Di istantaneo, il libro di Cockburn, ha poco. Perché da quando il mondo dei media mainstream si sono accorti che in Iraq e in Siria qualcosa è andato dannatamente storto, sono piovute parecchie pubblicazioni ad hoc.
Tutto si presta al merchandising: uomini cattivi davvero, iconografia del terrore, foto e video degni di un kolossal di Hollywood. Sulle cause e il contesto, invece, poco e niente. E gli istant book iniziano a piovere, perché l’Isis vende.
Ecco, nonostante sia pubblicato dalla collana Istant di Stampa Alternativa, il libro L’ascesa dello Stato islamico di Patrick Cockburn è uno dei pochi contributi in lingua italiana sul tema che ha senso leggere.
Corrispondente dal Medio Oriente di lungo corso, Cockburn ha lavorato prima per il Financial Times, poi per The Independent, ottenendo con i suoi reportage e le sue analisi alcuni tra i più importanti riconoscimenti internazionali.
Cockburn lega l’ascesa del gruppo che terrorizza l’Occidente a un percorso che inizia nel 2001. L’attacco a New York, senza giri di parole, è stato affrontato nel modo sbagliato dagli Stati Uniti d’America e da tutti i suoi alleati. Perché aveva molto più senso guardare agli alleati infidi, Arabia Saudita e Pakistan, che ai talebani in Afghanistan e all’Iraq di Saddam Hussein.
I finanziamenti al fondamentalismo sunnita, iniziati dopo la rivoluzione iraniana del 1979, ormai diffondono i loro frutti avvelenati in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Al punto, controverso, di essere sfuggiti di mano ai loro stessi sostenitori. La deriva confessionale del conflitto, alimentata dalla scuola sunnita più intransigente, rendono ormai difficile ragionare in termini di risistemazione politica del quadrante.
L’Isis, come sanno ormai tutti, nasce da un fallimento. I gruppi armati sunniti, in Iraq, alla fine del 2010 erano praticamente allo sbando. Secondo Cockburn, a quel punto, di fronte a un asse sciita sempre più solido che va da Teheran al Mediterraneo con Hezbollah in Libano è divenuto inaccettabile per le monarchie sunnite del Golfo che hanno cavalcato le rivolte arabe del 2011 riuscendo nell’intento di impossessarsene.
Questo vale soprattutto per la Siria e l’Iraq. A Damasco un movimento di liberazione dal regime di Assad è finito in ostaggio dei fondamentalisti, che prima hanno annientato l’opposizione laica e progressista (che per Cockburn era comunque residuale e poco significativa), prima di volgere i propri sforzi alla destabilizzazione dell’Iraq, che era ormai (curdi a parte) in mano agli sciiti.
Allo stesso tempo, come in Afghanistan e in Iraq, l’Occidente ha reso possibile il rovesciamento del regime di Gheddafi, senza curarsi delle conseguenze sulla regione: dalla Libia si sono diffuse in tutto il continente armi e miliziani, portando il conflitto in aree prima sotto controllo. E in Iraq, la corruzione e il malaffare sono alla base del collasso di un esercito e di un non-Stato di fronte a un pugno di uomini.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un disastro. Dalla Nigeria allo Yemen, dalla Libia alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan assistiamo oggi al risultato delle politiche fallimentari nella regione. Dagli anni Ottanta in poi, ai regimi nazionalisti nati dal processo di decolonizzazione in poi, non si è saputo (o voluto) sostenere la parte migliore di quelle società civili, ostaggio adesso (come tutti noi) di un mosaico esplosivo e incerto.