tratto da Osservatorio Iraq
I loro testi in curdo, alcuni incentrati sull’amore gay, sono una sfida alle convenzioni, ai tabù e alle discriminazioni imposte da una società tutt’oggi omofoba e razzista. E la loro musica vuole essere un mix fresco e coinvolgente di tradizione e modernità capace di emozionare, divertire e far riflettere.
Loro sono gli Adirjam, band di Berlino che propone un melting pot di suoni e ritmi che richiamano il Medio Oriente e il Mediterraneo, fusi con armonie di musica classica, rock e punk-blues. Anima del gruppo è il musicista e cantautore curdo-tedesco Adir Jan Tekîn, che tra concerti e la preparazione del primo album, ha trovato il tempo per parlare un po’ con noi di questa sua avventura artistica e musicale.
Dove affondano le tue origini curde? E com’è nato il vostro progetto musicale?
I miei genitori si sono trasferiti in Germania nel 1971, perciò sono berlinese di nascita. Cioè, sono un berlinese curdo e ancora oggi cerco di far visita ai miei parenti e amici in Kurdistan quand’è possibile. Tuttavia, la mia vita quotidiana è sempre stata nella mia amata Berlino. Mi è sempre piaciuto cantare e qualche anno fa ho cominciato a scrivere canzoni mie e a fare musica con degli amici.
È solo dal 2013 che ho deciso di dedicarmici a livello professionale. Prima ho incontrato il nostro violoncellista Dave Sills e il chitarrista Conny Kreuter, con cui abbiamo fondato insieme gli Adirjam, e infine abbiamo conosciuto il nostro bassista Halid Pestil. Ci siamo subito intesi benissimo, sia sul campo musicale sia su quello dell’amicizia. Penso che una delle nostre qualità più belle siano l’amore e il rispetto tra noi. E posso dire che, grazie all’Universo, abbiamo riscosso un bel successo fin dall’inizio.
Vi siete definiti “la prima art rock band curda queer”. Cosa significa? Una sfida ai pregiudizi e all’intolleranza verso l’omosessualità?
Certo, siamo la prima band che fa musica con argomenti gay in curdo, almeno io non ne conosco nessun’altra. Alcuni dei miei testi partono dall’amore tra uomini, e il fatto che possano provocare qualcuno è triste, ci fa vedere lo stato attuale delle società, di tutte le società. Ma, allo stesso tempo, crea anche una certa rabbia contro la diseguaglianza. Se la nostra musica riesce a dare non solo piacere, ma anche spunti di riflessione, ossia un cambiamento d’idee, ne siamo ben lieti! Ricevere dei feedback in tal senso ti fa diventare più sensibile in quello che fai. E alla fine, è l’amore che bisogna difendere e diffondere, in tutto il mondo.
Per quanto riguarda l’altra parte della definizione, in realtà non ci definiamo più una “art rock” band, perché non facciamo davvero art rock. All’inizio ci siamo definiti in questo modo perché la nostra musica include caratteristiche di diversi generi compreso l’art rock. Ma di fatto, la nostra musica è composta da vari generi e influenze, che rispecchiano anche Berlino.
Com’è stata accolta la vostra musica, e soprattutto i testi? Da parte dei curdi… e da parte dei tedeschi. Il tema dell’omosessualità è ancora tabù?
Prima di tutto, devo dire che mi fa assolutamente incavolare quando i politici e le persone dei paesi europei occidentali puntano il dito e indicano delle persone come “altri”. È un fenomeno che ha le sue radici tra l’altro nel colonialismo. Ecco perché il problema dell’omofobia, così come della transfobia, del sessismo, del razzismo, del classismo, della discriminazione dei disabili ecc. esiste in tutto il mondo. L’omofobia in particolare è un risultato del potere del sistema sessista e imperativamente etero.
Io oggi non posso passeggiare in piazza e tenere liberamente la mano del mio eventuale fidanzato nella mia – ma questo dappertutto, né a Berlino, né a Roma, né a Londra – senza essere indicato dalla gente, oppure aggredito. Le persone trans*, per esempio, non trovano nemmeno un posto di lavoro.
Io, oggi, non riesco a trovare un appartamento facilmente, perché il mio nome non è tedesco.
Io, oggi, non ricevo nessun incentivo perché non esiste uno Stato curdo – nonostante esistano più di quaranta milioni curdi (il territorio curdo è occupato da Turchia, Iran, Iraq e Siria).
Doppie e triple discriminazioni…
Eppure la nostra musica viene accolta con grande attenzione e affetto da parte del pubblico. Ai nostri concerti viene un pubblico cosmopolita. La maggior parte già conosce i nostri argomenti e vuole sentire la nostra musica. Ma, è anche successo che, durante un concerto ad Amburgo, gli organizzatori non conoscessero i contenuti dei nostri testi. Ci avevano invitati perché apprezzavano la nostra musica. Dato che prima di ogni canzone racconto di cosa tratta, se ne sono resi conto solo al momento: il pubblico, però, ci ha risposto con grandi applausi e gli organizzatori del concerto alla fine erano contentissimi.
Ad un altro concerto a Berlino, invece, un po’ di paura l’ho avuta io, ma dopo la reazione del pubblico ho capito che sono stato io quello che ha avuto pregiudizi.
