Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Me la ricordo ancora quell’ultima mattina a Gaza, a fine ottobre. Con il contratto e il visto in scadenza, la macchina blindata che mi aspettava fuori dal compound per portarmi fuori, ovvero “dall’altra parte”, e nemmeno due minuti per salutare tutti i colleghi, ormai divenuti fratelli, che per circa due mesi mi hanno accolto e insegnato tonnellate di umanità e professionalità dopo 50 giorni di puro orrore.
Orrore che noi, dalla nostra gabbia dorata di Gerusalemme, dove al massimo rischi un’infezione intestinale da sushi (kosher), vivevamo con l’ansia e la paura e la disperazione ma anche la consapevolezza che noi, che eravamo al sicuro, eravamo quelli che dovevamo tenere i cervelli sani.
Per sostenere a distanza amici e colleghi, per diramare informazioni all’esterno, dato il pianto della stampa italiana, per programmare lavoro durante il conflitto in attesa di un cessate il fuoco che, come Godot, non arrivava mai. Se abbiamo avuto i nervi a pezzi noi, come credete che ce li avessero due milioni di persone strette in 360 chilometri quadrati di cui nessuno di questi era un luogo sicuro?
Quell’ultima mattina di ottobre faceva un caldo umido, quel caldo insopportabile che avevo imparato a conoscere nelle ultime settimane, il passaggio per le auto del checkpoint di Erez era in riparazione e ce ne stavamo nelle nostre macchine in attesa, con l’aria condizionata a palla, poiché anche il baretto palestinese che fa il tè a due shekel era chiuso. Due ore di attesa, nulla in confronto ai tempi cui il palestinese medio è costretto ai checkpoint, che mi sono pesate come il piombo della macchina blindata.
Due ore per digerire due mesi di lavoro post-guerra (e due anni in Palestina), tra Gaza e base a Gerusalemme, in cui ho vissuto in prima persona la macchina umanitaria che si metteva in moto, e tra un report e un cluster meeting conoscevi famiglie straziate, giravi con la jeep attraverso le macerie di Beit Hanoun, Shejayah, Khan Younis, con il respiro che ti si fermava, l’iPhone che smetteva di fare foto, che tanto ste rovine alla fine ti sembravano tutte uguali, il silenzio sceso in macchina e il nodo in gola.
E i colleghi gazani che, dopo cinquanta giorni passati in assedio in un ufficio che ospitava bambini parenti famiglie, 24 ore al giorno di lavoro e sopravvivenza, ma soprattutto sopravvivenza, dal giorno 1 del cessate il fuoco erano lì, col trauma ancora da digerire e i nervi che saltavano ad ogni chiusura di porta o rumore improvviso, pronti a ricominciare. Già esausti.
Ma da dove ricominciamo questa volta, che l’unica centrale elettrica della Striscia è danneggiata e i black-out raggiungono ancora oggi le 12-18 ore al giorno; che il 95 percento dell’acqua a Gaza è “unfit for human consumption” secondo il governo palestinese; che il carburante per alimentare stazioni elettriche, generatori, e, di conseguenza, dai macchinari salva-vita degli ospedali ai frigoriferi di casa, scarseggia; che 373mila bambini necessitano di supporto psicologico; che tutti, e dico tutti, i Gazani, hanno avuto esperienze dirette di morti, feriti, distruzioni?
Come la mettiamo quando l’ennesima guerra rade al suolo un pezzetto di terra grande quanto una provincia italiana di piccole dimensioni, che già soffriva di (in ordine sparso): chiusura dei confini – e quindi movimento di beni e persone – con Israele dal 2007; chiusura dei confini con l’Egitto, inclusi i tunnel sotterranei che per quanto illegali assicuravano un minimo di sostentamento alla popolazione assediata, dal 2013; una popolazione sotto i 18 anni che supera il 50 percento della totalità degli abitanti; disoccupazione a livelli stratosferici; vittime divenute tali perché non le si è potute curare fuori. Già, come la mettiamo?
