La collezione di esecuzioni capitali di Albert Pierrepoint, cittadino britannico, boia di almeno 433 uomini e 17 donne, tra cui circa 200 criminali di guerra. Una candela che si consuma, senza sapere esattamente quando sarà troppo tardi. I 26 minuti di agonia di Angel Diaz, ucciso con iniezione letale nel 2006, in Florida. Un cestino pieno di fogli, ricordi delle persone che non ci sono più, e cose perdute per sempre con la loro morte. La vita tormentata di Aileen Wuornos, giustiziata nel 2002, la cui vicenda ha ispirato il film “Monster”. Un condannato a morte, un attivista che vuole salvarlo, un giustizialista e un narratore. La domanda di una bambina di 10 anni, figlia di un condannato a morte: “Lo stanno uccidendo perché lui ha ucciso. E quando lo avranno ucciso, noi chi dovremo uccidere?”.
È con queste immagini e con questa domanda che si apre “Precious: la cosa più preziosa”, il gioco di simulazione che Iacopo Frigerio, Gabriela Rotoli e Corrado Buttinelli hanno realizzato per Coyote Press insieme ad Amnesty International, e che sarà presentato a Modena in un seminario sulle potenzialità educative del giocare, nell’ambito dell’edizione 2015 di Play – Festival del gioco. Decine di pagine di informazioni sulla pena di morte e ritratti di condannati si intrecciano a un’articolata e complessa meccanica di gioco, che permette ai partecipanti di calarsi in una realtà ancora legale in circa un terzo dei paesi del mondo.
Si gioca mettendosi nei panni di chi attende l’esecuzione della pena capitale, ma anche degli attivisti che cercano di avviare campagne e moratorie per salvare i condannati. C’è anche un personaggio, il “giustizialista”, che invece rappresenta chi ritiene che la pena di morte sia, in alcuni casi, una punizione adatta e opportuna, e che giocherà con lo scopo di mettere in luce la crudeltà del condannato, e possibilmente, portare alla sua esecuzione.
Il primo germe del gioco, pubblicato nel 2014, era nato due anni prima, quando i creatori di “Precious” decidono di partecipare a “Game Chef”, un contest per lo sviluppo di giochi che per quell’anno ha come tema “Last chance”. Il regolamento chiede di creare giochi da “giocare una volta sola”, immaginando che il mondo “stia per finire”.
Niente di più simile a quanto accade a un condannato a morte che si gioca la grazia. Nel sistema di gioco il protagonista / condannato vive gli ultimi giorni prima dell’esecuzione e può cercare di salvarsi rievocando fatti e momenti della propria storia insieme. Una “liturgia della parola” – così si chiama questa parte del gioco – che potrebbe portare alla salvezza. Ma al protagonista, a differenza di Sharazad delle Mille e una notte, non basterà la forza del racconto per riconquistarsi la vita.
A decidere la sua sorte è una dinamica in parte casuale, e in parte basata sugli incontri con gli altri personaggi: l’“attivista” che tenterà di salvarlo, il “giustizialista” che invece ne metterà in luce orrori e malefatte, e il “cronista” incaricato di rimanere imparziale. “Precious” va giocato a lume di candela, la stessa che, circondata dal filo spinato, rappresenta da quasi cinquant’anni le battaglie di Amnesty International per i diritti, e che nel gioco dà il senso del tempo che passa, rendendo sempre più urgenti le scelte sulla vita o sulla morte del condannato.
“Grazie alla collaborazione del Coordinamento pena di morte della sezione italiana di Amnesty – spiegano gli autori nell’introduzione – abbiamo completato il manuale con un approfondimento sulla situazione della pena di morte nel mondo, la crudeltà della punizione, i miti da sfatare, il suo essere discriminante verso soggetti socialmente più deboli. La pena di morte è al centro dei dibattiti giuridici sulla cultura penale da più di trecento anni, dall’opera del milanese Cesare Beccaria, ‘Dei delitti e delle pene’, e non può essere trattata senza riferimenti accurati alla realtà dei fatti”.
