Le mani di Carlos

Monzon, pugile imbattibile, incapace di gestire la sua aggressività fuori dal ring

Cene romantiche, aperitivi in spiaggia, champagne nei locali. A Mar de La Plata, in Argentina, il San Valentino del 1988 scorreva come da tutte le parti del mondo. Chi festeggia, chi ignora.
Mani che si stringono, mani che toccano, mani che si sfiorano. E mani che stringono.

Un residence è un luogo anonimo, anche quando è più pulito e costoso di altri. Come se il rifarsi il trucco non riesca a coprire tutte le storie e le vite di passaggio che si lasciano sui muri, sui pavimenti, sulle maniglie. Maniglie che mani infinite stringono. Alcune mani stringono per rabbia, per furia cieca, che puzza di alcool e sigarette.

Un residence come mille altri, a Mar de La Plata, tra turisti occasionali, mentre alcune coppie brindano all’amore, nella notte di San Valentino del 1988, un abbraccio diventa mortale. Eros e Tanathos, avvinghiati, precipitano da un balcone. L’urto, l’urlo. La gente accorre, trafelata, si ritrova attorno a un uomo e una donna, diventa costernata. Sono Carlos Monzon e Alicia Muniz.

Che dirlo oggi, senza essere in Argentina, magari dice poco. Ma nel 1988, in Argentina, è dire tanto. Monzon è campione del mondo di boxe, persi medi. Campione come non ce ne sono più: titolo unificato, che si è ritirato mentre è in vetta, non tornando mai più sul ring come altri, per soldi o per nostalgia. Alicia è una fotomodella uruguagia, bella come il sole, sulle copertine che contano.

Deve fare un certo effetto vederli fragili, feriti, sul cemento. Lei muore, lui no. Ma in fondo si. Perché l’autopsia e le testimonianze di quelli che li hanno sentiti litigare prima della tragedia raccontano di una lite furiosa, di mani che stringono, di Alicia strangolata prima ancora di cadere dal balcone. Monzon quei colpi non li schiva. Arriva la condanna a undici anni di carcere, attenuata dalla promessa di libertà condizionata in caso di buona condotta.

Il nastro si riavvolge, nei ricordi, nelle immagini indelebili del campione. Un film che ricomincia, in ogni amico che lo va a trovare, che prova a stargli vicino, che ha anche influito su una sentenza non troppo dura, secondo alcuni, tenera di attenuanti.

E quel film racconta di una storia iniziata nel 1942, d’estate, a San Javier. Sesto di dodici figli, la fame e la migrazione verso Santa Fe. Al piccolo Carlos viene anche il tifo, ma lo vincerà, crescendo forte e veloce, come una pantera. La sua prima borsa, quando debutta professionista (nel 1963) dopo una carriera splendente tra i dilettanti, è di 3000 pesos, che corrispondono al guadagno di trenta anni di lavoro del padre.

L’Argentina, oramai, è troppo piccola per lui. C’è il mondo da prendersi. E dove, se non a Roma, la città eterna. Infligge una dura lezione al nostro Nino Benvenuti, strappandogli il titolo mondiale dei pesi medi. Benvenuti ci riprova, a Montecarlo, ma fa più male della prima volta. Fino al 1977, nessuno batterà Monzon. Griffith, Briscoe, Napoles, Tonna, Valdez. Un dominio constante, feroce.

Solo che la ferocia sul ring lo lascia campione del mondo imbattuto fino al suo ritiro, appunto nel 1977. Fuori dal ring è la sua maledizione. Mani che picchiano, mani che stringono. Mani che colpiscono le sue partner, la madre dei suoi figli come le amanti belle e famose, anche Ursula Andress. Come se Monzon, fuori dal ring, pagasse un pedaggio alla Dorian Gray alle stesse mani che sul ring gli regalano la gloria.

La vita rotola via, tentando la strada del cinema. Sarà il ‘macho’, di una banda di rapinatori. Il nomignolo se lo porterà dietro. Come una maledizione. I soldi se ne vanno dietro alle donne e all’alcool, le copertine non mancano, ma spesso raccontano i suoi eccessi. Il popolo però, non lo scorda mai. Anche in carcere.

Dal penitenziario di Las Flores può uscire, con obbligo di soggiorno notturno. Al punto che l’8 gennaio 1995 si concede una battuta di caccia con gli amici. In ritardo, la corsa verso il carcere è folle. Un sorpasso a 140 all’ora, la macchina sbanda, finisce fuori strada. E per la seconda volta occhi sbigottiti e attoniti trovano Monzon insanguinato. Solo che questa volta è morto. E le sue mani giacciono riverse, finalmente ferme.

Monzón y Alicia



Lascia un commento