Sud America Coast to Coast/7

Le miniere del Potosì e il ventre della terra, nella Bolivia di Evo Morales

Incontro chi mi parla dell’opposizione a Evo Morales mentre stiamo chiudendo gli zaini per andare verso Potosì. Amanda Martin è statunitense, dal 2004 lavora con l’organizzazione no profit Etta Project per portare l’acqua potabile nei villaggi di campagna nella zona di Montero, dal 2006 lo fa in collaborazione col governo.

Anche Amanda è qui a Oruro per il carnevale. “A Oruro e nella parte andina della Bolivia Evo Morales è adorato, è quasi un idolo, ma non succede lo stesso nella parte amazzonica del paese. La cosiddetta mezzaluna verde del nord, che fin dal 2008 chiede formalmente l’indipendenza. Le differenze tra la Bolivia andina e quella amazzonica sono enormi: I K’olla, gli abitanti delle Ande, sono popoli indigeni, Aymara o Quechua, sono allevatori di alpaga – spiega – vivono in condizioni economiche misere, hanno una pazienza infinita e lavorano duro per poter produrre qualcosa a 4000 metri d’altezza. I Camba invece abitano l’amazzonica, in quelle regioni in cui la foresta sta lasciando velocemente il passo alle monocolture, nei dipartimenti di Pando, Beni, Santa Cruz, Chuquisaca e Tarija. I Camba si sentono più spagnoli che indigeni, hanno la pelle bianca, sono ganaderos che vendono soia ai brasiliani”.

Volevo saperne di più sull’opposizione a Evo Morales e mi ritrovo di fronte agli stessi problemi del Paraguay: grandi proprietari terrieri, monocolture e sementi transgeniche. Amanda mi spiega che a Santa Cruz andando in giro per strada a chiedere cosa ne pensa la gente di Evo Morales otterrei in risposta praticamente solo insulti: “Morales costringe i ganaderos a pagare le tasse e ridistribuisce la ricchezza facendo strade e reti fognarie. I ganaderos hanno avuto in gestione il potere fino a pochi anni fa e non vogliono lasciarlo facilmente. I programmi del MAS stanno veramente portando qualcosa a chi per millenni non ha avuto nulla: l’acqua corrente in villaggi dove ancora ci sono le latrine comuni”. Il MAS ha da poco distribuito 20mila case, soprannominate “le case di Evo”, sono costate allo stato circa 20’000 dollari ma vengono vendute per soli 3’000 alle fasce più bisognose della popolazione.

“Fino a pochi anni fa l’appellativo più utilizzato per descrivere gli indios era sporco”, continua Amanda, “oggi le cose da parte dei ganaderos non sono cambiate, anzi, probabilmente la rabbia e l’odio aumentano. Però al potere adesso c’è il partito di Morales, le scelte avvengono veramente dal basso in maniera sorprendentemente semplice: si fa una riunione di villaggio, si vota per alzata di mano la costruzione della strada asfaltata o delle fogne, la decisione viene comunicata al partito, se in cassa ci sono soldi a sufficienza i lavori partono. Punto e basta”.

Un socialismo dalla formula incredibilmente pragmatica. Che la Bolivia stia veramente trovando una strada alternativa per il socialismo reale? Cosa s’inventeranno i Camba del nord per cercare di sabotare questo progetto e mantenere stretto nelle loro mani il potere? Amanda mi spiega che da quando Morales è al governo la corruzione è calata notevolmente “Certo ci vuole molto tempo per cambiare certe abitudini” dice “ma oggi la situazione è molto migliore a quella del 2006”.

in galleria @Samuel Bregolin

Lasciamo Oruro in treno, direzione Potosì. I treni sono rari in Bolivia, ci sono solo due connessioni a settimana verso il sud e il capolinea a nord è Oruro, la rete non raggiunge neppure la capitale La Paz. Però i vagoni sono puliti, le poltrone comode, ho scritto una mail alle ferrovie e ho avuto risposta in giornata. Prima di salire praticamente tutti i passeggeri si fanno un selfie con la carrozza o la stazione. Viaggiare in treno in Bolivia è ancora un’emozione.

La città imperiale di Potosì fu uno dei centri di potere economico più importanti di tutte le colonie spagnole. Qui le montagne nascondono ricchezze infinite, si racconta che dal Cerro Rico, la montagna che sovrasta la città, gli spagnoli abbiamo estratto così tanto argento da poterci costruire un ponte di un metro di larghezza da qui fino a Madrid. Si dice anche che con le ossa di tutti gli indios morti per estrarre i metalli preziosi si potrebbe costruire un secondo ponte di ritorno dall’Europa a Potosì.

Alla Casa de la Moneda, dove fino agli anni settanta si stampavano le monete boliviane e che oggi è diventata un museo scopriamo che gli spagnoli residenti qui a Potosì erano più ricchi del Re di Spagna, che le loro casseforti avevano tra le tre e le dodici serrature, nascoste con meccanismi e trucchi dall’esterno. I cavalli che azionavano le enormi presse di legno per stampare le monete d’argento vivevano circa cinque mesi, succubi del lavoro che continuava ventiquattr’ore su ventiquattro.

Peggior sorte toccava agli indios incaricati di fondere i lingotti d’oro nelle fonderie e che respiravano in continuazione sali di mercurio: tre mesi era la speranza di vita media per chi lavorava in fonderia. Potosì fu un centro economico e finanziario di primaria importanza nella Spagna coloniale, le monete prodotte qui erano usate fino in Cina, dal simbolo della zecca di Potosì: un serpente che si arrampica sulle colonne d’Ercole, nacque l’attuale simbolo del dollaro. L’argento estratto dal Cerro Rico, puro al 90 percento era così soffice e malleabile che all’epoca si usava spezzare le monete in piccoli pezzi per i pagamenti quotidiani.