Così, per ispirarsi alla realtà nella creazione dei propri personaggi ci si ritrova a leggere il ritratto di Aileeen Wuournos, omicida messa a morte con un’iniezione letale nel 2002, poche pagine dopo il paragrafo dedicato alla ricerca di “metodi umani per uccidere”.
“L’iniezione – si legge – evita molti degli effetti spiacevoli degli altri metodi di esecuzione: mutilazioni fisiche e sanguinamento dovuti alla decapitazione, odore di carne bruciata nel caso dell’elettrocuzione, vista e suoni sgradevoli per la camera a gas e l’impiccagione, rilascio involontario di urina e feci. Per questa ragione, può essere meno sgradevole per chi si occupa di eseguire la condanna, ma provoca comunque infinita sofferenza al condannato.
“L’agonia – prosegue il manuale – può prolungarsi per molti minuti a causa del cattivo funzionamento delle apparecchiature o della difficoltà di trovare le vene adatte dove inserire gli aghi. Se l’anestetico non agisce rapidamente, il condannato rimane cosciente, ma paralizzato, mentre l’ultimo farmaco gli provoca l’arresto cardiaco”.
Per capire davvero cosa si perde quanto una persona muore “Precious” invita chi partecipa a concentrarsi anche sulle emozioni vissute in prima persona (il manuale di gioco sconsiglia di giocare, in particolare nel ruolo del condannato, se si è da poco subito un lutto). E mentre le candele si esauriscono come le chance di vita del condannato, i giocatori/personaggi ne ripercorrono la vicenda: la vita in carcere, gli eventi che hanno portato alla condanna, la vita di tutti i giorni, l’infanzia e la famiglia di origine. Le azioni del condannato e le difese dell’attivista possono servire a guadagnare punti, chiamati “punti lanterna”, da usare alla fine per tentare di chiedere la grazia. Ma se la candela si sarà già spenta, non ci sarà nulla da fare.
Un misto di impegno personale, capacità narrativa, lotta contro il tempo e tragica casualità determina l’esito del gioco, proprio come accade nelle battaglie degli attivisti contro la pena di morte. Tra i “ritratti” proposti dal gioco non ci sono soltanto condannati, ma anche personaggi come Peter Benenson, l’avvocato inglese che nel 1961, con un articolo sui “prigionieri dimenticati” sul quotidiano “The Observer”, avviò il movimento internazionale di Amnesty international, oggi presente in 150 paesi con circa tre milioni di soci e sostenitori.
Il libro/gioco presenta anche progetti come “Journey of hope”, un’associazione nata negli Stati Uniti nel 1993, fondata da familiari di vittime di omicidio, che, dopo un percorso di guarigione, hanno scelto di impegnarsi e raccontare le proprie storie, sperando di contribuire a interrompere il ciclo di violenza. Esempi e testimonianze toccanti, come quella che Dorothea B. Moorefield, madre di un giovane assassinato a 19 anni, portò all’apertura della campagna di Amnesty l’abolizione della pena di morte, nel 1989: “Volevo che morisse lentamente, soffrendo davanti al mio sguardo. Dicevo che volevo giustizia, ma quello che volevo era semplicemente vendetta. Il momento più duro della mia guarigione è stato muovermi attraverso quell’odio”.
