Nell’anniversario della morte di Stalin, un sondaggio lo racconta rimpianto, ma è più confusione che nostalgia
Era il 1998 quando in Russia viene presentato il film Chrustalëv, la mia auto!, di Aleksej German. Il regista in passato aveva irritato le autorità sovietiche narrando senza epos gli anni della Seconda guerra mondiale, ma nel 1998 era tutto ormai cambiato; l’Unione Sovietica era andata, insieme ai suoi organi di censura, e German era libero di rappresentare le vicende del Generale Jurij Klenskij, neurochirurgo chiamato ad assistere nei primi giorni del marzo 1953 un illustre moribondo: Iosif Stalin.
Nel ritratto di German lo zar sanguinario giace immobile, gorgoglia ed emette odori mefitici. Neanche fosse un comunissimo mortale nel momento di un triviale trapasso. “E’ caduta una stella”, dice uno dei personaggi del film, poco dopo la morte di Stalin. E, di fatto, l’astro del tiranno è in caduta libera, ma non ha ancora toccato il fondo.
Nello stesso anno viene pubblicato Lardo blu, romanzo dello scrittore Vladimir Sorokin, vecchia conoscenza, come German, degli organi di censura sovietici. Lo scrittore, con un linguaggio che alterna oscenità a citazioni letterarie e immaginazione dissacrante, dipinge Stalin in un momento particolarmente intimo, quello in cui si unisce in appassionato amplesso a Nikita Chruščëv, suo successore al vertice dell’Unione Sovietica. E’ l’apice dell’iconoclastia.
E’ davvero questa la fine del mito del terribile Tamerlano sovietico, il cui nome è capace di rievocare immediatamente fosche immagini di morte e terrore? Ebbene, la risposta è no.
Secondo un’indagine del Centro di Studi sull’opinione pubblica Jurij Levada di Mosca, l’immagine di Stalin sembra vivere un momento di revival. Ma, più che di sovetskaja nostal’gija, potrebbe trattarsi di post-sovietica confusione.
I risultati del sondaggio, che ha chiamato i cittadini della Federazione Russa a esprimere una valutazione del ruolo di Stalin nella storia nazionale, è stato condotto alla fine del 2014 e mostra le seguenti cifre: il 52 percento degli interrogati attribuisce al temibile georgiano un ruolo positivo, mentre solo il 30 percento mostra attitudini negative.
Stalin, dunque, non è affatto morto. Pura fascinazione del Male? Banale amnesia? Nulla di tutto questo.
La resurrezione del mito di Stalin nell’opinione pubblica russa può essere compresa addentrandosi nella storia russa e nella natura stessa del rapporto società-Stato.
In Russia il concetto di autorità è sempre stato legato a quello di forza, l’idea di potere a quella di violenza. Lo Stato russo, dall’età degli Zar ai giorni nostri, non è mai stato espressione degli interessi della società. E’ impensabile nell’immaginario collettivo russo che lo Stato possa assolvere alla propria funzione pubblica senza ricorrere all’esercizio della forza, fatto che sfocia in una sorta di accettazione fatalista degli eccessi del potere.
Ma il ritorno del mito è soprattutto legato alle circostanze del presente. L’opinione pubblica russa, infatti, riflette con estrema fedeltà l’atteggiamento poco risoluto di governanti che non si sono mai preoccupati di tumulare definitivamente la memoria di Stalin, lasciandola libera di vagare fra i ruderi sovietici fino al momento della loro miracolosa resurrezione all’inizio del terzo millennio, quando la Russia ha dovuto creare un nuovo campionario di mitologie nazionali.
Il XX secolo era terminato portandosi dietro l’ondata di entusiasmo modernizzatore e antisovietico, che si era miseramente infranta contro le difficoltà e le turbolenze della prima fase post-comunista; non riuscendo a indicare il cammino verso il radioso avvenire, al neo-eletto Vladimir Putin non restava che rivolgersi al radioso passato.
Ricostruendo uno Stato centralizzato e militarizzato, dal carattere nettamente paternalistico, Putin ha implicitamente riabilitato il modello sovietico; inoltre, per rivitalizzare l’identità russa e creare coesione sociale intorno a un nuovo grande progetto nazionale, ha attinto largamente alle trionfalistiche narrazioni della Vittoria dell’URSS, allora guidata da Stalin, sulla Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale, o, come è più nota nella storiografia russa, la Grande Guerra Patriottica.
Riguardo ai crimini perpetrati da Stalin, nessuna condanna ufficiale è mai stata pronunciata. Nel 2007 Putin aveva visitato Butovo, luogo noto per essere stato teatro di esecuzioni di massa da parte dell’NKVD, il braccio esecutivo attraverso il quale le Autorità sovietiche mettevano in atto le repressioni. Il Presidente aveva mostrato commozione, ma solo pochi mesi dopo presenziava alle celebrazioni dell’anniversario della fondazione del FSB, erede diretto del KGB, i Servizi segreti sovietici che avevano perpetrato il massacro.
Lo stesso Dmitrij Medvedev ha governato il paese dal 2008 al 2012, prima del terzo mandato di Putin, mantenendo la stessa condotta ambivalente. Se da una parte si è spinto oltre nel prendere le distanze dai crimini staliniani, dall’altro ha dato grande enfasi al mito della Grande Guerra Patriottica.
Il ritorno del mito di Stalin non è altro che la scia dell’aura epica che ne riveste la memoria.
Stalin esiste oggi nell’immaginario comune come un’entità bifronte: da un lato, è lo spietato tiranno colpevole della morte di milioni di persone, dall’altro incarna il mito affascinante del leader forte e rispettato che ha condotto il paese verso l’esaltante Vittoria sui Nazisti, tanto più gloriosa e brillante se la si guarda sullo sfondo di un’epoca segnata da grandi difficoltà interne e declino in termini di prestigio internazionale.
Nel caos di una realtà contemporanea fatta di ombre – la crisi economica, la corruzione, l’atmosfera di violenza e impunità generalizzata e, non ultimo, il conflitto in Ucraina – l’immagine di Stalin e della sua guerra vittoriosa rappresentano il luminoso ricordo della passata grandeur.
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