La storia di Potosì e del Cerro Rico però non finisce con la colonizzazione spagnola, la montagna va in gestione ad una compagnia privata inglese nel corso del 1800, prima di ritornare sotto il controllo dello stato fino al 1985, l’anno della grande crisi dello stagno. In quell’anno gli Stati Uniti emisero nel mercato internazionale grandi quantità di stagno a basso costo, abbattendo radicalmente i prezzi di acquisto. Per Potosì e per i 15’000 minatori che lavoravano nell’estrazione dei metalli fu un duro colpo. Molti vendettero l’abitazione alla quale, in quanto minatori, avevano diritto e andarono a cercare lavoro nelle campagne agricole del dipartimento di Santa Cruz o in quelle di coca nel dipartimento di Cochabamba.

un ingresso @Samuel Bregolin

Oggi il Cerro Rico, di proprietà dello stato, è dato in gestione a 33 cooperative di minatori. Lo sfruttamento del sottosuolo si fa prevalentemente in maniera artigianale, le gallerie vengono aperte a colpi di dinamite e le tecniche di lavorazione ricordano quelle del secolo scorso. Dal lunedì al sabato si lavora, i minatori passano per il mercato campesino alle prime ore dell’alba per mangiare, poi in Calle Hernandez per comprare la dinamite.

Nel sottosuolo masticano foglie di coca durante tutto il giorno, quando visitiamo le miniere in compagnia di Antonio, ex minatore, figlio e nipote di minatori, sono in molti a non voler parlare oltre alle spiegazioni tecniche del loro lavoro. “Qui gli incidenti sono assai frequenti”, ci spiega Antonio, “la maggior parte della gente che lavora nel Cerro Rico ha perso qualcuno della propria famiglia o degli amici cari”.

Ai bambini sotto ai 14 anni è vietato scendere in miniera per lavorare, anche se, durante le vacanze estive sono molti che vanno a dare una mano ai genitori. “Le donne invece non scendono in miniera per una questione culturale” continua Antonio “la montagna è sotto la protezione della Pachamama, una divinità femminile, che sarebbe gelosa di veder altre donne scendere nel sottosuolo e smetterebbe di fornire agli uomini metalli preziosi”.

Le donne lavorano in superficie, selezionano le pietre che arrivano dai carrelli in profondità, scartano le pietre di scarso valore, spaccano a colpi di martello quelle migliori per eliminare le parti inutili. Uomini e donne, pur lavorando in due ambienti diversi, condividono lo stesso destino: quello del pericolo di incidenti o di morte precoce a causa dei gas e della polvere.

Nel sottosuolo si diramano migliaia di cunicoli, l’estrazione di metalli dal Cerro Rico non ha mai smesso fin dal 1500 e dalla colonizzazione spagnola “Qua sotto è peggio di una gruviera” afferma Antonio. Poi entriamo in miniera, rozze scale di legno s’inerpicano su gallerie che scendono verticali, i cunicoli sono piccoli e bassi e ci obbligano ad abbassarci e a camminare accucciati, con gli stivali di gomma inciampiamo nel fango. Le pietre non sono sempre solide, a volte sono ricoperte di fango o polvere e la luce della lampada elettrica è insufficiente per poter vedere bene dove si mettono i piedi.

Noi scendiamo a tastoni, facendo attenzione ad ogni passo, mentre i minatori che incontriamo che ritornano dalla pausa pranzo scendono praticamente correndo per non perdere neppure un istante. “Guadagniamo in base a quello che riusciamo ad estrarre, i prezzi al chilo o alla tonnellata sono decisi dal mercato internazionale.” ci spiega Marcos, un anziano minatore che incontriamo in profondità, siamo nel terzo livello, circa una trentina di metri sotto al suolo, ma sempre a 4000 metri sul livello del mare, nei cunicoli manca l’ossigeno e per questo i minatori non smettono durate tutto il giorno di masticare foglie di coca, per non aver le vertigini Antonio ci consiglia di fare la stessa cosa e ci riempiamo la bocca di foglie.

Quello che vedo sotto al Cerro Rico mi ricorda il Germinal di Emile Zola, dove per pochi chili di carbone in più a fine giornata i minatori francesi arrivavano a rischiare la vita. Lo stagno e gli altri metalli oggi estratti dal Cerro Rico vengono venduti in Perù o in Cina.

La domenica è il giorno dedicato al riposo, il Cerro Rico è completamente deserto, camion, cariole, carrelli, picconi e attrezzi vari sono abbandonati un po’ ovunque. La vita si concentra nei quartieri popolari: donne e bambini lavano i panni a mano e li stendono sui tetti di lamiera ondulata delle piccole e umili abitazioni. Spesso due stanze sono tutto quello che una famiglia di sei o sette persone può permettersi, una stanza per il giorno e una per la notte, dormendo gli uni contro gli altri. Le abitazioni per i minatori sono costruite a schiera, in fila una dopo l’altra come nello Yorkshire inglese.

Gli uomini invece la domenica sembrano dedicarsi a una sola e unica attività: bere. Fin dal pomeriggio barcollano ubriachi uscendo dai bar o lungo i marciapiedi, stanno seduti all’ombra di un muro e si passano da una mano all’altra una tazza di plastica piena di alcool a 50 gradi. Alcuni litigano e bestemmiano contro il vuoto prima che le mogli e le figlie vengano a riprenderli di peso per portarli a letto. Sono scene che mi ricordano l’Europa dei primi del novecento e che invece qui in Bolivia a Potosì sono ancora di attualità.

 

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