La prima puntata – Cronache da Le Val Fourré: lo spazio
La seconda puntata – Cronache da Le Val Fourré: restituire
La terza puntata – Cronache da Le Val Fourré: camminando
La quarta puntata – Cronache da Le Val Fourré: proteggersi
Da Le Val Fourré (Mantes-la-Jolie, Francia),
testo e foto di Massimo Conte,
Agenzia Codici
Le Val Fourré in trasferta a Parigi. L’occasione è la presentazione del film “Ils l’ont fait”, realizzato da un collettivo di artisti e cineasti del quartiere: Rachid Akiyahou, Said Bahij, Khalid Balfoul e Majid Eddaikhane.
La storia del film è semplice.
Kalifa, un giovane francese di origine senegalese, dopo essere stato cancellato dalle liste del Centro per l’impiego decide di candidarsi come sindaco di Mantes La Jolie per cambiare la sua vita e quella degli altri residenti. Per farlo, insieme a un gruppo di gente del quartiere, dà vita a una fantomatica lista elettorale chiamata Fédération des banlieues françaises e sfida apertamente il corrotto sindaco in carica. L’obiettivo è impadronirsi delle centinaia di migliaia di euro del bilancio del Comune: una rapina senza armi e senza ostaggi, ma solo con la democrazia.
Uno dei claim pubblicitari del film recita: Ils l’ont fait è una commedia del popolo, dal popolo, per il popolo. Gli attori sono nella grande maggioranza abitanti del quartiere che hanno scelto di partecipare, mentre altri abitanti hanno messo a disposizione i propri appartamenti per girare gli interni, altri hanno aperto i propri negozi, altri ancora hanno partecipato alla campagna di autofinanziamento che ha permesso di raccogliere i fondi necessari.
Quella a cui assisto è la prima ufficiale, ma c’è già stata una prima ufficiosa con il film presentato nella sala di un centro de Le Val Fourré, malgrado il divieto del Sindaco. Posso solo immaginare cosa sia successo alla proiezione fantasma se a Parigi durante tutto il film l’entrata in scena di alcuni degli attori originari della Val Fourré è accolta da accenni di applauso, se ogni battuta è sottolineata da risa e commenti, se molti restano fermi durante i titoli di coda per leggere il proprio nome.
Il film non è solo una commedia brillante, è anche un’affermazione di orgoglio e un gesto di chiara resistenza. Molte delle scene sono state girate in locali comunali, senza chiedere alcuna autorizzazione, ma affidandosi al potere delle relazioni. A occuparsi delle pulizie dei locali sono parenti degli attori coinvolti, sono amici dei registi, sono singoli cittadini che hanno voluto dare il proprio contributo facendo una copia delle chiavi. Così ci sono scene girate nei centri sociali, nelle palestre, nelle scuole. Perfino nella sede decentrata del Comune. La sfida è lanciata in modo talmente aperto che la storia delle copie delle chiavi è raccontata in una delle scene più divertenti del film.
Incontro Rachid, uno dei registi, in uno dei bar del centro commerciale. Rachid ha cominciato ad appassionarsi alle videocamere nel 1991, proprio durante i primi e violentissimi scontri tra giovani e polizia.
“Avevo quattordici anni. C’erano tanti cameraman e sono rimasti qui tanto tempo. Mentre andavano in onda i reportage guardavo il quartiere attraverso le immagini e questo mi ha colpito. Vedevo il mercato, le famiglie, i volti che conoscevo. Mi sono fatto coinvolgere anche io e i miei vicini mi dicevano ti ho visto. Ci sono ancora i video su youtube con io che passo davanti alla camera e cerco di farmi riprendere. Mi sono trovato nel ’91 con questo sguardo rivolto all’obiettivo e non ho mai smesso”.
Al suo esordio dietro una macchina da presa, durante un corso scolastico, ha ripreso le rovine della prima torre di venti piani abbattuta. Rachid, in realtà, usa l’espressione “la prima torre dinamitata della Francia”. In questi giorni ho già sentito usare quest’espressione. Dinamitata è un neologismo locale che rende chiara la lettura che in tanti fanno degli inizi dei piani di riqualificazione del quartiere.
Anche con lui ripercorro gli anni della crescita e anche lui mi racconta di come sia stato facile e difficile al tempo stesso diventare grande in un quartiere che riempie la tua infanzia di avvenimenti ed epopee, ma che rischia sempre di essere una ragnatela da cui è difficile liberarsi.
Se ripenso alle tante chiacchierate di questi giorni mi rendo conto di essermi fatto un’immagine abbastanza chiara del potere della Val Fourré.
Il quartiere, infatti, consente ai ragazzi (purtroppo non saprei dire se vale lo stesso anche per le ragazze, grandi assenti del mio lavoro sul campo) che crescono qui di costruirsi una propria mitologia. Una collezione di eventi drammatici individuali e collettivi che strutturano l’identità perché consentono di indossare, tra le altre, la divisa del sopravvissuto, quella di chi esce più forte dalle fatiche che deve affrontare.
Inoltre, è un luogo che consente di costruire una forte sensazione di appartenenza. Quando qualcuno dice “io sono della Val Fourré” non sta solo rivendicando una mitologia comune, ma sta riconoscendo la propria appartenenza a una collettività. Un organismo sociale che ha garantito sfide difficili, ma che ha anche fornito una rete di protezione, un mondo adulto di riferimento, relazioni e ruoli sociali chiari. La rete di relazioni che ha accompagnato la crescita è spesso una rete materna e femminile, con le mamme a essere il primo veicolo dell’armonizzazione nel quotidiano delle diversità.