Il fatto è che quando scrivo canzoni personali, o sull’amore o sul dolore gay, non me ne frega nulla di cosa dirà la gente. Sono gay di natura. Quando invece scrivo ad esempio contro l’omofobia, questo diventa anche un mezzo per sfogarmi sia personalmente sia davanti all’uditorio, tra cui sicuramente ci saranno anche persone omofobe.
Tuttavia, cerchiamo di trasmettere il messaggio che la cosa più importante è l’amore. Invitiamo la gente a mettere l’amore al primo posto.
Alcuni dei tuoi testi toccano anche temi sociali e di attualità, come nel video di “Ay Shengal”. Tra violenze, repressione e cattiva informazione, ognuno rischia di chiudersi sempre più in se stesso… la musica può essere un buon antidoto? Specialmente una musica così “libera” come la vostra.
La musica è la lingua del cuore. La musica tocca i cuori. Ti puoi sentire assolutamente solo quando ti immergi in melodie dolorose, oppure parte dell’intero Universo quando stai ballando. A volte la musica può essere come il sesso. Queste qualità, però, danno alla musica anche un certo potere: si pensi, ad esempio, al suo ruolo nella lotta contro l’apartheid in Sudafrica, e anche al ruolo che ha per la nazione curda. Certo, come ogni mezzo di potere anche la musica può essere abusata, ma, se la fai e l’ascolti con amore e non con odio, sono certo che possa essere un buon antidoto. Basta aprirsi… Noi come band, ad esempio, non vogliamo limitarci o farci limitare né da generi musicali artificialmente costruiti, né da confini di lingue, né da qualunque censura.
A proposito di lingua, come decidi che lingua o dialetto usare nelle tue canzoni?
Di solito non controllo in quale lingua si evolve il pezzo. L’unica eccezione sono le canzoni più politiche, sui quali destinatari rifletto prima. Ma, in genere, le canzoni stesse si sviluppano dalle emozioni del momento, dall’argomento oppure addirittura dalla persona da cui sono toccato. A volte mi piace anche giocare con le lingue e con i dialetti diversi in cui mi posso esprimere, anche nella medesima canzone. Dopotutto, il mondo non è monolingue, così come i sentimenti.
Ovviamente, più del 90% dei miei brani sono in curdo: in zaza e in kurmancî per essere precisi. Lo zaza è la lingua di mia madre, e allo stesso tempo è una lingua dall’Unesco considerata in via di estinzione, per cui cerco di favorirla.
Quanto è importante la musica per il popolo curdo? E qual è per voi l’importanza della tradizione?
Cosi come la lingua, anche la musica curda è stata proibita e punita per decenni in Turchia, cioè nel Nord del Kurdistan. Un fatto, questo, che l’ha anche politicizzata. Solo qualche anno fa il regime turco ha cominciato ad allentare un po’ il suo atteggiamento verso i curdi che ormai fanno circa venti milioni della popolazione totale nei confini dello Stato turco. Nella parte occidentale occupata dalla Siria, i curdi non hanno nemmeno una cittadinanza – solo adesso colla guerra attuale questo sta cambiando.
La musica curda è stata tramandata oralmente di generazione in generazione in tutto il Kurdistan, unendo tutto il suo popolo. I temi fondamentali delle canzoni curde sono l’amore, il dolore, gli stermini vissuti, il lavoro e i poemi epici. Per me si tratta di una fonte inesauribile, anche perché c’è un’enorme varietà su tutto il territorio: io ad esempio, insieme al canto, utilizzo come strumento il tembûr, che è un tipo di liuto tradizionale. Tuttavia, mi piace la musica del mondo intero. Come Adirjam inaliamo anche le melodie che sono o hanno elementi tradizionali e le portiamo nel nostro stile, e così le attualizziamo.
Tutto questo si riflette, appunto, nel vostro stile e genere. Alla fine, avete trovato una definizione che vi calza? E quali sono gli artisti a cui vi ispirate?
Forse potremmo definire il nostro genere come Cosmop Kurdesque. Cosmopolita perché lo siamo noi e i nostri influssi. Kurdesque perché le lingue sono perlopiù curde e sia i ritmi che le melodie principali sono spesso “mediterr’orientali”, unite ad armonie di musica classica europea, occidentale e rock. Nel Kurdesque, poi, si nasconde anche la parola ‘queer’.
Ognuno di noi mette nella composizione il proprio talento e il proprio background musicale e, unendoci, creiamo uno sound armonioso e unico che ci piace tanto. Naturalmente questo significa molto lavoro, ma, vale la pena e così non manca mai la suspense! Tra gli artisti che ci hanno ispirato, ognuno nel suo modo diverso, sono Şivan Perwer, M. Arif Cizrawî, Soundgarden, Nazan Öncel, Penguin Cafe Orchestra, Beytocan, John Zorn e The Doors.
“Janaki Mou” (Janaki Mio) e “Sêva Sor” (Mela Rossa) sono canzoni d’amore, “Keskesor” (Arcobaleno) è un pezzo ispirato dall’omicidio, avvenuto nel 2013 nella provincia curda di Diyarbekir, del diciassettenne R.Ç., ucciso dal proprio padre perché gay; ancora, “Ay Shengal” parla del tentativo di genocidio degli ezidi curdi da parte dell’Isis; questo tanto per citare alcune delle vostre canzoni più belle. Qual è quella che più vi rappresenta e perché?
Ogni nostra canzone ha tante qualità diverse che non riusciremmo mai a essere d’accordo su una sola risposta. Tutte sono noi e noi siamo tutte.