Le sinistre catalane e il processo di autodeterminazione.
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Podemos: un neo-keynesismo patriotico
A complicare la situazione del socialismo catalano sono intervenute altre questioni, decisamente esterne al processo di autodeterminazione. Alle europee il PSOE ottiene il peggior risultato dalla Spagna democratica, il 23% dei voti in un momento in cui un partito di sinistra dovrebbe rappresentare invece un’alternativa al governo di destra. Ancor peggio andarono le cose al PSC-PSOE, con il 14,28%. Non sembra fuori luogo pensare che il partito non abbia perso consensi solo sul versante catalanista ma anche su quello spagnolista. Insomma, oramai pare che le due culture politiche sulle quali ha cercato di reggersi acrobaticamente il socialismo catalano invece di produrre una sommatoria stiano invece retroalimentando una sottrazione. Abbiamo già citato l’avvicinamento tra diaspora socialista ed ERC, mentre sul versante spagnolista potrebbe esserci un voto socialista non militante dietro al 6,28% di CS e al 4,66% di Podemos alle ultime europee. Entrambi questi partiti presentano caratteristiche che entrano in profonda concorrenza con quello che ha rappresentato il PSOE, nelle sue differenti fasi e momenti, durante gli ultimi quarant’anni. CS potrebbe aver incrociato l’elettorato socialista più rampante, legalista e giacobino, perbene e figlio del benessere e dell’oramai tramontato miracolo economico spagnolo. Podemos, invece, quell’anima più autonomista, progressista, a tratti movimentista che era nel DNA del PSOE degli anni settanta, prima di arrivare al potere, prima degli scandali di corruzione che consegnarono la Spagna nelle mani di Aznar, prima della trama del terrorismo di stato dei GAL, ecc. Tutto ciò si traduce in Catalogna in una sorta di mobilitazione variamente contraria al processo di autodeterminazione e, soprattutto per quanto riguarda Podemos, profondamente ambigua.
Come messo in risalto da uno studio commissionato all’agenzia Metroscopia da “El País”, Podemos e CS condividono uno stesso spazio immaginifico, quello della rigenerazione del sistema politico spagnolo (“El País, 1/2/2015, p. 15). Dallo stesso studio si evince, a nostro parere, che i due partiti competono sul terreno della rinascita di una Spagna vista come fattore identitario previo e irrinunciabile. Le similitudini però si fermano qui. Se ci concentriamo sullo spazio politico concreto attorno al quale i due partiti hanno lavorato ci accorgiamo che CS ha fatto dell’anticatalanismo un vero e proprio cavallo di battaglia che ha proiettato il suo leader, Albert Rivera, ad essere ospite fisso in ogni tipo di talk show delle TV spagnole, come esempio di “catalano buono” e difensore dell’unità della nazione (spagnola). In questa maniera, un partito catalano ma nato e cresciuto contro il catalanismo, si è trasformato in formazione politica stato-nazionale spagnola. Lasciamo da parte quindi CS, che ci rifiutiamo tra l’altro di considerare “di sinistra” esattamente come alcune politiche nazionaliste e neoliberali del PSOE, e concentriamoci su Podemos, la cui sistemazione nell’ambito della sinistra non è discutibile anche se lo è il luogo concreto da assegnarli.
