Il legame, sulla carta, è piuttosto ardito. Cosa c’entra una generazione di fenomeni del tennis con il welfare state? Se lo sono chiesti gli autori Mats Holm e Ulf Roosvald, che nel libro Nar vi var baast (Quando eravamo migliori), Offside Press editore, analizzano il contesto sociale nel quale sono cresciuti i talenti di tre fenomeni.
I nomi, a volte, bastano a raccontare una storia: Mats Wilander, Bjiorn Borg, Stefan Edberg. In tre, per capirci, una Coppa Davis, 24 tornei del Grande Slam, 2 Master e una medaglia di bronzo alle Olimpiadi. Non è un palmares, è un cursus honorum. Tre persone molto diverse tra loro, tre caratteri non facili, tra l’algido e il guascone, ma in comune tre elementi: essere stati tra i più grandi giocatori di tennis della storia, essere diventati adulti tra gli anni Settanta e Ottanta, essere svedesi.
La Svezia, appunto. Per gli autori del libro, l’età dell’oro del tennis svedese non è un caso della sorte, perché coincise con l’apice insuperato del funzionamento dello stato sociale del paese nord europeo.
Per loro, quelli cresciuti in quel sistema, non dovendo preoccuparsi di costruire la socialdemocrazia e di perseguire gli ideali di uguaglianza e solidarietà, hanno potuto esprimere al massimo i loro talenti individuali.
A scuola, in Svezia, erano previsti una serie di momenti di attività libere che potevano essere dedicate allo sport. In tutto il Paese c’erano strutture, gratuite, per lo sport. Una disciplina, storicamente, riservata alle élite della società, aristocratico, per ricchi che potevano permettersi le costose quote dei circoli tennis.
L’approccio dei due autori, magari, parte dall’assioma che quella Svezia è stata l’organizzazione sociale più vicina alla perfezione che sia mai esistita nella storia della politica umana. Il meglio del socialismo, il meglio del capitalismo.
Una visione un po’ tagliata con l’accetta, ma di sicuro il famoso welfare scandinavo (che si occupava del cittadino dalla culla alla bara) è stato un’opera di ingegneria sociale di tutto rispetto.
Sarebbe curioso, con gli autori, ragionare sul celebre monologo di Lou Reed, attore nel film Blue in the face, di Paul Auster e Wayne Wang.
«Ho paura dentro casa mia, sai, ho paura ventiquattr’ore al giorno, ma non necessariamente a New York, anzi mi trovo abbastanza a mio agio a New York… mi spavento tipo… in Svezia, c’è una specie di vuoto, sono tutti ubriachi… funziona tutto, se ti fermi al semaforo e non spegni il motore… la gente ti si avvicina e ti chiede come mai, vai all’armadietto delle medicine, lo apri e dietro ci trovi un cartello che dice… in caso di suicidio chiamate il… Accendi la tv e c’è un’operazione ad un orecchio… questo mi spaventa, New York no!», racconta il mitico Lou.
Forse la verità sta nel mezzo, tra la precarietà violenta di oggi e quell’età dell’oro, che ha anche prodotto un complesso reticolato di disagi sociali e di costi. Che ci sono anche oggi, pure di più, ma con meno assistenti sociali a intervenire. In compenso, però, mentre si smonta pezzo per pezzo lo stato sociale in Europa, in Svezia resta davvero civile il sistema di protezione internazionale per coloro che fuggono dalla guerra. Magari il prossimo Ibrahimovic, nascerà ancora in Svezia.
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