Lasciamo Potosì e i suoi minatori e andiamo verso il Salar de Uyuni, qui ci ritroviamo circondati dal turismo di massa: centinaia di backpackers, globetrotters, giocolieri di strada e asiatici con le Nikon al collo che sbarcano quotidianamente a Uyuni per uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo, il lago salato. Durante tutta la giornata proviamo a cercare metodi alternativi di arrivare al Salar, chiediamo per strada, alla stazione degli autobus, al mercato campesino ma non c’è nulla da fare, dobbiamo cedere e schiacciarci in una delle tante jeep dei tour operator in partenza.
Il salar de Uyuni non è solo un ambiente naturale eccezionale e una delle tappe principali della Dakar 2015 ma anche uno dei centri della geopolitica boliviana: l’industria dell’estrazione di minerali non conosce crisi. A San Cristobal c’è l’azienda privata di estrazione minerali più grande di tutta la Bolivia.
Da qualche anno qui vicino è cominciato anche lo sfruttamento del litio: un minerale che potrebbe avere un’importanza strategica globale di primaria importanza in futuro e il Salar de Uyuni è il più grande giacimento al mondo. Contemporaneamente, oltre a far gola a molte multinazionali straniere, la sua estrazione potrebbe compromettere l’equilibrio naturale del Salar de Uyuni. Cerco di parlarne con José, l’autista della jeep, che all’inizio è schivo e reticente, poi quando capisce che per fare il giornalista sono obbligato ad avere un secondo lavoro come cuoco esclama: “Allora sei un giornalista amico” e mi racconta le impressioni della gente del posto.
José vive a Uyuni da una vita, le possibili conseguenze ecologiche non sembrano preoccuparlo, “Lo stabilimento è a qualche chilometro da qui, ha creato molti nuovi posti di lavoro, in ogni caso a noi nessuno ha chiesto niente”. Ma come: non si facevano per alzata di mano le decisioni in Bolivia? Il movimento al socialismo di Morales però ha qui una giustificazione speciale, il progetto era già stato approvato dalla precedente gestione neoliberista e le estrazioni sono cominciate praticamente in piena campagna elettorale.
Da Uyuni prendiamo la strada verso La Paz, secondo le carte fatte dal governo e dall’Agencia Boliviana de Carretteras che ho visto all’inizio del viaggio questo tratto di strada è l’unico asfaltato e a doppia corsia: niente da fare, anche qui invece l’autobus corre su sassi e pietre, ufficialmente proprio a causa dei lavori in corso per la seconda corsia.
La Paz è la capitale più alta al mondo, un ammasso colorato di edifici che riempiono la vallata salendo lungo i pendii e sfiorando i picchi più alti, in lontananza gli Illimani coperti di neve regalano uno spettacolo suggestivo. Prendiamo il Mi teleferico: una delle opere più importanti e popolari della gestione Morales. La teleferica collega La Paz con El Alto, a queste altitudini più economica ed efficace della metropolitana e sembra aver fatto la gioia di migliaia di cittadini: “Prima impiegavo ore per ritornare a casa” testimonia Pablo, un avvocato che lavora per uno studio del centro e che abita a El Alto e che incontriamo in cabina del teleferico “adesso invece c’è questa meraviglia” dice allargando i palmi delle mani con un gran sorriso.
Il Mi teleferico è davvero una meraviglia, sorvola i tetti delle case popolari, solletica le cime dei palazzi del centro, s’innalza a pochi metri dalle rocce e delle cime prima di El Alto, regalando un panorama suggestivo sulla città, sui suoi cortili interni con i panni colorati stesi ad asciugare, sulle donne che preparano chissà cosa per il pranzo, sui muratori nelle palazzine in costruzione e che si arrampicano sulle impalcature di legno. Anche il prezzo del biglietto è economico, il Mi teleferico sembra aver fatto davvero la felicità di tutti. La seconda linea gialla è in servizio già da qualche mese e si prevede una terza verde per il futuro.
La teleferica arriva fino a El Alto, città dell’area metropolitana di La Paz, la più alta del mondo: oltre quota 4.000 metri. Qui il giovedì e la domenica si svolge la Feria 16 de Julio, il mercato più grande del paese dove si può trovare veramente di tutto: peluche e giochi per bambini nuovi o usati, ricambi per automobili, dai cruscotti alle balestre arrugginite, utensili per elettricisti, minatori, strumenti di cucina, dvd e cd di musica tradizionale o pop, film e serie televisive boliviane o straniere, vestiti usati, scarpe, barattoli di vernice, frutta e verdura, creme di bellezza, scooter e moto, animali, lama e pony per le foto ricordo, zuppe di verdure o macedonie di frutta con la crema. Un labirinto di bancarelle dove inevitabilmente riusciamo a perderci. Si racconta che qui in mezzo finiscano tutte le macchine fotografiche, le automobili e gli oggetti rubati del paese, secondo la leggenda si possono acquistare anche armi, sapendo a chi chiedere.
Cerco di saperne di più sull’operato del governo di Evo Morales, ho attraversato tutta la parte andina del paese e ancora non ho trovato chi apertamente critichi il MAS, anche solo giudicando dagli immensi cartelloni pubblicitari sull’operato del governo, in cui Morales spesso capeggia al centro della scena con un largo sorriso e una corona di fiori al collo, sembra veramente di aver a che fare con un idolo cinematografico.
