L’associazione DaSud celebra quest’anno il primo decennale della sua attività in una città, Roma, che le indagini culminate con gli arresti dell’ultimo anno hanno definitivamente connotato come luogo di affari sporchi. Non solo per le mafie tradizionali che hanno preso gradualmente il controllo del territorio fin da quando i boss venivano mandati nel Lazio “al confino” – nell’illusione che in quel modo se ne potesse neutralizzare la pericolosità sociale e la capacità di organizzare nuovi sodalizi; ma anche e soprattutto per quella mafia autoctona in grado di mimetizzarsi nel tessuto sociale dove economia, politica, malaffare, appalti, corruzione si sono legate in modo sempre più stretto e indistinguibile.
Danilo Chirico, portavoce dell’associazione, mi concede l’intervista mentre accanto al Colosseo si sta svolgendo “Mammamafia”, una sorta di Monopoli declinato alla realtà nostrana, tra le iniziative previste all’interno di “Spiazziamoli”, due giorni di eventi organizzati da numerose associazioni per scuotere la città e invitare i cittadini a non dimenticare ciò che è emerso dalle indagini.
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«Quando siamo arrivati a Roma – dice Chirico – pensavamo di dover parlare delle mafie operanti al Sud, in una parte importante e cospicua del paese. Ci siamo resi conto presto che ci saremmo dovuti occupare di questa città e delle sue mafie: quelle venute da fuori con il loro traffico di droga e il riciclaggio di denaro, ma anche quella romana che si è organizzata autonomamente. Il lavoro dell’associazione racconta la verità su queste cose anche se i cittadini non sembrano volerla sentire. C’è smarrimento, incredulità ed anche complicità da parte di coloro che lavorano con i soldi della mafia. Imprese, commercianti, purtroppo anche le fasce di popolazione più deboli come quelle che vivono nelle periferie.
“Spiazziamoli” è un grande esperimento di democrazia dal basso, un appello che abbiamo lanciato in città a tutte le associazioni, chiedendo loro di attivarsi in modo autonomo. Sono sessantacinque eventi in due giorni con il coinvolgimento di centoventi associazioni. Il messaggio è che bisogna parlare di mafie, dire la verità. Le mafie sono radicate e la corruzione è estremamente diffusa; dopo questi due giorni sarà più complicato per le istituzioni ridurre tutto al discorso delle mele marce e parlare di episodi isolati di malaffare.»
Quando il Presidente del Consiglio dice che “non lasceremo Roma in mano ai ladri” che sensazioni hai?
«Commette un errore formale e sostanziale. Produce un danno rilevante perché influisce sulla percezione del fenomeno da parte delle persone. La sensazione è che ci sia incapacità di capire cosa sta succedendo e allo stesso tempo che sia in atto il tentativo di difendere un presunto buon nome della città, come se la strategia della confusione possa risultare efficace. Essere confusi e imprecisi favorisce l’arricchimento e il radicamento delle mafie, lo abbiamo visto in tutte le regioni ormai».
Ha ancora senso parlare di antimafia in Italia? Qual è lo stato di salute delle associazioni? Quale sarà l’effetto delle accuse mosse nei giorni scorsi a Montante e Helg che per un decennio hanno assunto il ruolo di paladini dell’antimafia almeno dal punto di vista istituzionale?
«Libera quest’anno compie vent’anni, DaSud ne compie dieci. Il movimento antimafia per lungo tempo è stato una straordinaria avanguardia in Italia; ha sollevato temi e discussioni importanti, addirittura ha spinto la promulgazione di nuove leggi. Oggi credo che il movimento abbia bisogno di ricominciare, ripartire da capo. Con la complicità dei mezzi d’informazione abbiamo costruito miti, personaggi, carriere producendo il modo peggiore di fare antimafia. L’antimafia deve essere di tutti, partecipata, non ha bisogno di eroi o di simboli, ma piuttosto di esempi e buone pratiche da diffondere. Bisogna creare un nuovo linguaggio. Io mi aspetto che il movimento si sciolga all’interno della società: o diventa un patrimonio di tutti o non ha motivo di essere».
In questo ventennio di antimafia uno dei punti di svolta è rappresentato dalle denunce dei cittadini che hanno trovato la voglia e la forza di ribellarsi ai clan mafiosi. Credi che anche a Roma possa avviarsi un percorso simile?
«A Roma siamo molto indietro. Per troppo tempo i cittadini che vedevano e capivano cosa stava succedendo sono stati trattati come pazzi visionari: se i cittadini di Ostia che subivano estorsioni e violenze denunciavano, ad esempio, gli veniva detto che stavano esagerando. C’è stato un ritardo nell’analisi e di conseguenza nell’azione. Adesso dei piccoli segnali ci sono, anche “Spiazziamoli!” è a suo modo un segnale. Quando abbiamo lanciato l’appello non ci saremmo aspettati una partecipazione così elevata. Occorre senz’altro che le istituzioni assumano il punto di vista antimafioso come base di partenza, da tradurre in azione politica permettendo ai cittadini una maggiore presa di coscienza».
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