Cronache da Le Val Fourré: proteggersi

«Bisogna proteggersi. Per esempio dai controlli di polizia abusivi. Io sono cresciuto così, lo so che non è normale, ma noi viviamo con queste cose» racconta Younes

 

La prima puntata – Cronache da Le Val Fourré: lo spazio
La seconda puntata – Cronache da Le Val Fourré: restituire
La terza puntata – Cronache da Le Val Fourré: camminando

 

Da Le Val Fourré (Mantes-la-Jolie, Francia),
testo e foto di Massimo Conte,

Agenzia Codici

 

Lo spaccio nel quartiere è evidente. Durante la giornata i venditori sono agli angoli dei casermoni e delle torri, alla sera sono nelle macchine in attesa delle telefonate dei clienti. Nella zona che attraversiamo c’è movimento. Si sentono chiare le voci delle vedette e vediamo altrettanto chiaramente il gruppo che presidia la piazza. Siamo a ridosso della nuova moschea in costruzione, un’area occupata da un piccolo centro commerciale semi abbandonato. Il passaggio di un furgone della polizia ci spiega perché ci sia tanto nervosismo.

Io e Fikri cerchiamo di attirare l’attenzione per fugare ogni dubbio sulla nostra scarsa pericolosità. Salutiamo il gruppo che staziona davanti al centro commerciale e proviamo a scherzare con loro, entriamo nel panificio, unico negozio aperto, per comprare del pain au chocolat. Poi ci allontaniamo.

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Prendo la macchina fotografica e comincio a fotografare dei palazzi che si vedono in lontananza. Quando riprendiamo a camminare ci sentiamo chiamare. Un ragazzo esce da un portone e viene verso di noi per chiederci cosa stessimo fotografando. Fikri comincia a spiegargli il suo progetto culturale, artistico e sociale e gli dice che io sono un giornalista italiano che vuole parlare bene della Val Fourré. Alla fine lo ringrazia del suo interessamento e di vigilare sulla zona.

In un quartiere come questo non è possibile pensare che ci sia uno stacco netto e deciso tra la vita quotidiana e i mondi della piccola delinquenza.

Non è possibile pensare che ci siano solo toni in bianco e nero. Piuttosto, è un mondo fatto di sfumature e di relazioni tra le diverse parti.

Le relazioni possono essere a volte paradossali, come quando si gestisce una piazza di spaccio a dieci metri dal cantiere della moschea. Aboubakar, storico operatore sociale della Val Fourré, parla dello spaccio con la consapevolezza che sia una risorsa come un’altra per ragazzi senza possibilità di inserimento nel mercato del lavoro.

«Qui i giovani conoscono tutti i poliziotti e sanno riconoscere anche le macchine in borghese. Quanti di loro mi dicono che è comunque un lavoro e che in pochi giorni guadagnano più di quello che guadagno io in un mese». Lui è arrivato a Mantes La Jolie nel 1991, proprio l’anno in cui sono scoppiati i primi grandi scontri tra i giovani del quartiere e la polizia. Di quegli anni ricorda la violenza e quanto lavoro ci sia voluto per trovare una soluzione di mediazione.

«A spegnere la conflittualità degli anni ’90 è stato il dialogo con i giovani perché se facevano gli scontri è perché avevano qualcosa da dire».

«La municipalità ha iniziato le ristrutturazioni e, soprattutto, ha coinvolto le associazioni del quartiere e gli abitanti perché senza di loro non puoi fare niente». La situazione del quartiere, secondo Aboubakar, è migliorata anche se resta il problema della disoccupazione e resta la stigmatizzazione subita dai ragazzi quando provano a mettere la testa fuori dalla Val Fourré.

«Il vero problema dei ragazzi è questo loro oscillare tra il dentro e il fuori. Finché sono dentro Val Fourré non hanno possibilità di avere un futuro perché qui non c’è lavoro, ma quando escono sono ricacciati indietro. Questo li fa star male, li fa restare sempre qui. Sai quante volte dico a qualcuno di loro di smetterla di restare a tenere su il muro e quante volte mi dicono che sono stati cacciati indietro? Sono tra l’incudine e il martello».

Aboubakar oggi coordina un gruppo di corrispondenti di notte. Sono operatori sociali che lavorano di notte e che hanno il compito di intervenire per affrontare le situazioni potenzialmente problematiche. I corrispondenti di notte convincono i giovani a non fare rumore, segnalano l’illuminazione pubblica che non funziona, gestiscono le conflittualità tra vicini, fanno report quotidiani inviati al Comune per programmare ulteriori interventi. Da quello che mi racconta durante il nostro incontro è uno strumento che sembra funzionare.

«Quando siamo arrivati non passava giorno senza vedere almeno una macchina bruciare, ora quando ne vedi una è perché stanno facendo una truffa all’assicurazione».

Quello che ci racconta Aboubakar è uno dei tanti interventi che hanno formalizzato e istituzionalizzato il controllo sociale che nei decenni passati era garantito dalle famiglie e dalle reti interne al quartiere. La particolarità dei corrispondenti di notte, da questo punto di vista, è la complementarietà con il controllo sociale informale: sono attivati dalle telefonate dei cittadini a una centrale operativa e per gestire i giovani ne coinvolgono i genitori, a cui sono sempre riferite le bravate di cui i figli si sono resi protagonisti.

