Prima personale di Eduardo Castaldo, in una casa vissuta.
Nella casa di un decano del fotogiornalismo (Luciano Ferrara) un ancora giovane e affermato fotoreporter (Eduardo Castaldo) prova a digerire il lavoro di una vita professionale durata fino ad oggi sette anni. Gli enzimi di una quotidianità di per sé rituale servono a decostruire primavere arabe annunciate che non hanno portato all’estate (l’Egitto) e resistenze incompiute che non vedono liberazione (la Palestina). Gli urli catartici del popolo di piazza Tahir restano strozzati nel cellofan sugli scaffali di una libreria; il tutto a dispetto del sorriso infinitamente più grande di un colonnello divenuto reggente di uno stato e proiettato sulla parete rimasta libera da mobili. In un’altra stanza il sudore di ebrei ultraortodossi affeccendati nei propri rituali sembra colare sul comò. In giardino, tra le piante, c’è ancora l’immagine di Donald, clochard intellettuale scozzese che a Napoli trovò esilio esistenziale.
La mostra intitolata Erased, ovvero con la parola che sui computer ti conferma l’avvenuta, irrimediabile, cancellazione di una immagine è curata da Peppe Tortora ed è visibile in via del Tribunali 138 a Napoli dal 27 marzo fino al 19 aprile. Nei primi di aprile Castaldo e Maysa Moroni (photo editor di Internazionale) terranno un workshop sul mestiere del fotografo freelance nel contesto del mercato digitale.
Eduardo perché una casa?
Da tempo stavo cercando di uscire dalla dimensione digitale, di tornare ad avere materialità rispetto le mie foto. Stavo ragionando di come farle interagire nei contesti, magari per le strade. Poi ho incontrato Luciano Ferrara che mi ha proposto di fare la mostra a casa sua, nonostante fosse consapevole che l’avrei messa a soqquadro.
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Faticosa la metabolizzazione del tuo lavoro?
Queste foto sono state protagoniste del mainstream. Ho fotografato il punto d’incontro fra l’Oriente e la visione mediaticamente distorta dell’Oriente che ha l’Occidente. Come fotografo mi sono fermato in quell’istante dove avviene il cortocircuito. Ho sempre avvertito questo e l’ho vissuto con responsabilità. Le mie foto erano simboli facenti parte dei linguaggi di giornali di cui non condividevo il messaggio. Espongo in una casa vissuta, e in strada, per ri-appropiarmi delle mie foto, per ri-discuterle. La casa è un ambiente troppo vivo, troppo vissuto, per esporre la foto per con la sua ambigua valenza iconica. Abbiamo scelto prima le cornici, rigorosamente usate, e poi alla fine le foto.
Ma perché una tua foto, spesso frutto di tempo e dedizione, diviene oggetto di un equivoco?
Le foto si prestano all’equivoco perché ho fatto il fotografo per professione. Rispettando il mestiere ma facendo parte di un linguaggio, cercando di modificarlo dall’interno ma facendone comunque parte.. Per quanto abbia vinto il World Press (2012) non ho mai considerato questo mestiere come assolutamente appagante e soddisfacente. Qui permetteremo di scrivere sulle foto, di smontarne il simulacro. Nella camera oscura ci saranno i fronti e i retro: bambini palestinesi in scena apocalittica che lanciamo pietre tra fuochi e fiamme e dietro sessanta fotografi che fanno tutti la stessa foto mentre, magari, qualche soldato mangia il panino a sessanta metri.