Cristo si è fermato a Qalandya

Storie di vita quotidiana da una terra non troppo santa

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

La prima notte a Gerusalemme, un agosto di circa dieci anni fa, fu allo stesso tempo un sogno ed un incubo. Un sogno perché ero infine nella città più magica della terra, a toccare con mano ciò che da anni studiavo su libri e articoli, ad osservare affascinata la luce del tramonto sulle cupole e i tetti chiari della città vecchia, avvolta nell’aroma dei sacchi di verdure e nel chiasso del mercato.

Chiunque si sarebbe innamorato in quel posto, di quel posto. Un incubo perché avevo completamente sottovalutato il 30 gradi estivi, la preghiera del muezzin e l’alba che, ad agosto, avvengono circa intorno alle 4-5 di mattina. Un flash di luce calda aveva invaso la stanza dell’ostello, rigidamente segregato tra uomini ad un piano e donne ad un altro, e mi ero ritrovata in un bagno di sudore sul letto a castello di metallo, stordita. E sentendomi, diciamolo, anche un po’ scema.

Negli anni ho trovato i miei posti, i miei negozianti di fiducia, i miei angoli preferiti. Ogni volta scopro qualcosa di nuovo, assaggio un pane da un fornaio diverso, o semplicemente ritrovo conforto e piacere in percorsi ormai familiari. Lavorandoci, ho avuto la fortuna di scovare luoghi, conoscere persone ed ascoltare storie che il turista di passaggio non conoscerà mai.

Perché, togliendosi le lenti da orientalista, Gerusalemme è una città tanto magica quanto crudele. E la città vecchia è la sua piccola grande corte dei miracoli, dove in nome della sopravvivenza, possibilmente con la dignità che contraddistingue tutte le persone che finora ho incontrato, se sei palestinese devi scendere a compromessi non sempre facili, economicamente, eticamente.

Partiamo dalle basi: qui nessuno è neutrale, nessuno ha un “impatto zero” sul contesto, e nessuno ne rimane incontaminato. Ognuno ha il suo compromesso con la realtà israeliana e quella palestinese, due delle mille e mille identità di Gerusalemme. Ogni attimo di vita è una scelta – se hai il privilegio di poterlo fare: dove faccio la spesa? Dove abito?

Quando finalmente ti rendi conto che il supermercato palestinese vende prodotti israeliani e il colono di Gerusalemme Est va a fare rifornimento alla pompa di benzina palestinese capisci che non è tutto o bianco o nero, ma miliardi di sfumature di grigio. Dettate da scelta sì, ma anche convenienza, sopravvivenza, esistenza.
L’unica alternativa al fanatismo è il compromesso, scrive Amos Oz.

Ci si abitua presto a convivere con le peculiarità di Gerusalemme, che non sono solo fucili automatici accanto a veli e moschee accanto a chiese e sinagoghe. Se non fosse che il problema di fondo è che non tutti possono scegliere allo stesso modo.
A., ingegnere palestinese cinquantenne, non guida mai la macchina se va a cena fuori. Perché, gli chiedo? Non voglio essere fermato con il tasso alcolico alto. Mi ritirano il permesso.

I palestinesi di Gerusalemme, cioè quelli che si sono ritrovati all’interno dei confini municipali israeliani stabiliti de facto nel 1967, e poi nel lato orientale del muro di separazione, costruito negli anni duemila, potevano accettare la cittadinanza israeliana – accettando quindi il controllo israeliano sulla città, o rimanere “palestinesi” al prezzo, non troppo economico, di rimanere apolidi. Senza patria. Residenti permanenti a casa loro. Se avessero preso la nazionalità giordana, o la residenza in West Bank (o Gaza), se fossero andati all’estero, avrebbero perso ogni diritto di rimanere a vivere nella città che, santa o meno, rimaneva comunque la loro casa natale.

È la politica del “centre of life”, mi spiegano al municipio. Ogni palestinese deve dimostrare che Gerusalemme è il centro della sua via, tramite presentazione ricorrente di bollette, spese mediche, iscrizioni scolastiche e anche presenza fisica, pena l’annullamento del permesso di residenza. Se si lascia Gerusalemme per più di sette anni, se si va a vivere all’estero o in altre aree della Palestina, si perde il permesso. La ‘residenza permanente’ non si può trasmettere ai figli, né ai coniugi.

Love Stories for Social Justice from Visualizing Palestine on Vimeo.