Un’attività simile è messa in campo anche da altre realtà del quartiere. Mouhamadou con la sua associazione, per esempio, realizza un intervento che hanno chiamato degli ambasciatori di prossimità. Sono giovani del quartiere senza lavoro o usciti dal carcere che ricevono un contratto «per contribuire alla lotta contro l’inciviltà, per fare da mediatori tra i giovani e la polizia, da mediatori quando ci sono interventi di ristrutturazione o di manutenzione negli edifici».

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Mouhamadou sta crescendo nel quartiere i suoi tre figli, anche perché è convinto che le cose siano migliorate. «Francamente, il quadro di vita è cambiato e io preferisco quello che c’è oggi. Certo che provo nostalgia del passato, tanto è vero che sono ancora qui, se non fossi legato a questo posto e alla mia storia qui sarei già andato via». Mi sembra che la sua convinzione sia che le cose siano migliorate soprattutto perché sono arrivati i soldi dell’Unione Europea che ha finanziato con molti milioni di euro gli interventi di ristrutturazione. Di certo non per la volontà dei politici.

«Il problema è che gli alti dirigenti giudicano il quartiere dal suo passato. Ma come fanno quelli che parlano e non hanno mai visto quello di cui parlano? Come fai a pensare di risolvere i problemi e a nominarti portavoce di qualcosa che non hai mai vissuto, di qualcuno che non hai mai visto». Come altri in questi giorni, anche lui sente la distanza da chi ha il potere di decidere, quelli che Aboubakar chiama «i signori degli uffici con l’aria condizionata». La distanza è difficile da colmare e contribuisce a creare un malessere profondo. Ne parlo con alcuni dei giovanissimi animatori del centro gestito da Mouhamadou.Youssef, 21 anni, mi parla della sua fatica a sentirsi accettato.

«Io mi considero francese, malgrado siano gli altri a non considerarmi tale».

«Quello che il governo fa tramite noi è legittimare il proprio potere. Giocano sulla differenza dell’altro perché la differenza fa paura. Ma quante di queste persone hanno aperto il Corano o anche solo accarezzato le sue pagine? Anche in questo caso fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce». La stessa fatica la ritrova nei bambini e nei ragazzi che frequentano il centro. Bambini e ragazzi che spesso si sentono sconfitti fin dalla scuola.

«Il fallimento scolastico è perché i bambini non si fidano della Francia. I giovani non si sentono accettati dalla Francia e la rifiutano. I bambini si sentono trattati come stranieri, una volta era l’arabo e il nero, oggi si aggiunge il religioso. I bambini vivono in un immaginario che è smentito dalla discriminazione e dalla stigmatizzazione. Oggi vivono giorno per giorno e penseranno che la loro vita sarà da un’altra parte. Quando gli chiedi cosa vogliono fare non lo sanno, il loro sogno è scappato».

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D’altronde, con quale faccia si presenta lo Stato francese in questi quartieri? Io e Fikri portiamo Younes a prendere un the. Younes ha 16 anni e lavora in un negozio di frutta e verdura del mercato. Almeno, si occupa delle pulizie e della vigilanza del negozio quando non è a scuola dove studia da elettrotecnico. Non ha ancora deciso se vuole continuare a studiare. «A volte penso di sì perché se lavoro duro e arrivo ad avere un titolo più alto potrò trovare un lavoro migliore, a volte penso di no perché tanti miei amici che hanno studiato sono disoccupati».

Gli chiedo dei superpoteri che ci vogliono per crescere in un quartiere come questo, gli chiedo cosa fa insieme ai suoi amici, gli chiedo come si vede tra quindici anni. Le sue sono risposte dirette e semplici. Così mi parla delle giornate passate a fare niente, giocando a carte o aspettando che qualche mamma li mandi a fare la spesa tutti insieme. Poi dice una cosa che mi colpisce. Dice che cercano di stare in un luogo protetto, protetto dal tempo come oggi che piove e protetto dai pericoli. Ecco, il termine protetto è una lampadina che si accende. Protetto dalle cose brutte che succedono. Gli chiedo di farmi capire.

«Bisogna proteggersi. Per esempio dai controlli di polizia abusivi. Ti picchiano, ti spingono, ti insultano. Io sono cresciuto così, lo so che non è normale, ma noi viviamo con queste cose».

«Quattro mesi fa una vettura delle BAC (le Brigate anti crimine della Polizia francese) ci ha fermato mentre camminavamo. Ci hanno chiesto i documenti e durante i controlli continuavano a insultarci e a insultare i nostri genitori. Erano tutti poliziotti bianchi. Ci provocavano, aspettando che qualcuno di noi reagisse. Poi ci hanno dato i documenti e ci hanno detto che sarebbero tornati. Uno dei miei amici ha chiesto quando tornerete. Gli hanno detto torneremo, non ti preoccupare. Sono saliti in macchina, hanno fatto il giro della rotonda, sono tornati da noi, lo hanno preso e lo hanno sbattuto in macchina».

Prima di salutarlo gli chiedo di fare uno spot pubblicitario per Val Fourré. «Anche se dicono che è un quartiere sensibile troverete persone con valori, generose e gentili. E c’è un grande mercato».

 

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