Lo spirito democratico dell’esposizione universale è solo un’illusione. Sono i soldi e la forza attrattiva a guidare le scelte a favore degli attori più importanti
Pochi giorni all’apertura dei cancelli di Expo 2015, e le ombre sull’evento sono sempre più certezze. Senza entrare nel merito dell’inchiesta Incalza-Lupi, soltanto l’ultima di una lunga serie, che evidenzia una volta di più la diffusione di “operazioni illecite” perpetrate per arricchirsi con il grande evento, un dato è ormai chiaro: per la prima volta non si parla più di “qualche mela marcia” ma di un “sistema” che lega grandi opere e grandi eventi. Un passaggio di fase importante. I movimenti no-Expo da anni parlano di un ruolo comune di opere ed eventi sul territorio, così come di una sistematicità operativa utile solo al guadagno di pochi, non solo in termini economici, ma anche sociali. E anche questa ultima indagine sembra confermare le loro ragioni. L’altro particolare che emerge dalle intercettazioni è l’odio profondo di questo “sistema” nei confronti dei movimenti sociali, soprattutto i movimenti per il diritto all’abitare, come si evince dal dialogo Lupi – Di Ganci: “Tu basta che mi ordini. Io porto 200 soldati… Li ammazziamo direttamente e buona notte i suonatori” – parlando della campada post 19 ottobre 2013. Il sito di Expo 2015 non sarà pronto il Primo Maggio. Un milione di euro è stato stanziato per opere di camouflage per coprire tutto ciò che almeno fino al 30 giugno 2015 non sarà visitabile e fruibile e per cui continueranno i lavori. Un bello smacco che nemmeno la visita promozionale del premier Renzi al cantiere lo scorso 13 marzo è riuscita a coprire. Addirittura alcune inchieste dicono che solo il 18% dei lavori è al completo.
Renzi con la sua visita ha provato a spostare l’attenzione mediatica sui progressi dei lavori, ma la successiva scoperta dell’appalto camouflage ha definitivamente chiuso la partita. Cosa sarà dell’esposizione universale milanese è in parte ancora un enorme punto di domanda.
Piano piano la narrazione dell’occasione di rilancio del paese si fa sottile ed emerge sempre più chiaramente che Expo è e sarà un affare per le multinazionali, le imprese appaltatrici e poco altro. Le speranze sono flebili e l’”expottimismo” sempre meno diffuso.
La presenza di Nestlé, CocaCola, Dupont, Coop e McDonalds mostra una parte del lato contenutistico del “nutrire il pianeta secondo Expo”. Perché dall’altra parte, qualcuno potrebbe obiettare, ci sono Slow Food, Vandana Shiva e l’Expo dei Popoli. In una dinamica di orizzontalità presunta, dove senza una direzione, discussione, o determinazione di contenuto, il visitatore dovrà farsi un’idea di come risolvere il problema alimentare, la logica dello spettacolo e dei soldi è quella vincente; se nella fiera-expo ci sono mega padiglioni milionari e piccole situazioni multi gestite (cluster o cascina Triulza), l’occhio del pubblico da cosa sarà attratto?
Questa è la democrazia di Expo, una democrazia de facto, falsamente orizzontale, dove i soldi e la forza attrattiva determinano le scelte. Così almeno sembrerebbe. Questa idea di mettere tutto su uno “stesso piano” sembra essere l’opzione e la tendenza “commerciale” che anche con accordi bi-laterali tra paesi, come il TTIP, si vuole raggiungere. Superare i dazi non tariffari significa cancellare tutele e scelte culturali che lo stato può fornire in materia di mercato e consumi. Se sul mercato ci può stare tutto, tutto messo un piano di eguaglianza, tutto sullo stesso “apparente ” piano, la visibilità di un prodotto rispetto ad un altro è dettata dalla forza commerciale e attrattiva dello stesso. Come dire che mettendo sullo stesso piano multinazionali e piccoli produttori, cioè dando a tutti le stesse occasioni e possibilità, lo squilibrio comunicativo, economico e culturale non dà le stesse reali possibilità. TTIP ed Expo concorrono all’offerta di uno stesso scenario. Sarà un caso?
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