Make hummus, not walls

La Palestine Marathon, lunga corsa verso la libertà

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

“We run to tell a different story. We want to move. Move with us”. Questi e altri slogan recita il manifesto della Palestine Marathon. E’ il terzo anno, e da 700 partecipanti di tre anni fa, quest’anno siamo quasi tremila.

La sveglia è all’alba: la maratona è programmata proprio nel giorno in cui Israele – e di conseguenza Gerusalemme – passa all’ora legale, ma non la West Bank. E per stare a Betlemme alle 7 di mattina, bisogna partire da Gerusalemme alle 5.15, no, anzi, alle 7.15, ma ci tu hai capito qualcosa?, ci chiediamo con un’amica la sera prima. Ritorno al futuro in versione palestinese. Risultato, siamo tutti svegli dalle 5, “per essere sicuri”.

La Palestine Marathon è un evento non tanto – o meglio, non solo – sportivo. È un evento di advocacy, quel concetto per cui ci si attiva per far conoscere e promuovere una causa.

E per far capire che in Palestina non ci si può muovere proprio come in Svizzera, o all’interno dei confini europei come un europeo, quale idea migliore di una corsa nella geografia della West Bank, partendo proprio dalla città simbolo della pace, della convivenza, ma anche delle restrizioni, dei campi profughi, delle ‘seam zones’ e delle colline con vista settlements?

Il jiddar, il muro, a Betlemme è un pugno in un occhio. Lo è anche nel resto della Palestina, non c’è dubbio, ma a Betlemme ti colpisce appena arrivi al Gilo Checkpoint. Il cartello “Welcome in Peace”, presente per anni, è stato finalmente rimosso.

Il passaggio nel muro è proprio davanti a te, devi solo superare tornelli e controlli, se sei a piedi, o “one-way roadsharks”, se sei in macchina. Ad entrare, in West Bank, si entra facilmente. Nella fila opposta, quella diretta per Gerusalemme, le macchine invece sono in fila. I tornelli per chi esce a piedi sono un po’ più in là.

Ogni macchina viene aperta e perquisita, se a bordo ci sono palestinesi, e se non è una macchina diplomatica. Bisogna vedere se hai il permesso per Gerusalemme, e cosa trasporti. La fila è lunga. Considerando che tutti i pellegrini passano da lì – e i loro pulman entrano ed escono dallo stesso checkpoint – mi chiedo come mai questa grande muraglia in salsa mediorientale non sia ancora più famosa di quanto purtroppo sia per chi ce l’ha davanti agli occhi tutti i giorni. Ci voleva Papa Francesco e la sua preghiera davanti ai blocchi di cemento, shortbreads grigi e massicci disposti uno accanto all’altro, per portarlo all’attenzione del mondo.

Betlemme non è solo la chiesa della Natività, la piazza della Mangiatoia, e il mercatino di Natale. È il campo profughi di Ayda, in mezzo alla città, come un quartiere qualsiasi, dove ogni giorno ci sono scontri tra abitanti ed esercito. O il campo profughi di Duheisha, un po’ più a sud. È la barriera, questo il termine diplomático, che entra nella città e la ritaglia come una forbice impietosa.

È affacciarsi da un balcone e scoprire che il muro è sorto tra te e i tuoi vicini. Che in mezzo ci passa a malapena una macchina. Che il negozio lo puoi anche chiudere, tanto ormai chi ci verrà più.
Corriamo sotto ai blocchi di cemento, passiamo accanto ai graffiti di Bansky e a tutti gli altri graffiti che nel corso del tempo hanno reso il muro di Betlemme un manifesto della libertà. Chiunque passa, su quel pezzo di cemento lascia un segno. Anche il Papa.

Si corre attraverso il campo di Ayda, bambini e bambine che incitano al passaggio, “we run for those and with those who are deprived of that right” dice sempre il volantino, signore affacciate ai balconi e postazioni di acqua e fette di arancia e banane ogni 3-4 chilometri. Yalla.

Perché alla maratona di Betlemme, l’importante non è (solo) correre e finire i 10, 21 o 42 chilometri. È muoversi. È esserci. È riprendersi in prima persona il diritto al gioco, al movimento, al divertimento, all’accesso dello spazio. E te lo riprendi mettendoti un paio di scarpe e scendendo in strada, anche se non ti sei mai allenato in vita tua. Libertà è partecipazione.

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L’importante non è correre, è vedere il fiume di persone, sportive o meno, con passeggini e cani al guinzaglio, tra una chiacchiera e uno sprint, sicuramente in allegria, entrare nel cuore delle persone che ci osservano, che ci allungano bicchieri d’acqua, è portare tutti ovunque, senza differenze e discriminazioni, dalla Nuova Zelanda ma anche da Hebron, da Gaza, e possiamo andare in qualsiasi posto, finalmente tutti uguali.

È “hitting the wall”, correre lungo quel muro che non fa paura, passare sotto le torri di sorveglianza, guardare i posti di blocco e le colonie dall’alto delle colline, intrufolarsi nei vicoli del campo profughi, profumo di cucina che arriva dalle porte aperte. Yalla.
Sui muri delle case di Ayda camp sono scritte le città di provenienza dei profughi, Abu Ghosh, Beer Sheva. Sono i profughi del 1948. Sono lì da 67 anni, ancora profughi.

Uscendo dal campo, intorno al quarto chilometro del percorso, si riconosce l’inconfondibile e insopportabile odore di marcio della skunk foam, una cosiddetta “arma inabilitante”, dice Wikipedia, uno strumento di contenimento della folla che consiste in una schiuma appiccicosa e puzzolentissima, sparata con cannoncini ad acqua dalle camionette dell’esercito, che si attacca all’asfalto, ai capelli, ai muri, ai vestiti, ed è un inseme di tutti gli odori più sgradevoli che si possano immaginare.

Viene sparata durante proteste, manifestazioni, scontri. Ad Ayda camp quindi praticamente ogni giorno. L’odore non va via prima di qualche giorno, né dalla pelle né dall’asfalto, nonostante le docce e le lavatrici. Soprattutto se le temperature fuori superano i 20 gradi e non piove da un po’.
È Palestina anche questa, purtroppo.

L’importante non è correre, ma quando il vincitore è Nader al Masri, uno dei 50 corridori finalmente autorizzati ad uscire da Gaza per partecipare alla corsa, cinque ore di attesa ad Erez, ti si illumina il cuore, sorridi e capisci che la maratona ha fatto centro anche quest’anno. Nader si allena tra le rovine, la casa distrutta dalla guerra della scorsa estate. Fa quasi ridere che la lunghezza della maratona è più o meno la lunghezza della Striscia di Gaza, 51 chilometri da nord a sud.

In realtà, fa quasi piangere. Perchè non esistono 42 km senza soluzione di continuità intorno a Betlemme, c’è sempre un muro, una barriera, una rete, un posto di blocco volante o fisso, a ricordati che così free to move non sei. Per questo si corre girando intorno allo stesso percorso, una volta per la mezza maratona, due volte per quella intera.

Ma noi si corre, quest’anno, e il prossimo, e magari ogni giorno, liberi e uguali, quindi mettetevi le scarpe da corsa e scendete in strada e, come recita uno dei più famosi murales di Betlemme, “make hummus, not walls”.



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