Era da quella mattina di ottobre che aspettavo di tornare, senza sapere se e quando sarebbe successo. I miei amici, ex colleghi, continuavano a scrivermi, emta raja’ah, ma quando torni? Perché Gaza non è un posto turistico. Ci si entra solo con un visto di lavoro (israeliano), se sei un operatore umanitario o un giornalista. O un diplomatico. E anche i diplomatici a volte sono respinti. O personaggi del calibro del Dr. Mads Gilbert (sotto, in un’intervista alla BBC), chirurgo norvegese che dopo aver curato – e denunciato – gli orrori di Gaza, è stato respinto al confine israeliano “per motivi di sicurezza”, a lui e a noi ignoti.
Qualche settimana fa la capa mi dice «la settimana prossima vai a Gaza». Divento impaziente e felice come una bambina. Al quinto cancello di sicurezza, dopo i vari welcome delle soldatesse, sempre sorridenti e gentili, non sia mai, e timbri vari, mi dico che è fatta. Sono a Gaza, again.
Di là, mi aspetta la macchina blindata, il checkpoint di Fatah (“khamse-khamse”), e poi quello di Hamas (“arba-arba”), perché sì, ci sarà pure un Governo di Consenso Nazionale in Palestina, ma alla fine vuoi mettere il potere di controllare un confine – anche se solo per dieci metri di differenza?
Non è passato un giorno. Mi sembra ieri, nonostante facciano 10 gradi di meno, ma tanto posso solo stare nella macchina blindata, o in ufficio, o in guest-house, per cui la giacca che me la porto a fare.
Arrivo in ufficio e abbraccio tutti. E’ un abbraccio lungo, che va fatto dentro l’edificio perché fuori, open air, è meglio di no, che non vorrai mica mettere nei casini un amico gazano solo perché ha abbracciato una donna in pubblico?
E’ un sorriso che mi fa il giro della testa e non smetto di sorridere. Rivivo all’istante quei momenti in cui si girava per macerie, si compilavano questionari, si ascoltavano storie di amici e conoscenti, e la prima domanda che si faceva era «Come state tu e la tua famiglia? Siete al sicuro?», tra un tè alla salvia con sukkar wasat, zucchero medio, e un pane con olio e za’atar, perché l’intestino colpisce anche a Gaza, essendo l’acqua inquinatissima e, di conseguenza, frutta e verdura altrettanto. I latticini freschi, con la crisi dell’elettricità, non si trovano proprio. Scordiamoci il labneh.
Momenti intensi, pieni di dolore e vita. Ancora vividi nella mia testa, e nel mio cuore. Momenti che mi hanno riempito in questi mesi di dolore, mi hanno insegnato a vivere, perché «we teach life, Sir», e mi hanno riappacificato con l’umanità e questo lavoro da sciacallo che ti ricorda perché ti svegli ogni mattina.
La verità è che non è passato un giorno nemmeno per loro, per i Gazani.
Sono passati sei mesi dal quel tanto atteso 26 agosto, quando il cessate il fuoco è arrivato e, un po’ come nella favola di “Al lupo, al lupo”, non ci credeva più nessuno.
I giornalisti erano usciti, i piani di early recovery, pronti dalla prima settimana di guerra, dove i morti erano ancora qualche decina, erano ormai sepolti dalla polvere, e da settimane continuavamo solo a contare, contare, contare. Ore, giorni, morti, sfollati, feriti.
Una conferenza di donatori da 5.4 miliardi di dollari, due tempeste di neve, tre appelli umanitari e sei mesi dopo, Gaza è ancora lì, con le macerie da rimuovere, perché anche se la ricostruzione (che prevede prima sminamento e smaltimento delle macerie) è ufficialmente cominciata dal giorno uno, la distruzione è talmente massiccia che serviranno anni.
Il responsabile della (nostra) sicurezza ad agosto mi spiegò che su Gaza in 50 giorni era stato sganciato l’equivalente di otto bombe atomiche. A Shejayah, a Beit Layhia, a Khuza’a, è ancora tutto distrutto, come se un terremoto di scala atomica fosse finito giusto qualche ora fa, se non fosse che la polvere è bella che depositata, e con lei le speranze di un presente decente – al futuro non ci pensiamo nemmeno – di due milioni di persone.