A nostro parere Podemos è, in generale, un fenomeno nuovo non solo perché in circolazione da appena un anno. I suoi dirigenti hanno storie pregresse nell’ambito della sinistra alternativa, alcuni provengono dall’area di Izquierda Unida (IU). Fanno parte inoltre di Podemos i dirigenti e militanti del gruppo Izquierda Anticapitalista, ultima evoluzione dell’organizzazione trotskista Liga Comunista Revolucionaria (LCR). È un fenomeno nuovo per altre ragioni, non solo generazionali. Soprattutto perché è espressione diretta di una composizione che trovava fatica a trovare una rappresentazione nel sistema politico attuale e che, alla fine, ha dovuto autorappresentarsi. Podemos è frutto di un esperimento di laboratorio proveniente dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Complutense di Madrid. Se è vero che Podemos è un partito populista neokeynesiano è altrettanto vero che è il partito del cosiddetto “cognitariato” che si percepisce come nuova classe egemonica (o capace di egemonia) nei confronti delle altre classi popolari, capace di costruire attorno ad essa un’ampia “coalizione sociale” com’è di moda dire in questi mesi. Più che una Syriza spagnola è invece il risultato della scomposizione di classe degli anni del neoliberismo, alimentata dalle speranze ed esprimenti del cosiddetto “socialismo del XXI secolo” sperimentato in alcuni paesi latinoamericani che ha trovato il momento zero nel movimento degli “indignados”. Dalla radiografia critica che ne propone la rivista di movimento “La Marea” (www.lamarea.com) il partito dei ricercatori della Complutense evita di usare tutto il patrimonio argomentale, discorsivo e analitico della sinistra tradizionale (Dossier: Podemos?, in “La Marea”, n. 21, novembre 2014, pp. 10-23). Si tratta di un partito che potremmo definire posmoderno o anche postoperaista, diciamo postnegriano in qualche modo simile al movimento delle Tute Bianche in Italia, se proprio dovessimo cercare dei paragoni nostrani. Per Podemos non esistono le classi sociali ma la “casta” e la “gente”, esistono quelli “de arriba” e quelli “de abajo”. Il partito ammette un certo “populismo” inteso come la rappresentanza del popolo, della “gente”, di quelli “de abajo”, come luogo ideale in cui risiederebbero tutte le caratteristiche migliori di un paese, della maggioranza sociale che tira a campare giorno dopo giorno onestamente mentre ladri e “politici” ingrassano alle sue spalle. In realtà Podemos rappresenta lo svecchiamento e proiezione senza complessi e macchinosità del progetto avviato alcuni anni prima dell’ex leader di IU, Julio Anguita, e la piattaforma da questo promossa, Frente Cívico-Somos Mayoría (http://www.frentecivicosomosmayoria.es/). La banalità sembra quindi essere costruita a tavolino con la precisa intenzione di arrivare al grande pubblico e scavalcare quella generale avversione nei confronti della complessità che oggi richiede l’era dei social network e dei talk show. Infatti, Pablo Iglesias e i suoi sono diventati delle autentiche star televisive capaci di bucare lo schermo e parlare a tutti. Certo, genera un certo sospetto il modo in cui Podemos sia arrivato ad essere in tutti i talk show in televisioni e programmi non certo celebri per il loro progressismo. C’è il sospetto che alcuni poteri legati al PP e al governo di Madrid stiano tirando la volata a Podemos perché timorosi della crescita di altre formazioni, come ad esempio IU e la sinistra indipendentista basca e catalana, e di un possibile sorpasso a opera del PSOE.
Altrettanti sospetti generano alcune dichiarazioni di Pablo Iglesias, come quelle a favore delle forze armate e di polizia e le sue esternazioni patriottiche. Infatti è proprio sulla questione nazionale che si condensa il maggior grado di ambiguità discorsiva di questa formazione.
Nel suo discorso alla fine della manifestazione di partito del 31 gennaio scorso a Madrid, Iglesias ha fatto un chiaro riferimento alla difesa del patriottismo, intendendo come “patria” uno stato-nazione basato sul welfare: scuole, sanità, ricerca, diritti sociali.