La pena di morte nel mondo (dati 2013)
Più dei due terzi dei paesi al mondo hanno abolito la pena di morte per legge o nella pratica. Dei paesi che ancora la mantengono, meno di una decina sono responsabili della maggior parte delle esecuzioni. Nel corso del 2013 sono state messe a morte almeno 778 persone in 22 paesi. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo, nell’ordine, in Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Usa e Somalia. Il dato complessivo non contiene, tuttavia, le migliaia di esecuzioni che si ritiene avvengano in Cina ogni anno, paese che considera la pena di morte un segreto di stato. Nel 2013 almeno tre persone sono state messe a morte in Arabia Saudita per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni. Possibili esecuzioni di minorenni sono state segnalate in Iran e Yemen. Nella maggior parte dei paesi dove ancora si pratica la condanna capitale, i procedimenti giudiziari non hanno rispettato gli standard internazionali sul giusto processo. Si registrano maltrattamenti e torture con lo scopo di estorcere “confessioni” in Afghanistan, Arabia Saudita, Autorità Palestinese (Gaza), Cina, Corea del Nord, Iran, Iraq e Pakistan. In Bielorussia, Giappone, India, Indonesia, Malesia e Sudan del Sud detenuti, avvocati e familiari non sono stati informati della loro imminente. In Bielorussia, Botswana, India e Nigeria, e in alcuni casi in Arabia Saudita e Iran, i corpi dei prigionieri messi a morte non sono stati restituiti alle famiglie per la sepoltura. Esecuzioni in pubblico sono avvenute in Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran e Somalia. Le persone continuano a essere condannate a morte per reati che non provocano direttamente vittime: traffico di droga in almeno 13 paesi dell’Asia e del Medio Oriente, “adulterio” (Arabia Saudita), “blasfemia” (Pakistan), reati finanziari (Cina, Corea del Nord, Vietnam), stupro (Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Somalia) e varie forme di rapina aggravata (Arabia Saudita, Kenya, Nigeria, Sudan). In Corea del Nord sono state riportate notizie di esecuzioni per reati di cannibalismo, appropriazione indebita, pornografia, fuga verso la Cina, corruzione e visione di filmati proibiti provenienti dalla Corea del Sud. I metodi di esecuzione utilizzati nel 2013 per mettere a morte le persone sono stati: decapitazione, elettrocuzione, fucilazione, impiccagione e iniezione letale. Alla fine dell’anno, più di 20.000 detenuti erano rinchiusi nei bracci della morte di tutto il mondo.
La deterrenza
Dopo più di tre decenni dall’abolizione della pena capitale, il tasso di omicidi del Canada resta più di un terzo inferiore a quello che era nel 1976, quando la pena di morte fu abolita. Uno studio durato 35 anni ha comparato il tasso di omicidi tra Hong Kong, dove non c’è la pena di morte, e Singapore, che ha un numero di popolazione simile ma che esegue sentenze capitali. I risultati dimostrano che la pena capitale ha un impatto molto limitato sul tasso di criminalità. Negli Usa la macro regione settentrionale ha un tasso di omicidi, calcolato su 100.000 persone, pari a circa il 4,2% a fronte di appena una decina di esecuzioni da quando la pena di morte è stata reintrodotta nel 1976. La regione meridionale, dove la maggioranza degli stati sono mantenitori ed eseguono regolarmente sentenze capitali, ha un tasso di omicidi pari a circa il 6,8% e, dal 1976, sono state messe a morte più di 1000 persone.
I costi
La California ha il sistema capitale più caro degli Usa. Nel 2008 la Commissione sulla corretta amministrazione della giustizia pubblicò un rapporto dettagliato sul sistema della pena capitale nello stato che fu, in conclusione, ritenuto “poco funzionale” e “difettoso”. Il rapporto stabilì che lo stato spendeva 137 milioni di dollari all’anno per la pena di morte. La Commissione calcolò anche il costo di un sistema molto simile a quello vigente, che avrebbe condannato gli stessi imputati alla pena dell’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, determinando un costo di 11,5 milioni di dollari all’anno. Poiché il numero delle esecuzioni in California è stato in media meno di uno ogni due anni da quando la pena di morte è stata reintrodotta nel 1976, il costo per ogni esecuzione ammonta a più di 260 milioni di dollari.
