Narrano i bene informati che Manoel de Oliveira facesse irritare Mario Monicelli perché gli soffiava la palma del regista più vecchio in attività. E ha continuato a sfornare film fino all’ultimo, O velho do Restelo (il vecchio di Restelo), cortometraggio presentato a Venezia e uscito in Portogallo l’11 dicembre scorso, giorno del suo 106º compleanno. Era infatti venuto al mondo nel lontano 1908, Oliveira, come la Olivetti e il Corriere dei Piccoli (tanto per giocare alle date su Wikipedia).
Aveva debuttato nel cinema come attore bello e muscoloso. Ex campione di salto con l’asta, pilota automobilistico (diceva di essere stato a un passo dalla firma con la scuderia Ferrari), poi frequentatore di caffè e circoli intellettuali senza mai alcuna posa da intellettuale, pur essendo finito, molti anni dopo, nel novero dei cineasti più cervellotici e iperletterari del nostro tempo.
In realtà il destino di Oliveira – a dispetto della televisione francese, che nel ’92 gli dedicò un film della serie Cinema del nostro tempo, realizzato da Paulo Rocha con il titolo: Manoel de Oliveira, o arquitecto – è stato quello di non appartenere mai completamente al nostro tempo. Negli anni in cui di solito un artista è nel pieno delle sue facoltà espressive, fu costretto a lunghi periodi di astinenza cimematografica. Fino all’incontro con Paulo Branco, il produttore che dagli anni ’80 in poi gli garantì un ritmo di lavoro pari a quello di un Woody Allen.
Era dunque un vecchiaccio geniale, il cui genio brillava di più man mano che il tempo e i contemporanei lo superavano. João César Monteiro lo chiamava “il fossile di Oporto” e, come spesso accade con Monteiro, non era solo una battutaccia irriverente, ma tutta un’esegesi. In effetti il fascino di Oliveira consisteva proprio nel suo essere un pezzo di cinema protonovecentesco che la giovane democrazia portoghese e i fondi europei avevano come scongelato in epoca postmoderna.
Fra le altre cose, passerà alla storia come l’unico cineasta ad aver esordito col muto (Douro, lavoro sul fiume, 1931) e ad essere morto nell’era del digitale. Nella cattedrale poco più che centenaria dell’arte che chiamiamo cinema, Manoel de Oliveira è lo scalpellino vecchia scuola, quello che continua a scolpire angioloni romanici quando tutti sono già passati alle figure filiformi del gotico.
Per lui il cinema era teatro filmato. Da questa idea semplice nasceva lo stile: macchina da presa lenta, praticamente fissa, lunghi piani sequenza, tanto dialogo o brani letterari letti da voci fuori campo, un pizzico di overacting straniante e la capacità, imparata col cinema dei primordi, di sintetizzare in un solo piano tutto un concentrato simbolico che fa la gioia dello spettatore attento e del saggista universitario.
L’uccellino in gabbia nel bellissimo La valle del peccato (1993), per esempio, è puro Erich Von Stroheim; e perfino in un film tra i meno riusciti, Film parlato (2003), c’era spazio per autentiche perle da cinema d’altri tempi, come quella scena del cagnolino, che avrebbe fatto impazzire Buñuel: legato da una corda corta a una barca mossa dalle onde, il cane viene regolarmente spinto sul bordo del molo, sempre a un millimetro dall’affogamento.
In quel film si raccontava la crociera di un’italiana (Stefania Sandrelli), una francese (Catherine Deneuve), una greca (Irene Papas) e una portoghese (Leonor Silveira), tutte estremamente loquaci, ciascuna nella propria lingua, al tavolo del comandante della nave (John Malkovich), il quale confessava di sognare una “più armoniosa Babele”. Nel film finirà male e, ora lo sappiamo, nella realtà non sta andando molto meglio questa vagheggiata armonia europea.
Ma Oliveira sentiva il fascino delle sconfitte. In No, la folle gloria del comando (1990), racconta secoli di storia portoghese attraverso le date di celebri battaglie perdute. L’ultima di quelle date, nel film, era il 25 aprile 1974, quasi a insinuare che anche la democrazia nasceva da una sconfitta. Oliveira conservatore, forse addirittura reazionario? Sullo schermo prediligeva certamente la polisemia, che le prese di posizione politiche spesso devono accantonare.
Nel 2003 ho avuto l’opportunità di lavorare nella produzione del secondo dei suoi due unici spettacoli teatrali (guarda caso entrambi per teatri italiani): Mario, ovvero me stesso, l’Altro, su testo dell’amato José Régio. Oliveira si dedicava al palcoscenico, come si suol dire, con la mano sinistra, sempre con il cinema nel cuore e nella testa. Ma con un’energia fisica strabiliante. A 95 anni, aveva un passo che si faceva fatica a camminargli dietro.
In giro per Lisbona a sbrigare un po’ di trovarobato, lo fermò solo un gradino in agguato nella pavimentazione di una piazza fresca di restauro. Un qualunque quarantenne sarebbe finito in quarantena, con lui finimmo in farmacia a comprare una pomata per la distorsione, mentre o arquitecto se ne stava seduto all’angolo, come un pugile, a stramaledire architetti e urbanisti del piffero.