Ritorno in Siria

Q CODE HA INCONTRATO A MILANO EVA ZIEDAN, GIOVANE ARCHEOLOGA IMPEGNATA CON LA SOCIETÀ CIVILE

Eva Ziedan, siriana, ha trent’anni e vive in una città che fu uno dei centri più attivi durante le rivolte del 2011. Quell’anno si trovava ad Udine dove, grazie a una borsa di studio, stava svolgendo un dottorato in Archeologia. Aveva deciso di lasciare la Siria, finché in Siria non scoppiò una delle guerre più lunghe e cruente degli ultimi due secoli. Fu allora che, racconta, «riscoprì l’importanza delle mie radici». Ritornarci diventò un’esigenza, così come lo diventò unirsi alle tante voci della Rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad. Per i primi anni riuscì a farlo solo da lontano. Se fosse partita avrebbe perso ogni possibilità di portare a termine il suo PhD. In Siria c’è ritornata solo nel 2013, a tre anni dallo scoppio della guerra.

Appoggia ancora la Rivoluzione?

«Ci credo ancora, ma ora metto la mia opinione da parte visto che lavoro con la società civile e capisco che in quest’ambito le opinioni politiche devono essere messe da parte, perché si lavora con una società divisa e lo scopo, invece, è quello di unirla in uno spazio comune. Io non posso sostenere alcuno schieramento. Ci sono migliaia di profughi, di morti e sfollati che vogliono solo vivere in pace. C’è chi da anni è detenuto nelle prigioni del regime per aver voluto, tramite la rivoluzione, una Siria migliore».

Crede che per loro si possa parlare di fallimento?
«Non si può giudicare una rivoluzione solo dopo quattro anni, tuttavia è necessario riconoscere e criticare i punti in cui abbiamo sbagliato

Quali sono questi punti?
Il movimento pacifico è stato represso con molta violenza, questo fatto ha creato una reazione forte in un silenzio internazionale e poi ha aperto il paese ai mercanti delle armi, questi non sono interessati alla pace.

E il popolo siriano ne è consapevole?
La violenza, e il timore di subirla, ha diviso i siriani che oggi si riconoscono in due bandiere senza essere consapevoli che prima delle bandiere c’è un popolo. Pensate alla gente del Nord: Idlib, una città al confine con la Turchia, è stata di fatto distrutta dal regime. Le persone lì non possono più neanche sentire il nome di Assad. In altre città, come Sweida, e in alcune zone di Damasco, l’esercito siriano viene considerato come l’ultima difesa all’avanzata dei gruppi fondamentalisti».

Presto ritornerà in Siria. Che cosa si aspetta di trovare?
«Posso dirle che mi interessa andare in giro e conoscere quante più realtà possibili, per avere un quadro generale migliore di quanto sta accadendo nel mio Paese».

Non ha paura?
«Ne ho tanta, ma viene prima la mia identità di cittadina siriana».

Dal suo racconto pare che ci siano diverse identità in Siria. Per lei che cosa significa essere cittadina siriana?
«Significa riconoscersi in una regola non scritta che confida in un processo sociale pacifico che parte dal basso. La soluzione ai drammi del mio paese non potrà mai giungere solamente dall’alto».

Se questo processo non si compirà, lei rischierà di aggiungersi a quattro milioni di profughi.
«Le rispondo con una frase di Basel Shehade, giornalista ucciso durante i bombardamenti di Homs. Lui aveva rinunciato a una borsa di studio per tornare in Siria e documentare la guerra. “Che cosa dirò a miei bambini quando invecchierò? Ho abbandonato il mio Paese per seguire la mia ambizione personale?”».

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