Le corti israeliane sono piene di casi di ricongiungimenti familiari che richiedono anni per essere risolti, senza la certezza di una soluzione positiva. Quando succede, è una festa, si brinda con abbondanti porzioni di kunefah calde e tè alla salvia. Cosa festeggiamo oggi, chiedo entrando in ufficio e avvistando la teglia fumante sulla scrivania apparecchiata. B. ha ottenuto il permesso per Gerusalemme. Non dovrà più uscire da Qalandya, il grande checkpoint a nord di Gerusalemme, entro le dieci di sera, o pernottare ‘illegalmente’ in città assieme alla sua famiglia, sperando di non essere scoperto – e, nel caso, bruciandosi ogni possibilità presente e futura di qualsiasi altro permesso.

Così come a Gaza si festeggia il ritorno dell’elettricità, cosa ormai sempre più rara dato l’ultimo stop dell’unica centrale elettrica della Striscia proprio qualche settimana fa, a Gerusalemme si festeggiano i permessi. Una tessera elettronica in un fodero celeste – è verde per i residenti di Gaza, arancione per quelli della West Bank, secondo l’eterna regola divide et impera, che vale più di qualsiasi altra cosa, e ti concede l’onore – e l’onere – di vivere a casa tua. E di non potertene mai andare, pena la perdita dell’onore di cui sopra. Questo limbo esistenziale, giuridicamente ben definito, insieme alle altre preoccupazioni e incertezze del presente e dell’immediato futuro, accompagna la vita di ogni palestinese a Gerusalemme.

La città vecchia, in questo, è una cartolina che fa tenerezza e rabbia. Tenerezza per le persone che ci abitano, di solito tenute lì dai famigliari “a presenziare” le case per non lasciarle disabitate. Vivere dentro le mura può essere poetico, ma è senza dubbio scomodo. D’improvviso scovi famiglie di dieci persone in una casa semisotterranea di due stanze, pollai nei cortili interni e pezzi di pane lasciati ai bordi delle strade – il pane non si butta mai, si lascia, secondo un’antica tradizione gerosolimitana, per i viandanti affamati – negozi di arrotini e magazzini ricavati dentro un khan, famiglie che vivono in antichi complesssi mamelucchi, come la Madrasa al Kilaniyyah, magari da generazioni, e che vivono di sussidi per la disabilità o la povertà.

Rabbia per la realtà che scopri appena devî dalle vie turistiche. Anche la città vecchia fa parte, con grande orgoglio israeliano, della Gerusalemme Est occupata e ricade quindi sotto l’autorità della municipalità israeliana. Eppure pulizia delle strade, illuminazione, accesso all’acqua, connessioni fognarie non arrivano. Servono permessi per apportare qualsiasi tipo di modifica interna alle case. Questo spiega l’alta densità abitativa per abitazione. Poiché le famiglie non si possono allargare fisicamente nonostante la naturale espansione demografica, si finisce per dividere le stanze con tramezzi fatti in casa o usarle come salotto di giorno e camere da letto la sera.

La necessità di non abbandonare a nessun costo il luogo di origine fa sì che ci siano situazioni disperate di persone che vivono in ogni angolo possibile, sfidando le regole dei permessi e cercando di resistere come si può all’avanzata dei coloni. Non è un segreto che le associazioni dei coloni, mi conferma un avvocato israeliano, comprino, nemmeno troppo indiscretamente, case palestinesi attraverso intermediari – ai palestinesi è de facto vietata la vendita delle case agli israeliani.

Che se le case sono disabitate è molto facile che siano presto riempite da coloni. Che basta un lavoro fatto senza permesso per avere l’abitazione dichiarata illegale e soggetta a demolizione o sfratto. Che in moltissimi casi è impossibile risalire ai documenti di origine di proprietà delle case, data la sovrapposizione di catasto ottomano, giordano, di beni waqf e religiosi, e chi più ne ha più ne metta.

La protezione della presenza fisica e giuridica, incluse abitazioni e vite dignitose, diventa quindi essenziale per proteggere identità, esistenza, accesso ai diritti sociali, economici, politici. Civili. Se le usanze comunitarie non sono generose e comprensive con chi decide, nonostante tutto, o magari per mancanza di alternative, di lasciare la città, nella città vecchia esiste un microcosmo di reti informali, di sheikh, diwan e clan, che da anni, decenni, secoli sono abituati ad amministrarsi e a mantenere la convivenza pacifica tra le varie comunità del chilometro quadrato più antico della terra.

Ma le politiche urbanistiche municipali, la necessità di rispettare la proporzione demografica del 70/30 – ribadita anche nel piano regolatore Jerusalem 2000 – e la geopolitica della città di confine più contesa e affascinante della storia rendono la vita quotidiana una sfida alla sopravvivenza, in forme a volte crudeli, umilianti, disumane.

Basta uscire dalle vie centrali del mercato e passeggiare nei vicoli umidi di Borj el Laqlaq, Bab al Hotta, o nelle aree più ad est, una per tutte Ras al Amoud, per rendersi conto che nella città delle tre religioni, forse, Cristo si è fermato a Qalandya.

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