Ma in successive dichiarazioni Juan Carlos Monedero ha anche affermato che la Spagna esiste da secoli e che non c’è motivo di romperla. Un discorso usato anche per accusare di mancanza di patriottismo coloro che fanno affari portando i capitali all’estero, le multinazionali, insomma quella che loro chiamano “la casta”. In quella che pare essere una calcolata ambiguità sembrano però darsi alcuni segnali involutivi sebbene ancora inevitabilmente in progress. Interessante da questo punto di vista l’interpretazione secondo la quale Podemos va selezionando e successivamente eliminando dal suo discorso tutto quello che non si considera utile al raggiungimento dell’obiettivo ultimo del partito, ossia la vittoria elettorale in tutte le future scadenze. Di questo avviso è il politologo Jordi Muñoz (Podem, o l’esquerra camaleònica, in “Ara”, 1/2/2015, p. 14). Resta certamente sul tavolo una grande incognita: dove hanno situato i dirigenti di Podemos il limite di questa continua selezione di elementi prescindibili. Poiché l’unico elemento centrale sembra essere l’ansia di vittoria elettorale ad ogni costo. Su questa linea insistono alcune interpretazioni provenienti dalla sinistra di movimento catalana, che denunciano il modo in cui Podemos stia costruendo una sorta di neo-peronismo o euro-peronismo: una scatola vuota, un contenitore di aspettative e istanze di vario genere unificate dal solo obiettivo di rigenerare il sistema politico (http://espaifabrica.cat/index.php/politica-institucional/item/891-podemos-leuro-peronisme).
Ciononostante, alcune dichiarazioni sono quantomeno sorprendenti, come quella secondo la quale il Banco Santander sarebbe un esempio di buona imprenditoria al servizio della “gente” e della patria: <<Non tutti gli imprenditori sono uguali. Ci sono due cultura imprenditoriali. Una è la quella della casta, l’altra è quella che vuole contribuire al benessere sociale, come la famiglia Botín e il Banco Santander>> (http://politica.elpais.com/politica/2015/01/27/actualidad/1422384264_753104.html). Una cosa è dire che non tutti gli imprenditori sono uguali e un’altra è prendere come esempio la maggiore banca spagnola, con importanti ramificazioni in tutto il mondo ispanico nonché uno dei capisaldi della proiezione economica della Spagna a livello globale. Un’affermazione molto discutibile per coloro che si presentano come difensori di sfrattati, disoccupati, ecc., in un paese in cui le istituzioni bancarie sono al centro delle cause e delle conseguenze della crisi e di un’enorme disperazione sociale. L’unica spiegazione plausibile è che Podemos, lungi dall’essere un partito rivoluzionario né anticapitalista come invece viene dipinto nel circo equestre dei talk show politici (ad esempio su La Sexta), sia semplicemente un partito costruito per puntellare il sistema politico, magari con qualche aggiustamento sul piano del welfare. Le dichiarazioni a favore dell’impero economico-finanziario dei Botín, così come quelle in appoggio a forze armate e di sicurezza, avrebbero quindi la funzionalità di mandare un messaggio di tranquillità a determinati poteri. Tutto legittimo, per carità, ma lontano dal grande cambio che alcuni prospettano.
Uno dei momenti in cui il discorso, diciamo anche l’offerta politica stessa di Podemos, si fa ambigua, contraddittoria o quantomeno ondivaga e onnivora nella sua evoluzione, è proprio quando questo partito viene interpellato riguardo la questione catalana o quando cerchiamo di confrontare il suo patriottismo spagnolo con le dichiarazioni riguardo al processo di autodeterminazione. E non può trattarsi solamente di doble patriotismo o identità condivise e sussidiarie. Il 25 febbraio, in occasione del confronto periodico tra governo e opposizione circa le questioni di fondo della legislatura che si celebra periodicamente nel parlamento spagnolo Pablo Iglesias ha inscenato una suggestiva contro-replica. Parlando in nome di coloro che non sono in parlamento e che rappresenterebbero le forze vive e sane del paese, il leader di Podemos ha chiesto a PP e PSOE un’attitudine “patriottica” per