Durante il picco della guerra, più di cento scuole erano state convertite in rifugi temporanei, una parola, temporanei, che risveglia incubi di displacement vecchi di quasi settant’anni, perché la Palestina è il posto in cui il temporaneo diventa permanente, e allora scappi di casa portandoti tutto quello che puoi, perché sai già che, come nel 1948, 1967, durante le due intifade e le ultime tre guerre a Gaza in soli sei anni, 2008-9, 2012 e 2015, molto probabilmente non ci tornerai mai più.
Oggi, circa 9,900 persone vivono ancora in 15 scuole-rifugio, in condizioni igienicamente e psicologicamente disumane.
Gli altri sfollati sono ospitati da famiglie o amici, con numeri che sfiorano le centinaia di persone per casa, o sono tornati nelle loro abitazioni in rovina, per dignità prima di tutto. Ne visito alcune di queste case. Fa freddo ed è umido, la pioggia sabbiosa è in arrivo, il vento smuove le tende e le lenzuola messe a coprire muri demoliti e finestre sventrate. Appesi ai muri restanti, poster e foto dei ‘martiri’, di chi è rimasto sotto le macerie.
Alla fine della guerra, Gaza ha contato più di 2,200 vittime, più di 540 bambini. Più di 89 famiglie sono scomparse, più di mille bambini hanno subito lesioni fisiche permanenti e più di 1,500 sono orfani. Quelli rimasti, hanno a che fare con case distrutte, classi svuotate con compagni di scuola che non ci saranno più, turni scolastici doppi, o addirittura tripli, famiglie dimezzate.
Gli adolescenti, una generazione nata sotto occupazione e maturata sotto le guerre, a cui sono state tagliate le gambe per ogni possibilità di futuro, sono la fetta sociale più a rischio. E hai voglia a dire che “i giovani frustrati costituiscono terreno fertile per i fondamentalismi”, quando poi la migliore strategia che riusciamo a concepire contro i fondamentalismi è un altro intervento armato, invece che la giustizia sociale e il multiculturalismo di Amartya Sen.
La realtà è che Gaza sta decisamente peggio di sei mesi fa.
Perché al trauma della sopravvivenza, allo shock quotidiano che per 50 giorni ti ha tenuto in vita, quando possibile, per tenere in vita gli altri, senza acqua-elettricità-luoghi sicuri, ora si è sostituita la normale vita quotidiana, che a Gaza era un incubo già prima della guerra, figuriamoci ora.
S. mi dice che non ce la fa più. Ha un ottimo lavoro, cinque figli, un nipotino appena arrivato, e vuole solo scappare, portandosi tutti dietro. Via nave, via visto turistico, azzoppandosi una gamba se necessario. Vogliamo prenderci un caffè ma deve portare la madre anziana dal medico, e ci vorranno ore. Gli ospedali funzionano a singhiozzo, tra tagli di elettricità e scioperi del personale, che non ricevono lo stipendio da mesi, dagli addetti alle pulizie ai medici.
Il Dr. Allam, capo dell’unità neonatale dell’ospedale Shifa di Gaza City, che ospita una ventina di microscopici bimbi nati prematuri in ultramoderne incubatrici, garantendo così la sopravvivenza del ben 95% (era del 70% prima dell’arrivo delle incubatrici) dei piccoli, è fiero di dirmi che nel reparto sono mesi che lavorano tutti nonostante siano senza stipendio. Non so se commuovermi o incazzarmi.
Quattro giorni passano in fretta, non faccio in tempo a salutare tutti che già devo andare via, malloppo alla gola, pensando ai cinque fratelli rimasti orfani con cui ci siamo scambiati caramelle e patatine dai colori chimici e abbracci, qualche giorno fa, mentre mi raccontavano delle loro tragedie, occhi in frantumi, inclusi i miei. E cuore pieno.
Perché Gaza ti regala sempre qualcosa da portarti a casa, e da mandare al mondo.
Io entro, esco, vado, torno. Gaza invece rimane sempre lì, sempre peggio. «Domani andrà peggio» scrive Amira Hass. Purtroppo è vero. Portate ogni speranza o voi che entrate, perché ne serve tanta.
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