Rachid torna su questo punto.
“La diversità a una certa età non si vede. Siamo cresciuti insieme, per noi era normale. La diversità è diventata un’armonia. Quando vedi la mamma senegalese che tutti i giorni dice al tuo amico entra in casa, vammi a prendere una baguette, ecco i soldi, prima o poi impari una lingua e delle tradizioni diverse dalle tue”.
Proprio la forza di questi legami collettivi rischia di essere qualcosa da cui è faticoso liberarsi. Crea la convinzione di avere qualcosa da restituire, come ci hanno raccontato Mahamoud e Laouchine, ma crea anche la fatica a confrontarsi con il mondo esterno. Uso ancora le parole di Rachid per chiarire questo punto.
“I giovani oggi con la mondializzazione e con l’apertura delle frontiere dovrebbero cominciare a pensare con una mente più aperta. Dovrebbero immaginarsi in un territorio più ampio. Dovrebbero immaginarsi fuori. Ma il fuori non può essere andare da Le Val Fourré a Mantes. Il fuori è il mondo”.
Questo è proprio quello che vuole fare Fikri con il viaggio che lo ha portato da Milano a tornare a Le Val Fourré. Fikri, infatti, immagina se stesso e la sua associazione Cirqu’en liberté come dei costruttori di ponti tra il quartiere e il resto del mondo.
“Vedi, quello che vorrei fare non è solo portare qui quello che ho imparato in anni in giro: a Las Vegas con Le Cirque du Soleil, in Italia, in Palestina o in Romania nel mio lavoro con i bambini di strada. Io voglio realizzare progetti artistici e culturali che mettano in connessione i ragazzi della Val Fourré con i ragazzi di altre città. Sono convinto che in questo modo sia possibile restituire loro la dignità di cittadini del mondo”.
Non ci sono, però, solo le fatiche della crescita. Chi vive in un quartiere come questo vive costantemente in un regime di doppia stigmatizzazione. È stigmatizzato perché viene da un quartiere stigmatizzato e perché appartiene a gruppi stigmatizzati.
“In Francia sono abituati a farsi le domande sbagliate, dice Rachid. Da qualche anno è cominciata una campagna sull’identità nazionale. Questo è tipico della Francia. La Francia continua ad avere lo spirito dell’epoca coloniale e non vuole ammettere che noi stranieri possiamo far parte della Francia. Fino a oggi siamo sempre stati messi ai margini, siamo perennemente in panchina. Così distruggono le persone psicologicamente. Siamo francesi, eppure ancora ci chiedono la carta d’identità e minacciano di cacciarci. Questo vuol dire preparare il proprio fallimento”.
La mentalità coloniale, dura da smontare, mi è stata raccontata anche da Said Bahij qualche giorno fa.
“Siamo stati carne da macello durante la guerra mondiale, per nutrire i loro eserciti. Poi siamo stati carne da macello per nutrire le loro fabbriche. Oggi siamo carne da macello per nutrire il loro sistema dei media. Siamo il perfetto capro espiatorio, il frutto della grande rimozione della Francia della propria storia e delle proprie colpe. Siamo oltre la terza generazione, ma ancora non riescono a guardarci negli occhi e dire che siamo francesi”.
La gestione del rischio rappresentato da questa terza (se non quarta) generazione non riconosciuta in un quartiere come Val Fourré mi sembra passare attraverso due movimenti.
Il primo riguarda la promozione di rappresentanti dei giovani francesi di origine straniera all’interno del sistema di controllo e di riproduzione sociale. Lo fanno le ferrovie francesi affiancando ai controllori giovani delle banlieue, lo fa il Comune di Mantes La Jolie, lo fa il Governo francese. Ecco cosa dice Rachid in proposito.
“Le cose stanno cambiando. Ora sono le istituzioni a chiederci se possiamo aiutarli. Noi abbiamo rifiutato tutte le volte che ci è sembrato che stessero solo cercando di recuperare politicamente. Vent’anni fa non sarebbe stato possibile vedere così tanti operatori culturali e operatori sociali di origine straniera. Quello che diciamo è che sono messi dove è obbligatorio metterli perché non ci siano scontri. Il rischio è che siano solo usati per una forma di controllo, che a livello nazionale mettano davanti il nero o l’arabo, ma per non cambiare nulla in realtà”.
Il secondo movimento è quello della riqualificazione di una banlieue come Val Fourré.
A partire dagli anni ’90 ogni riqualificazione ha implicato la distruzione di caseggiati, lo spostamento di nuclei familiari, il cambiamento della composizione demografica dei settori. Ancora oggi, gli abitanti scommettono su quale edificio sarà abbattuto e quale sarà ristrutturato a giudicare dal suo livello di manutenzione.
Negli ultimi tempi ogni riqualificazione ha implicato la costruzione di case di proprietà rivolte a famiglie della piccola e media borghesia, per cambiare il panorama sociale della banlieue, e campagne a sostegno dell’acquisto della casa da parte di chi vive negli alloggi a canone moderato.
I due movimenti contribuiscono a smontare una comunità.
“Le Val Fourré che conosciamo è destinata a sparire, dice Said. Mantes La Jolie diventerà Mantes en Yvelines, diventerà una città metropolitana. Abbiamo smesso la nostra funzione storica e non ci sarà più bisogno di una testimonianza del passato industriale”.
Suona ironica, allora, la pubblicità che passa sullo schermo nel bar dove prendiamo l’ennesimo the alla menta.
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