evitare che la Spagna si trasformasse in una “colonia della Germania” (http://www.ara.cat/politica/PODEM-IGLESIAS-RAJOY-DEBAT_0_1310269203.html). L’apparizione di dichiarazioni di questo tipo è coincisa con la sparizione o ridimensionamento di alcune iniziali dichiarazioni a favore dell’autodeterminazione. È opera molto complicata, diremmo rischiosa, tentare di riassumere un fermo immagine delle posizioni di Podemos, soprattutto in materia nazionale. Quello che possiamo tentare è cercare di capire criticamente cosa pensi in questo istante concreto questo partito e metterlo in relazione con le posizioni espresse in precedenza. Partiamo ad esempio da alcune dichiarazioni di uno dei suoi giovani leader, Iñigo Errejón, rilasciate settimane prima della consulta del 9 novembre. <<La mia opinione personale è che il 9 novembre si debba votare, anche in caso di misure legali contrarie, perché farlo non rappresenta nessun attentato alla convivenza. […] Siamo una forza statale che riconosce la realtà plurinazionale e il fatto che le comunità esercitino il loro diritti, non per questioni storiche bensì per rispetto alla volontà della cittadinanza>> e, sebbene la priorità di Podemos sia quella della modificazione delle strutture del regime del 1978, Errejón ribadisce che <<Questo non significa essere, in nessun caso, contro le mobilitazioni di alcuni territori a favore del diritto di autodeterminazione. L’ultima parola nella questione catalana la devono avere i cittadini della Catalogna>> (Intervista a Iñigo Errejón, in “El Crític: Dossier Procés”, n. 1, ottobre 2014, pp. 88-92). A queste dichiarazioni non sono seguite azioni politiche in senso positivo a favore di questo diritto e nemmeno contributi politici all’interno del processo di autodeterminazione per contrastare l’egemonia (reale o presunta) di CiU.
In un articolo del 7 novembre, Podemos: más democrácia, nuevo tablero (http://politica.elpais.com/politica/2014/11/07/actualidad/1415392198_230291.html) lo stesso Errejón e quella che oggi è la leader di Podemos in Catalogna, Gemma Ubasart, danno una lettura non indipendentista del processo, visto come volontà di rinegoziare il tipo di rapporto con la Spagna e nulla più. Già alla vigilia della consulta quindi si va profilando una riduzione di quello che Podemos considera come lo spazio e l’ambito di una consulta. Questo si limiterebbe all’atto di approvare o meno un nuovo status politico previamente accordato dai partiti e negoziato tra Barcellona e Madrid. In realtà una posizione non di molto differente, nel fondo, da quella del PSOE nella sua ultima versione federalista. Subito dopo la consulta la stessa Ubasart evita di rispondere a domande dirette sulla questione. In un’intervista rilasciata a “El Crític” il 13 novembre (http://www.elcritic.cat/entrevistes/gemma-ubasart-si-es-tracta-de-tombar-el-regim-ho-haurem-de-fer-a-catalunya-pero-tambe-amb-els-companys-de-estat-1518) afferma che non è il momento di porsi il problema del referendum di autodeterminazione, essenzialmente per due motivi: perché la questione sociale è prioritaria rispetto a quella nazionale e perché è necessario prima modificare profondamente lo scenario politico generale spagnolo. In nessun momento Ubasart afferma di essere a favore del diritto di autodeterminazione, cosa che fa pensare che non lo sia. Il 21 dicembre, durante il meeting di partito a Barcellona, Pablo Iglesias approfitta per attaccare in maniera frontale le sinistre indipendentiste, ventilando una loro complicità o quantomeno subordinazione nei confronti della destra catalanista. Forse una risposta, non essendocene state altre, alla lettera aperta di qualche giorno prima in cui la CUP dava polemicamente il benvenuto alla nuova forza politica e gli chiedeva di concretizzare la sua posizione rispetto al processo (http://issuu.com/cupnacional/docs/carta_podemos). Un atteggiamento che possiamo spiegare come, al tempo stesso, un tentativo di fare breccia nell’elettorato movimentista che vota CUP e un tentativo di consolidamento di una base elettorale che non ha simpatia alcuna nei confronti