Le condanne di innocenti
Dal 1973, sono più di 140 le persone rilasciate dal braccio della morte negli Usa a seguito di sviluppi che ne hanno dimostrato l’innocenza. Alcuni di questi prigionieri sono arrivati a un passo dall’esecuzione dopo aver trascorso decenni nel braccio della morte e, in ognuno di questi casi, sono emerse caratteristiche ricorrenti: indagini poco accurate, assistenza legale inadeguata, testimoni inaffidabili e prove poco attendibili.
Il DNA
Nel mese di ottobre del 1988 l’Fbi completò l’analisi di prove biologiche su 100 casi ordinata dall’allora direttore William S. Sessions. Lo scopo dell’analisi era di consentire ai pubblici ministeri di affrontare domande sulla tecnica del Dna, una novità nell’ambito delle indagini. I risultati lasciarono il direttore e i suoi colleghi senza parole. Nel 30% dei casi il Dna raccolto durante le indagini non corrispondeva al Dna del sospettato. In tre casi su 10, quindi, era stata arrestata la persona sbagliata. “The innocence project”, un’organizzazione che si batte per liberare le persone condannate ingiustamente attraverso l’uso del test del Dna, ha salvato dall’inizio della sua attività fino al 2013 316 persone innocenti, di cui 18 condannate a morte.
La pena di morte come tortura
“I cinque anni trascorsi nel braccio della morte sono stati strazianti e orribili. Ma la vera tortura sono stati quei 31 giorni finali, dopo la conferma della mia sentenza, il 12 luglio 1991. In 72 ore le autorità della prigione iniziarono a preparare la forca, che non era lontana dalle nostre celle. Immaginate di essere imprigionati, in attesa di essere impiccati, e di sentire continuamente il rumore del ferro battuto dagli operai che preparano il patibolo destinato a voi”. Il racconto è di Selwyn Strachan, ex prigioniero del braccio della morte a Grenada. In specifiche circostanze, il tormento di essere rinchiusi nel braccio della morte, le condizioni di detenzione e il segreto che circonda l’uso della pena capitale sono stati considerati dai principali organi delle Nazioni Unite come trattamenti crudeli, disumani e degradanti, proibiti dal diritto internazionale.
La campagna di Amnesty
Fino a quando la giustizia resterà fallibile, il rischio di mandare a morte un innocente non potrà mai essere eliminato. Nell’opporsi alla pena capitale, Amnesty International non cerca in alcun modo di giustificare i crimini per i quali i condannati sono stati accusati né tanto meno di minimizzare la sofferenza delle famiglie delle vittime di omicidio. Tuttavia, la crudeltà e le finalità intrinseche alla pena di morte la rendono incompatibile con le norme di un comportamento moderno e civilizzato. Qualunque sia il metodo scelto per uccidere il condannato, l’uso della pena di morte nega la possibilità di riabilitazione, di riconciliazione e respinge l’umanità della persona che ha commesso un reato. Amnesty International ritiene che il modo corretto per prevenire la reiterazione del crimine sia una revisione delle procedure per la libertà condizionale e un serio monitoraggio psicologico durante la detenzione. Paesi dove sono avvenuti crimini su scala inimmaginabile come la Bosnia ed Erzegovina, la Germania o il Ruanda, hanno tutti espresso il loro rifiuto alla pena capitale diventando abolizionisti. Un rifiuto spontaneo, avvenuto al termine di laceranti conflitti che hanno provocato milioni di vittime. Questi paesi sono di esempio per il resto del mondo: la pena di morte è un sintomo di una cultura di violenza e non una soluzione a essa.
I ritratti di “Precious”
Sakineh Mohammadi Ashtiani, condannata nel 2007 alla pena di morte per lapidazione per adulterio (oltre che a 10 anni di carcere per il presunto concorso nell’omicidio del marito), e rilasciata nel 2014 a seguito della campagna di sensibilizzazione avviata dai due figli della donna, e appoggiata da governi, organizzazioni e celebrità. Il figlio maggiore di Sakineh, oltre ad avere promosso la campagna per salvare la madre, aveva anche scelto di concedere la grazia all’assassino del padre, che era stato così condannato a 10 anni di carcere ma non ucciso.
