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Je ne suis pas Charlie. Come dice sempre un mio amico: guai all’unanimità. Così mettiamo in macchina anche coloro che non ne vogliono sapere di esser Charlie per svariati motivi. Alcuni per distinguersi a tutti i costi non amando il comune, ciò che è comune a tutti gli esseri umani, se no dove va a finire la mia individualità, ciò che mi fa singolo e singolare. Non è semplice fiera delle vanità e/o una cretinaggine piccolo borghese – a volte mi scappa un linguaggio d’altri tempi come quando mi sveglio pensando di essere comunista, e poi man mano che il giorno avanza mi rendo conto trattarsi di una nevrosi. E’ la consapevolezza che nella notte in cui tutte le vacche sono nere, si smarrisce spesso il senso e significato delle cose, le migliori come le peggiori. Insomma non bisogna mai portare il cervello all’ammasso. Quindi comincio. Già l’8 gennaio mattina il Financial Times scrive che in fondo in fondo i redattori di Charlie Habdò se la sono cercata. Sarà pregiudizio ma dal giornale porta bandiera del capitalismo libero e selvaggio, nonchè alfiere della speculazione finanziaria, me lo aspettavo. Per due motivi. Primo perché cosa vuoi che gliene importi al Financial Times se è stato falcidiato un gruppo di anarchici comunisti atei e mangia preti, residuati bellici di un maggio ‘68 dove addirittura fu incendiata la Borsa, che giusto in Francia ancora possono annidarsi in un giornale. Secondo, uno degli uccisi, l’oncle Bernard, al secolo Bernard Maris era un economista antiliberista assai noto che non disdegnava di essere consigliere della Banca di Francia, capace, scrivendo sull’economia, di demistificare i dogmi del liberismo, anzi spesso ridicolizzandoli, e chissà quante volte al Financial Times si sono sentiti presi per il culo da questo strano collega del tutto irridente la normale solidarietà di casta. Magari quel “se la sono cercata” sottintendeva nell’inconscio: “Se l’è cercata lui l’oncle Bernard”. Però ci sono alcuni/e con cui discuto accanitamente, i quali dicono che gli sghignazzanti miei eroi di Charlie hanno esagerato in provocazione, che mi sembra sul serio una affermazione esagerata, cioè out of jail per dirla con Shakespeare, o fuori dai coppi nel più rustico bolognese. E’ mai possibile che l’elementare concetto per cui la risposta a una offesa deve essere all’offesa stessa commensurata, sfugga.

Quel che apparirebbe ovvio in qualunque altra situazione, cioè che se tu m’insulti io non posso spararti e di te fare strage, anche la legittima difesa è basata su questo assunto, nel nostro caso diventi intorticolato fino all’imbecillità e alla demenza immorale. E soltanto perché si mette in questione la religione! Suvvia, a me le vostre religioni appaiono, ben oltre la formulazione di Feurbach dell’oppio dei popoli, essere vero e proprio massacro dei popoli. Adesso saltiamo all’ultimo numero il 1178, primo dopo la strage, di Charlie Hebdò. Riferiscono le cronache che qua e là, dall’Algeria alla Nigeria, folle di fanatici musulmani hanno preso a pretesto la pubblicazione per assaltare e bruciare chiese cristiane, nonchè bruciare il tricolore francese, con una ventina di morti.

Nelle foto alcuni innalzano cartelli je ne suis pas charlie, e vorrei ben vedere! Soltanto, leggendo gli articoli sui giornali italici, mi paiono tutti stranamente indulgenti. Mi domando cosa avrebbero scritto se, dopo il massacro al 10 di rue Nicolas-Appert nell’XI arrondissement di Parigi, migliaia di persone avessero attaccato le moschee. Ma al di là dei media, molti di noi avrebbero urlato giustamente che erano atti di razzismo insopportabili, e quelli di noi che fossero stati ancora con cuore e braccia militanti sarebbero accorsi a difendere quei luoghi di culto, anch’io che sono ateo. Più precisamente mi auguro e sono fiducioso che tutti coloro i quali hanno scritto, detto, pensato je suis Charlie sarebbero accorsi, perché la libertà è una e indivisibile. Il colmo della strumentalizzazione politica è comunque stato raggiunto a Grozny, dove il regime filo Putin, guidato da Ramzan Kadyrov, ha convocato una manifestazione contro l’eretica pubblicazione cui hanno partecipato parecchie centinaia di migliaia di persone. In un contorto doppio nodo questa mobilitazione comandata in nome dell’Islam e dello czar, era invece una esibizione di forza volta a tutt’altro (chi vuole saperne di più legga Adriano Sofri che di Caucaso s’intende). Ora che ci siamo liberati dei feticci, affrontiamo il problema duro.

Un bambino di otto anni viene convocato dalla polizia per essere sentito in merito a una possibile apologia di terrorismo, di cui si sarebbe macchiato rifiutandosi in qualche modo di “essere charlie”. Così il preside ha avvertito le polizia e quindi il fanciullo è stato interrogato, con tutti i crismi e le garanzie della legalità, mancherebbe altro, con il prevedibile risultato che Ahmed di terrorismo non sapeva niente di niente. Siamo a Nizza, feudo del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, ma è difficile pensare che ci sia dietro una qualche iniziativa politica. No, si tratta di un Preside invaso dalla paranoia, che come la paura, raggrinzisce lo spirito e dissecca la mente, e di una azione della polizia che ne segnala la pochezza. Ma il fatto è che proprio tra i ragazzini impuberi e adolescenti figli di famiglie francesi arabo musulmane si è misurata una riottosità consistente al minuto di silenzio per il lutto nazionale, un rifiuto a essere charlie. Non solo nelle scuole diciamo difficili, ma ovunque, anche in quelle frequentate dalla borghesia.