dell’indipendentismo. Una postura che qualche giorno dopo toccò spiegare alla stessa Ubasart (http://www.lamarea.com/2014/12/26/gemma-ubasart-creemos-que-se-le-puede-dar-la-vuelta-al-tablero-politico-catalan/), che ribadì di essere d’accordo con il diritto dei catalani di decidere circa il proprio futuro politico nazionale ma sempre sottoponendo questo diritto ad un cambio politico profondo a Madrid. Una posizione che è lecito interpretare anche in senso contrario, come interpretazione del processo politico in corso in Catalogna come fattore di rigenerazione e rifondazione dello stato-nazione spagnolo. Infatti, come nuovamente esposto in successive interviste, la posizione di Podemos in Catalogna si fonda su tre elementi (http://www.ara.cat/politica/Ubasart-via-Catalunya-unilateral-possible_0_1292870837.html): in primo luogo, la non centralità della questione nazionale; in secondo luogo, la necessità di arrivare ad un accordo che permetta un referendum sul tipo di quello celebrato in Scozia, e nel quale Podemos voterebbe contro l’indipendenza; in terzo luogo, cercare di pescare nel bacino elettorale esistente tra sinistra indipendentista e votanti delusi del socialismo catalano e catalanista. Da qui l’insistenza di Ubasart a presentare Podemos come l’unico partito con possibilità di governare la Spagna che accetti la necessità di una riforma territoriale, di una nuova Costituzione e che sia disposto ad accettare la celebrazione di un referendum di autodeterminazione. In sintesi, la linea di Podemos si può riassumere in una sorta di spot elettorale indiretto: se l’elettore catalano di sinistra vuole davvero l’autodeterminazione è meglio che voti noi, che siamo gli unici capaci in questo momento di aprire e garantire un processo costituente e di forzare quella riforma territoriale frustrata durante l’era Zapatero.
L’altra sinistra
Le scelte politiche del PSC-PSOE e la sua sostanziale subordinazione alla fedeltà nazionale spagnola che caratterizza la dirigenza del PSOE, stanno probabilmente privando lo scenario politico catalano e i suoi futuri equilibri politici di un attore importante ma stanno anche aprendo la strada ad una “sinistra alternativa” fino a prima del processo relegata agli ambiti, pur importanti, di movimento e di base. Una sinistra che esisteva prima di Podemos, di carne ed ossa, di processi reali, di reti di movimenti e lotte sociali, non di circoli virtuali né di adesione al leader televisivo. Inoltre, le ambiguità rispetto al processo e le conseguenze in materia di ridefinizione della mappa politica catalana non riguardano solamente il socialismo catalano.
Nell’ambito di quella che potremmo definire come l’altra sinistra grande è il disordine sotto il cielo e la situazione è (potenzialmente) eccellente. Anche in questo caso le forze politiche più tradizionali dell’arco politico stanno trovando grandi difficoltà al momento di doversi posizionare con chiarezza. La questione dell’autodeterminazione ha provocato importanti cambiamenti nell’equilibrio interno di tutti quei partiti che avevano al proprio interno anime e sensibilità differenti tenute assieme da complesse alchimie. Tra questi vi è certamente il caso della coalizione ICV-EUiA. Tra le due formazioni che la compongono (la seconda è a sua volta una coalizione) già s’intravvedono posizioni differenti. EUiA (Esquerra Unida i Alternativa: http://www.euia.cat/) è paradossalmente tra le due quella che ha scommesso con maggior chiarezza per l’autodeterminazione. Alla sua condizione di sezione catalana di IU si contrappone una forte presenza di organizzazioni comuniste tradizionalmente favorevoli all’autodeterminazione, alcune delle quali si sono rifondate e riunificate dando luogo al partito Comunistes de Catalunya (CC, http://www.comunistes.cat/). Ciononostante al suo interno permangono forti resistenze, sebbene minoritarie. Il gruppuscolo PSUC(viu), di fatto la sezione catalana e residuale del PCE (Partido Comunista de España), ha reso pubblica una proposta di risoluzione politica per sganciare EUiA dal processo di autodeterminazione e ridirigere