Iwao Hakamada, per 45 anni nel braccio della morte. Condannato nel 1968 per omicidio plurimo commesso due anni prima, resta nel braccio della morte fino al marzo 2014, quando il tribunale di Shizuoka delibera che Iwao ha diritto a un nuovo processo e ne ordina la scarcerazione. Il Giappone non commuta condanne a morte dal 1975. Le esecuzioni avvengono per impiccagione, generalmente in segreto. I condannati sono informati della loro esecuzione solo il giorno in cui essa avviene e le famiglie solitamente dopo.
Ken Saro-Wiwa, scrittore, attore, drammaturgo e attivista ambientalista nigeriano, fu impiccato nel 1995 con l’accusa di avere incitato all’omicidio di quattro capi Ogoni appartenenti alla corrente conservatrice del Mosop (Movement for survival of the Ogoni people). Il suo forte impegno ambientalista e in difesa dei diritti umani lo porta a ricoprire ruoli istituzionali negli anni Settanta, per poi porsi in aperto contrasto con le stesse autorità statali e con il governo federale della Nigeria, per il quale i diritti del popolo e la salvaguardia dell’ambiente sono questioni secondarie di fronte agli interessi economici. Si fa portavoce delle rivendicazioni degli abitanti del Delta del Niger, specialmente dell’etnia Ogoni di cui egli stesso fa parte, che si battono contro le multinazionali responsabili di continue perdite di petrolio che danneggiano le colture e l’ecosistema della zona.
Paula Cooper, colpevole a 15 anni di omicidio di Ruth Pelker insegnante di religione. Un ruolo importante nella vicenda di Paula è svolto da Bill Pelke, nipote della vittima. Inizialmente a favore della pena di morte, il giovane decide di capire il perché di quel delitto e di quella condanna. Inizia un dialogo con la ragazza e diventa uno dei maggiori sostenitori della sua causa. Il suo perdono è una delle spinte più intense alla campagna nazionale e internazionale a favore della giovane dell’Indiana e accende la miccia di numerose dimostrazioni. In carcere Paula riprende gli studi e si diploma come infermiera. Anche se la pena da scontare è elevata, la legge dell’Indiana prevede che ai trasgressori sia cancellato un giorno di detenzione per ogni giorno di buona condotta. Paula lavora alla mensa del carcere e inizia a insegnare lei stessa religione. Viene rimessa in libertà il 17 giugno 2013, dopo aver scontato 26 anni, tre settimane e tre giorni. Al momento del suo rilascio ha 43 anni.
Suor Helen Prejan, resa famosa dal film “Dead man walking”, nel 1999 promuove Moratoria 2000, una petizione per ottenere l’immediata cessazione dell’uso della pena di morte, che si trasforma in una vera e propria campagna. Alla fine del 2000, insieme ad Amnesty International, di cui è membro onorario, e alla Comunità di S. Egidio, presenta a Kofi Annan, Segretario generale delle Nazioni Unite, due milioni e mezzo di firme raccolte in tutto il mondo a favore di una moratoria sull’uso della pena capitale. Nel dicembre del 2004 pubblica il suo secondo libro, “La morte degli innocenti – Una testimonianza diretta sulla macchina della pena di morte in America”. In esso Suor Helen racconta la storia di due uomini, Dobie Gillis Williams e Joseph O’Dell, che accompagna alle rispettive esecuzioni. Convinta che entrambi siano innocenti, nel libro mette il lettore a conoscenza di tutte le prove disponibili, incluse quelle che le giurie non hanno mai preso in esame a causa dell’incompetenza degli avvocati della difesa o per le rigide formalità del procedimento giudiziario.
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