Che l’Amministrazione Obama non navigasse in buone acque era ormai cosa nota. Le elezioni di metà mandato del novembre scorso, in tal senso, non avevano fatto altro che tradurre in numeri e percentuali la sensazione di precarietà con la quale l’esecutivo si era trovato a fare i conti dalla rielezione del suo comandante in capo. I risultati elettorali dell’autunno 2014 parlarono, da una parte, di un partito democratico in forte crisi, diviso e incapace di fare quadrato attorno al proprio leader e, dall’altro, di un grand old party in ascesa, abile nel conquistare la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, con 54 seggi contro i 43 dei liberali.
Benché interna, la polarizzazione politica statunitense inaspritasi durante le ultime mid-terms sta avendo, come prevedibile, forti ripercussioni anche a livello internazionale. I negoziati sul nucleare iraniano – attualmente in corso e che vedono gli Stati Uniti impegnati accanto a Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania – sono l’esempio più recente ed emblematico delle profonde fratture interne agli Stati Uniti e delle difficoltà di Obama di portare avanti la propria linea politica.
All’inizio di marzo, infatti, il neoeletto senatore dell’Arkansan, Tom Cotton, ha redatto una lettera aperta indirizzata ai leader iraniani nella quale li avverte del rischio che corrono nel negoziare un accordo con l’attuale amministrazione statunitense. Rifacendosi – in maniera non del tutto esatta – alla Costituzione, infatti, l’esponente repubblicano ricorda come qualsiasi accordo siglato dal presidente americano e non ratificato in maggioranza qualificata dal Congresso sarebbe solamente un mero “accordo esecutivo” che potrebbe essere cancellato “con un colpo di penna” dal successore di Obama.
La lettera, sottoscritta da 47 senatori repubblicani, oltre ad un certo imbarazzo ha suscitato forti critiche da parte dei democratici, che parlano di un vero e proprio tentativo di sabotaggio dei negoziati da parte dell’opposizione repubblicana. Il segretario di Stato John Kerry ha definito la lettera “unprecedented” e “unthought-out” mentre il presidente Obama ha sarcasticamente fatto notare come la posizione dei senatori firmatari della missiva sia molto simile a quella degli hardliners iraniani e che questa coalizione sia quanto meno insolita.
Dal canto suo, per voce del Ministro degli Esteri Javad Zarif, la controparte iraniana ha respinto la lettera etichettandola come una semplice mossa propagandistica. La credibilità negoziale degli Stati Uniti, quindi, sembrerebbe essere rimasta intatta, almeno formalmente. Tuttavia, sarebbe ingenuo ritenere che la mossa repubblicana non abbia minato ulteriormente l’immagine dell’esecutivo americano che, conscio della centralità della questione nucleare iraniana nell’agenda politica internazionale, vede nel raggiungimento di un accordo con Teheran la possibilità di portare a casa uno storico risultato che potrebbe contribuire a mutare in positivo il giudizio sulla politica estera delle presidenze Obama, fino ad oggi tentennante e poco incisiva.
Naturalmente, il negoziato sul nucleare iraniano si inserisce in un quadro politico internazionale tremendamente articolato e complesso. Benché la retorica di ambo le parti abbia sempre fatto pensare il contrario, i rapporti tra Washington e Teheran sono tutt’altro che rigidi. Così, mentre in Yemen gli Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno all’Arabia Saudita – potenza sunnita e ferma oppositrice della potenza persiana – in Iraq forze americane e iraniane combattono le une affianco alle altre contro il comune nemico rappresentato dall’Isis. Il raggiungimento di un accordo sul nucleare, quindi, rafforzerebbe la via diplomatica perseguita fino ad ora dall’amministrazione americana e aumenterebbe l’integrazione del regime di Teheran nel sistema politico internazionale – con buona pace del neo-rieletto presidente israeliano Benjamin Netanyahu.
Da un punto di vista prettamente teorico, la lettera repubblicana è un’ulteriore dimostrazione di quanto permeabile sia il confine tra l’arena politica interna e quella internazionale. Pur restando viva la dicotomia interno-esterno, a essere particolarmente problematica, in questo caso, è la definizione stessa della sfera interna, degli obiettivi che questa persegue e degli interessi che mira a tutelare. Si sa, alle prossime elezioni presidenziali non manca poi molto e in campagna elettorale i toni sono sempre particolarmente accesi. In ogni caso, queste prime faville sembrerebbero preannunciare una prossima battaglia elettorale nella quale i temi di politica estera tornano prepotentemente ad assumere un ruolo di rilievo.
Con l’arrivo della fine di marzo e, con essa, della scadenza per il raggiungimento di un accordo tra l’Iran e i P5+1, Obama si trova a dover giocare alcune delle sue ultime carte sul tavolo della politica internazionale. E, anche se nel suo recente messaggio di auguri per il Nowruz ha poeticamente ricordato come l’inizio della primavera porti con sé una nuova opportunità, il cielo sopra Washington sembra tutto fuorché terso.