prioritariamente la formazione verso il progetto di costruzione di una repubblica spagnola (http://www.psuc.org/seccio-dia-a-dia/44-la-linia-del-partit/6115-un-ampli-debat-a-les-assemblees-de-base-d-euia-full-de-ruta-cap-el-27-s). Al contrario ICV (Iniciativa per Catalunya-Verds: http://www.iniciativa.cat/), evoluzione maggioritaria del vecchio e glorioso PSUC (Partit Socialista Unificat de Catalunya) è percorsa da enormi tensioni interne che, dopo aver praticamente bloccato il partito nel limbo dell’attendismo, sono cominciate ad affiorare in forma di defezioni, abbandoni, critiche pubbliche, rotture. Queste, anche se non minimamente paragonabili al dramma politico che vive il PSC-PSOE, sembrano essere qualitativamente rilevanti, anche perché si presentano all’indomani di una travagliata presa di posizione del partito rispetto al processo. Nella sua convenzione nazionale dell’1 marzo ICV ha sostenuto la necessità di costruire uno scenario politico che renda fattibile e legale un referendum di autodeterminazione o qualcosa che vi somigli (http://joanherrera.cat/content/joan-herrera-fa-una-crida-construir-un-pais-just-net-i-lliure-en-parallel-al-proces). La proposta soberanista di ICV si fonda sull’integrazione di federalisti e indipendentisti e sulla necessità di dare alla Catalogna e alla Spagna un esecutivo di sinistra capace di dialogare mutuamente e trovare un accordo. Tale proposta rinvierebbe tutto alla celebrazione delle autonomiche catalane e delle politiche spagnole, investendo tutto sull’alternanza tanto a Barcellona come a Madrid.
La posizione d’ICV ha suscitato critiche interne ed esterne e pare non aver raggiunto il risultato di fondo.
Infatti, più che una proposta rivolta a fissare una posizione esterna rispetto al processo sembra essere questo un tentativo di mantenere unito il partito, di evitare che la dialettica tra indipendentisti e federalisti finisca per romperlo. La proposta è stata successivamente integrata da un intervento collettivo di alcuni dirigenti del partito sul quotidiano “Ara” in cui si propone agli altri partiti la firma di un documento vincolante in cui le forze politiche catalane s’impegnano ad appoggiare a Madrid una maggioranza di governo che sia in modo esplicito a favore della celebrazione di un referendum di autodeterminazione (ICV i el sobiranisme, in “Ara”, 7/3/2015, p. 34). Una precisazione arrivata forse troppo tardi. La scelta programmatica federalista o confederale, come l’hanno definita i dirigenti del partito, è considerata dai settori indipendentisti interni come una scelta di campo sbagliata. Il 2 marzo Raul Romeva decide di abbandonare il partito di cui fu anche parlamentare europeo, perché questo a suo avviso non si sarebbe implicato in modo deciso al fianco di una rivendicazione popolare maggioritaria e potenzialmente di progresso, come quella indipendentista (http://blocs.mesvilaweb.cat/raulromeva/?p=270052) mentre gli indipendentisti del partito hanno deciso di costituire una corrente interna. Romeva ha affermato successivamente che l’esperienza del caso scozzese dimostra che i due elementi che alcuni considerano incompatibili, la questione nazionale e quella sociale, sono invece perfettamente compatibili e che la campagna pro-indipendenza ha in realtà offerto la possibilità di parlare di questioni sociali come mai si era fatto in precedenza (Independència i 27-S: el paper de les esquerres, in “Ara”, 29/3/2015, p. 49). Detto in altri termini, l’orizzonte della rottura con lo stato britannico ha aperto un orizzonte in cui la possibilità di un cambio sociale radicale si faceva realizzabile e a portata di mano. Inoltre, è stata proprio la Radical Independence Campaign (http://radicalindependence.org/) a riuscire a mettere sul piatto della bilancia una serie di questioni politiche che altrimenti sarebbero restate in secondo piano e a trasformare la campagna referendaria da scontro d’identità a confronto sulle politiche sociali, con la prospettiva di una Scozia più prospera ed egualitaria, con una sanità pubblica migliore e un utilizzo collettivo dei beni comuni.
