«Ora è diverso». Guardando Selma, il recente film sulle lotte per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ci viene spontaneo pensarlo, nonostante da quei fatti non siano trascorsi poi così tanti anni. Barack Obama è il presidente di quegli Usa che, nel bene e nel male, riescono a fare grossi cambiamenti in poco tempo e che sono stati in grado di mettere un freno alla schiavitù degli Afro-americani. Per non parlare dell’Europa, dove ci siamo dimenticati di questo fenomeno e lo consideriamo ormai un retaggio balordo relegato nei libri di storia. Eppure, ci sono luoghi nel mondo, dove la storia è presente e dove e la schiavitù è ancora la normalità.
In Mauritania sono ancora circa 700mila le persone costrette a vivere alle dipendenze di un padrone.Sono tutti Haratin, il gruppo etnico che rappresenta il 40 per cento della popolazione, hanno la pelle nera e subiscono ogni forma di sopruso fisico e psicologico, senza distinzione di sesso o di età: fin da piccoli gli schiavi vengono costretti ai lavori forzati, a vivere in pessime condizioni, ad essere sfruttati e spesso picchiati. Ma per molti, nati così, ignari di cosa c’è fuori, è normale. È talmente normale che Saleck non capiva perché doveva approfittare dell’occasione di scappare…</h6>
E solo dopo un po’, fidandosi di un ragazzo come lui, ha deciso di lasciare la sua prigione. Quarantadue anni, nato schiavo da una madre schiava, violentata dal suo datore di lavoro, Saleck, dopo che è sopravvissuto agli stenti, all’età di quattro anni è stato portato dal suo nuovo padrone nei campi di Aleg, 250 Km dalla capitale Nouakchott.
È stato picchiato perché non crescevano gli ortaggi, è stato punito e lasciato senza cena per settimane, ma per lui non c’era alternativa. Non conosceva altra vita, fin quando non è arrivata la carovana dell’Ira, l’Iniziativa per la rinascita del movimento abolizionista, che lo ha portavo via. La madre, invece, è rimasta alle dipendenze della padrona, lasciando scappare la figlia, anche lei concepita dopo una violenza sessuale.Ora Saleck è libero, ma è ancora molto povero e non riesce a risollevarsi, nonostante il sostegno dei volontari dell’Ira hanno scarsi mezzi e nessun finanziamento. Il Governo di Mohamed Ould Abdel Aziz, infatti, ostacola in ogni modo il movimento abolizionista, considerato una vera e propria minaccia per i <em>beydane</em>, i “bianchi”.
Il suo leader, Biram Ould Dah Ould Abeid, viene periodicamente arrestato. Anche ora si trova in galera insieme al suo braccio destro Brahim Bilam Ramdhane e a Djiby Sow, leader di un’altra Ong abolizionista, (<em>Kawtal ngam Yellitaare</em>). Nonostante l’arresto sia avvenuto l’11 novembre scorso a Rosso, cittadina non lontana dal confine senegalese, e la sentenza sia stata emessa, dopo tre mesi, dal Tribunale di Nouakchott, stanno scontando la loro pena nella prigione di Aleg. Si tratta di un penitenziario, fuori dalla giurisdizione della capitale, che è stata ribattezzata “la Guantanamo della Mauritania” perché, da un lato, ha tra i suoi detenuti alcuni criminali legati ad Al Qaeda e, dall’altro, perché al suo interno non si rispettano le convenzioni internazionali contro la tortura e gli altri trattamenti crudeli.
<h6>Dalle celle, i prigionieri hanno richiesto che fossero rispettati i loro diritti, ma non è cambiato nulla e così, dallo scorso 12 febbraio, tutti e tre hanno intrapreso uno sciopero della fame per lanciare un messaggio forte alle autorità.</h6>
Niente gesti dimostrativi. Biram ha scritto un testamento per la sua famiglia e per gli attivisti, con il monito di continuare la lotta non violenta, dopodiché ha deciso di proseguire lo sciopero fino alla morte. Le cose, però, sono improvvisamente cambiate quando il vice Brahim si è sentito male e i responsabili del carcere hanno capito che la situazione poteva sfuggire loro di mano. Biram e Djiby hanno così interrotto il digiuno perché le autorità hanno deciso di assecondare alcune delle loro rivendicazioni. Le visite dei famigliari, per esempio, sono state autorizzate mentre le richieste di uno spostamento in un carcere della capitale, come prevederebbe la legge, e del rilascio di tutti gli attivisti ingiustamente incarcerati, non hanno ancora avuto risposte.
Tra questi ultimi, compagni di lotta di Biram minacciati o reclusi, c’è anche Mariem Cheikh, portavoce dell’Ira, prelevata con la forza dagli uffici sempre il giorno 11 novembre e portata nella prigione femminile di Nouakchott dove è tutt’ora rinchiusa, tra violenze fisiche e vessazioni psicologiche.
Mariem, sempre allegra, generosa e combattiva, è diventata il simbolo della lotta delle donne che, in questa battaglia per la libertà, stanno ricoprendo un ruolo fondamentale. Ogni mercoledì si incontrano, percorrono a piedi quasi 2 chilometri e vanno sotto la finestra della prigione per cantare e protestare, affinché le vengano riconosciuti i suoi diritti e venga rilasciata. A carico dell’attivista, infatti, non ci sono ancora accuse nonostante la Corte di giustizia abbia rimandato l’udienza per due volte, in attesa di recuperare delle prove contro di lei. La prossima è fissata per oggi e già tutta la comunità di seguaci dell’Ira si è organizzata per manifestare in suo favore.
Per lei, per gli altri detenuti e per Biram, in particolare, si è mossa Amnesty International, ma anche il Parlamento Europeo, che ha chiesto che i seguaci dell’Ira «vengano rilasciati senza condizioni», e il presidente Barack Obama. Del resto, la comunità internazionale conosce bene il leader dell’Ira: nel 2013 non solo si è candidato alle elezioni conquistando il dieci per cento dei consensi, ma ha anche ricevuto il Premio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
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