Il discorso meriterebbe ben più estesa e profonda analisi, qui basti dire che questi giovanissimi cittadini della Republique si riconoscono molto spesso e quasi dappertutto su base etnica. Cioè la loro identità, ormai alla terza o quarta generazione uscita dall’immigrazione, non è ancora definita dalla appartenenza alla Repubblica.

Questo è il fenomeno più inquietante, non quella ristretta minoranza di giovani che può qua e là aderire all’ideologia islamista, e magari fare il passo dell’arruolamento nella jihad. Mentre i loro fratelli maggiori, o i loro giovani genitori, magari per opposizione però con la Republique si confrontavano, cercando anche mediazioni tra la cultura tradizionale dei luoghi d’origine genitoriale e quella francese, producendo forme meticce per esempio nell’ambito musicale. Un passo decisivo fu la famosa Marche des beurs contro il razzismo. Cominciata dalla citè de le Cayolle in Marsiglia il 13 ottobre 1983 con poche decine di giovani, 36 per chi ama i numeri esatti, traversa la Francia per arrivare a Parigi il 3 dicembre accolta da oltre centomila persone. Un successo straordinario da cui nasce per esempio SOSRacisme. Lì acquistano esistenza nello spazio pubblico e identità politico sociale i beurs, i giovani immigrati di seconda generazione, creando una nuova arte di strada, una nuova musica e una nuova lingua, il verlan che sostituisce l’antico argot degli apaches parigini da allora confinato ai turisti in cerca di Jean Gabin. Finanche la filosofia accademica di Foucault, Deleuze, Guattari, Barthes ne viene contaminata. Fu un periodo entusiasmante di emancipazione e liberazione, costellato di scontri anche violenti con i poliziotti della Republique, una grande scuola di democrazia, se volete: di cittadinanza attiva. Oggi quel che lascia sgomenti è il vuoto in cui si muovono gli adolescenti di cultura arabo musulmana, ormai molto lontani dalla tradizione dei nonni e dei padri, nel contempo altrettanto lontani, separati, dalla cultura che aveva dato luogo al movimento beurs e a sos racisme. Cultura quest’ultima che va detto fu accolta da Mitterand che favorì i processi di naturalizzazione, per cui diventarono francesi milioni di immigrati, senza giungere a concedere il diritto di voto agli stranieri non europei. Epperò non riuscì a permeare la Republique in modo permanente, o meglio: senza risucire a scardinare in profondità la cultura coloniale che in parte non trascurabile modella lo stato e la società francese. Nè funziona più come mescolatore sociale e formazione civica la scuola barcamenandosi come può tra nuove forme di comunicazione e informazione, internet social networks twitter e via correndo nel mondo virtuale, e antichi programmi un tempo avanzati, oggi troppo spesso solo tediosi. Inoltre la scuola francese è attanagliata da gerarchizzazioni e diseguaglianze crescenti, potenzialmente esplosive. Anche qui il discorso sarebbe lungo, e alcuni professori, Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard hanno scritto una lettera titolata

Noi siamo Charlie. Ma siamo anche i genitori dei tre assassini”

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere (un po’ retorici NdR). Quelli di Charlie Hebdò ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo. Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti.(..). Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili.(..). Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, (..) Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna. Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera (..). Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi? (..). Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio. «Nous sommes Charlie», possiamo appuntarci sul bavero. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

D’altra parte Valls ha parlato in modo esplicito di “apartheid territoriale, sociale etnico” che affligge una parte del popolo francese, un’affermazione forte e del tutto inusuale per il primo ministro di un governo socialista e nella patria dei diritti dell’uomo. Un’affermazione che, se presa sul serio, dovrebbe dare luogo a una sorta di rivoluzione culturale che non sarà nè breve nè indolore. Certo lo choc della strage è stato grande anche per il sistema politico, e si può sperare che qualcosa abbia insegnato, senza troppe illusioni. Nel contempo il Fronte Nazionale preme alle costole, e se pure Marine Le Pen è rimasta spiazzata nella settimana di passione, oggi sta riprendendo fiato e forza.

 

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Da ultimo il rapporto dalla città assediata. Non essendo possibile trarre conclusioni, mi sono venuti in mente alcuni versi del poeta Zbigniew Herbert. “Troppo vecchio per portare le armi e lottare come gli altri/ hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista/ metto per iscritto – chissà per chi – la storia dell’assedio/../ ci è rimasto solo il luogo dell’attaccamento al luogo/ possediamo ancora rovine di templi spettri di case e giardini/ se perdiamo le rovine non ci resterà nulla/../la sera mi piace girovagare al limiti della Città/ lungo i confini della nostra incerta libertà/../ l’assedio è lungo i nemici devono darsi il cambio/ nulla li unisce tranne la voglia di annientarci/../crescono i cimiteri cala il numero dei difensori/ ma la difesa continua e continuerà fino alla fine/ e se la Città cadrà e se ne salva uno/ lui porterà in sé la Città lungo le vie dell’esilio/ lui sarà la Città/……”

 

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