L’indipendentismo è un’opzione trasversale anche a sinistra ma nell’altra sinistra diviene maggioritaria è forse più chiara e ragionata che nel resto dell’arco politico. Lo spartiacque a sinistra tra indipendentismo e altre opzioni (federalismo, confederalismo, autonomismo, ecc.) nell’attualità si può situare attorno alla campagna promossa a favore del doppio sì alla consulta del 9 novembre dalla piattaforma “Esquerres pel Sì-Sì” (http://construimel9pais.cat/), la cui lista di adesioni è sufficientemente rappresentativa del travaglio che vivono partiti come ICV., e che si è recentemente trasformata in una nuova piattaforma, “Esquerres per la Independència” (http://construimel9pais.cat/manifest-2/), sul modello della Radical Independence Campaign. La sinistra catalana o le sinistre catalane si stanno interrogando da tempo circa la relazione sinistra e nazionalismo e la possibile funzionalità rivoluzionaria o trasformatrice di un processo di autodeterminazione. Non lo fanno chiedendosi in modo astratto se “nazionalismo e sinistra sia un ossimoro” bensì entrando direttamente nelle vene di un processo politico in corso. Esiste un patrimonio di riflessioni generalmente ignorate dalla stampa mainstream, forse perché inserisce troppi elementi di complessità e incertezza nella tesi generale secondo la quale le letture dominanti e conformiste leggono tutti i passi del processo in corso in Catalogna.
Uscire da questa tesi, che vuole vedere nell’indipendentismo catalano un fattore, al tempo stesso, intrinsecamente regressivo-reazionario e funzionale ai movimenti del grande capitale è un gesto di giustizia politica essenziale per capirci qualcosa. Come abbiamo già più volte affermato si tratta di un determinismo aprioristico che ha poco a che vedere con la realtà. Il fatto che alcune destre (e nemmeno tutte) stiano cercando di egemonizzare o strumentalizzare il processo per perpetuare un potere politico che sarebbe altrimenti in forte discussione è un conto, che questo stia accadendo realmente secondo queste coordinate o che si tratti di un fatto irreversibile è ben altra cosa. Innanzitutto crediamo necessario fare una riflessione, fuori dalla fantapolitica. Le destre, quelle vere, sono contrarie all’autodeterminazione: il PP, l’estrema destra, la destra xenofoba catalana di Plataforma per Catalunya, ecc. Vi sono interpretazioni che sostengono che vi siano dei poteri forti che soffiano sul fuoco del separatismo in Catalogna e altrove in Europa. Certamente un’Europa di piccoli staterelli senza sovranità reale farebbe comodo al neoliberismo e alle multinazionali. Ma questo non perché vi sia un progetto definito in materia ma per la specifica capacità del capitalismo di trovare il modo di assorbire i cambiamenti e adattarsi attraverso il mercato a qualsiasi situazione.
Non esistono forze occulte che stanno sostenendo l’indipendentismo catalano. Anzi, tutto il contrario. La Spagna non è un paese da operetta, come alcune manifestazioni di alcune sue élites lascerebbero pensare ma uno Stato-nazione forte economicamente, politicamente e militarmente.
Ha buoni rapporti o un’alleanza diretta con i cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli USA e l’Unione Europea (di cui la Spagna è illustre membro) non ne vogliono sapere di una Catalogna indipendente, se non altro per evitarsi problemi istituzionali e precedenti illustri. Chi a parere di tutti pare comandare in Europa, la Germania, ha più volte dato il proprio appoggio all’integrità nazional-territoriale della Spagna. La secessione della Catalogna sarebbe certamente un problema per i catalani, che dovrebbero trasformare la loro autonomia in uno stato vero e proprio con tutto quello che ciò comporta, ma lo sarebbe ancora di più per la Spagna. La Catalogna rappresenta il 19% del PIL spagnolo e una parte importante della capacità industriale, di esportazione e anche d’immagine (lo sport, il marchio di Barcellona, la gastronomia, il design, le nuove tecnologie, le smart city, ecc.). Nessun paese al mondo si può permettere di “perdere” da un giorno all’altro il 19% del PIL. Una Spagna in queste condizioni dovrebbe indebitarsi ancora di più e potrebbe finire come la Grecia. Una condizione che impedirebbe alla Spagna di continuare a difendere e proteggere (come accade in ogni stato-nazione) le proprie imprese, le proprie banche, le proprie multinazionali. L’UE, dal canto suo, non può permettersi un’altra Grecia. Solo alcuni governi latinoamericani di sinistra si sono mostrati minimamente aperti nei confronti dell’ipotesi della costruzione di uno Stato catalano indipendente. È in questo tipo di analisi che s’inserisce una lettura “da sinistra” dell’autodeterminazione catalana.
