Prima di leggere questa recensione, cercate una foto di Joyce Carol Oates. Una signora di classe, d’altri tempi, quasi immateriale. Ecco, dopo che l’avete guardata, pensate a Mike Tyson, Mohammed Alì, Jack Johnson e Joe Louis.
Un leggero senso di smarrimento potrebbe pervadervi, ma è solo la vertigine della boxe. Quella che riesce a spiegare come una grande scrittrice dell’alta borghesia statunitense possa scrivere uno dei saggi più belli della storia (e sulla storia) della boxe.
Sulla boxe, edito da 66thA2ND, una delle più interessanti e coraggiose realtà editoriali italiane, è un capolavoro. Come sanno esserlo quei libri che riescono a farti immaginare mondi, sentire emozioni, vivere serate ormai lontane, sentire odori passati.
Raccoglie una serie di articoli e saggi che l’autrice ha pubblicato, nell’arco di venti anni, su The New York Times Magazine e The Ontario Review. Pubblicato per la prima volta a metà degli anni Ottanta, ha ricevuto una serie di revisioni dell’autrice, fino alla traduzione in italiano.
Prima di tutto, in queste pagine, viene raccontato un amore. Iniziato accompagnando suo padre in fumosi raduni pugilistici, tra mille sigarette e vite sospese tra una borsa per pagare le bollette e campioni leggendari, perdenti di successo e uomini incapaci di vivere fuori dal ring.
Con la lucidità di passare come un rasoio nel ventre molle della società americana alla quale la stessa Oates appartiene, quella razzista e classista, che per decenni ha impedito ai neri di battersi con i bianchi, per il palesato timore che ‘loro’ si mettessero in testa di essere uguali. Anzi meglio.
I ritratti dei pugili raccontati dall’autrice, esclusi gli albori della boxe, finiscono per raccontare – partendo dai vecchi proprietari terrieri che facevano combattere tra loro gli schiavi per divertirsi – una galleria umana di neri.
Quelli che come Alì e Johnson hanno usato la boxe per ostentare la loro identità liberata, passando per Frazier e Louis, più portati a tenere un basso profilo, per non provocare nessuno. Una società che nella boxe rivive le sue disuguaglianze sociali e razziali.
Un capolavoro, appunto. Un lavoro che segna un passaggio chiave nella storia di uno sport e nella capacità di leggere una società attraverso i suoi ‘giochi’, come ai tempi dei gladiatori nell’arena.
E ora riguardate quella foto, il ritratto di Joyce Carol Oates. Basta questo per capire, attraverso la sua competenza tecnica, tutti gli stereotipi sulla boxe, perennemente in lotta con coloro che la vogliono abolire, senza mai voler abolire le cause che portano la boxe a salvare dalla strada tanti, troppi ragazzi senza alternative.