Qui nella capitale però sembro aver più fortuna. Mauricio, un ragazzo che lavora con il turismo, dichiaratamente gay, non sostiene il MAS: “Morales non è migliore ma semplicemente meno peggio degli altri, resta un politicante come tutti”. Attraverso Mauricio riesco a incontrare il collettivo delle Mujeres Creando, un gruppo anarchico femminista che lotta per l’emancipazione femminile e il cambiamento sociale. Julietta, una delle attiviste che ci riceve nel ristorante del centro sociale, è la prima a opporsi apertamente alla politica del governo: “Questo governo si sta alleando con l’oligarchia già al potere, proprietari di industrie, grandi coltivatori. Quella che prima era una borghesia bianca al potere ora è una borghesia Aymara e Quechua, dove prima c’erano capi d’industria bianchi ora ci sono capi d’industria indios. Se prima comandava una classe media bianca ora ha preso il suo posto una classe media Aymara e Quechua, non è cambiato sostanzialmente nulla per la gente comune.” afferma Julietta, inoltrandosi negli argomenti dei quali si occupa con Mujeres Creando.
“Effettivamente il governo ha fatto una nuova legge sull’aborto, ma i medici non la applicano e resta un tabù per la maggior parte delle famiglie, le ragazze sono costrette a rivolgersi a delle cliniche abusive per pagare meno, rischiando così la vita. Nei divorzi poi è comune che l’ex marito non paghi gli alimenti, è per questo che ogni mattina con la nostra radio, Radio Deseo, leggiamo pubblicamente nomi e cognomi di tutti quei mariti che non rispettano la legge: sono molti a venire qui in associazione da noi per chiederci di smetterla, non gli resta che pagare!”.
Chiedo a Julietta della lotta tra Chulitas, una competizione, stile wrestling, fatta da donne in abiti tradizionali, molto gettonata tra i turisti “Non appoggiamo queste manifestazioni, ma resta comunque un buon agitatore sociale: dimostra che le donne possono difendersi e farcela da sole”. Le Mujeres Creando si definiscono un’organizzazione di cambiamento sociale non legata a nessun partito politico e immagino che la figura della Pachamama, divinità femminile così comunemente adorata in Bolivia, sia la benvenuta, ma mi sbaglio “La Pachamama è uno strumento del governo del MAS, una manifestazione tradizionalista voluta dalla nuova borghesia Aymara al potere.” Ho finalmente trovato chi si oppone al Movimento per il Socialismo, ma mi ha lasciato l’amara impressione che sia a priori contro qualsiasi azione del governo.
Diversa è l’opinione di Edgar Fernandez: ex minatore, sindacalista comunista dichiaratamente marxista, esiliato per anni a Londra, amico di Fidel Castro, Arafat e Chavez, soprannominato l’uragano. Oggi Edgar è il direttore degli archivi del COMIBOL, la confederazione dei minatori boliviani: “Evo Morales sta facendo un lavoro titanico” ci dice quando ci accoglie nelle poltrone in pelle nera del suo ufficio, “La Bolivia negli anni ’80 e ’90, fino alla prima metà dei 2000, è stata letteralmente distrutta. Morales la sta ricostruendo, io lo appoggio incondizionatamente”.
A casa di Mauricio dove siamo ospiti si apre un insolito dibattito. La madre di Mauricio, Fernanda, si lamenta, l’ultima donna delle pulizie si ne è andata da poco. “Era pagata a forfait settimanale, ci ha chiesto di passare a una paga oraria, ma le abbiamo detto di no”, ci dice. “Adesso prima di riuscire a trovare un’altra persona di fiducia devo fare tutto da sola”. Avevo già letto di questo argomento in un recente reportage della brava e brillante giornalista italiana Gabriella Saba: sembra che con il socialismo le donne delle pulizie abbiano scoperto gli anni di contributi arretrati mai versati.
Lasciamo La Paz in direzione Perù, decidiamo di sfuggire alla turistica Copacapana e passare per la frontiera di Desaguadero, abbiamo fortuna: arriviamo in un caratteristico e sperduto villaggio in riva al lago Titicaca, un piccolo ponte fa da frontiera e collega le due parti della cittadina, decine di risciò trasportano merce di ogni tipo da un paese all’altro, la luce del sole scintilla sulle pozzanghere della strada in terra rossa e sulle trote esposte alla vendita, la riva del lago è nascosta da un fitto canneto. Quando attraversiamo la frontiera i controlli sono più che blandi, il doganiere boliviano controlla svogliatamente il nostro passaporto e pone il timbro. Dalla parte peruviana dopo il piccolo ponte ci ritroviamo direttamente in mezzo al traffico, al punto che siamo obbligati a chiedere informazioni per trovare l’ufficio immigrazione.
Arriviamo a Juli, sulle rive del lago Titicaca, tra piccoli campi di Quinoa e allevamenti famigliari di pecore, alpaga e maiali che scorrazzano assieme, mentre le donne campesine con un bastone cercano di farli rimanere tutti uniti. Sul lago piccole imbarcazioni di legno vanno e vengono dagli allevamenti di trote. Un piccolo pontile taglia in due la sola spiaggia di sabbia della cittadina, accanto ad un grande e vuoto edificio a forma di nave, costruito in parte con i fondi della Comunità Europea. Un progetto comunitario qui in Perù? Se almeno servisse a qualcosa invece di essere abbandonato, penso.
Juli è soprannominata la piccola Roma del Perù a causa delle sue quattro chiese romaniche che orbitano attorno alla grande piazza quadrata del centro. Il parco che forma la piazza è ornato da alberi e siepi perfettamente potati in forme geometriche, mentre sulle panche ci sono solo anziani e rari turisti di passaggio che visitano le chiese. I giovani sono tutti rinchiusi dentro ai cyber café, ce ne sono almeno cinque nella piazza principale e ne vedo tre, uno accanto all’altro, nella prima traversa che imbocchiamo. Sono tutti pieni, non c’è un solo computer libero, sono concentratissimi su qualche gioco di ruolo con orchi e soldati, l’impressione è che passino lì dentro praticamente tutta la loro adolescenza.