E poi c’è la questione del contesto reale in cui si sta dando questo processo. La Spagna non è certo più quella di Franco ma nemmeno un esempio di socialdemocrazia laica e nord-europea. Interessante da questo punto di vista l’opinione di Antonio Baños, giornalista e autore di “La rebelión catalana” (2014), che afferma con orgoglio che “Abbiamo messo in crisi CiU, triturato il PSC, ucciso il padre Pujol e il pujolismo, abbiamo trasformato in forze residuali i partiti spagnolisti […], e alla fine abbiamo anche ficcato tre anticapitalisti al Parlament”, riferendosi ai tre deputati della CUP; afferma inoltre che “non mi entra in testa pensare che una repubblica laica, creata dal popolo, in un processo deliberativo e democratico, possa essere uguale a un regno cattolico, polveroso, imperiale e militarista come quello in cui viviamo oggi. Come minimo non avremmo re né la capra della Legione, né un concordato con la Santa Sede. Mi sembrano cambiamenti sostanziali>> (El procés i la trasformació, in “El Crític: Dossier Procés”, n. 1, ottobre 2014, p. 30). Orbene, se oggi le sinistre catalane non sono riuscite a dirigere il processo in corso è anche perché non hanno trovato un punto di sintesi, una via né uno spazio comune. Per sapere ciò che pensa l’indipendentismo è necessario documentarsi, andare oltre quello che raccontano o cercano di raccontare “El País”, “La Vanguardia” o “El Mundo. Occorre fare lo sforzo di andare oltre un ritratto troppo spesso banale e banalizzante, a volta anche di costume o calcato su altri modelli e proveniente da altri paradigmi. Per fare questo sforzo è necessario uscire dalla stretta attualità e dall’urgenza del comunicato politico o dell’articolo di corto respiro. Da questo punto di vista ci sembra particolarmente interessante un testo di Abel Caldera (El procés sobiranista i la independència per canviar-ho tot, in “Perspectives”, vol. II, 2015, pp. 151-169), membro dell’organizzazione Endavant (www.endavant.org), una delle anime della CUP. L’articolo fa un’analisi dei movimenti cui è stata sottoposta la società catalana negli ultimi dieci anni. Generalmente i grandi potentati economici catalani non fanno i salti mortali per l’indipendenza né sono attratti da ipotesi di eccessiva mobilitazione politica a livello di massa. Sono piuttosto favorevoli a una profonda rinegoziazione della relazione Spagna-Catalogna che in questo momento li mette in una posizione difficile. In realtà lo scontro “nazionale” tra Madrid e Barcellona ha provocato un contesto in cui è possibile qualcosa che le classi dirigenti solitamente non vogliono, una rottura dello statu quo o un processo costituente in cui la popolazione si trova (potenzialmente) ad essere mobilitata oltre la semplice richiesta di delega tipica dei sistemi democratico-rappresentativi. Secondo questa interpretazione, l’indipendentismo di CDC e le continue incertezze dell’UDC, che compongono la crisi interna della coalizione CiU, sarebbero il prodotto del tentativo di non restare emarginati da un processo che dal fallimento della via del patto fiscale in poi non hanno più guidato. Contro questo indipendentismo di circostanza o creato da condizioni esterne, come sono i rapporti da sempre difficili con Madrid, esisterebbe un indipendentismo come progetto politico strategico non sottomesso ai cambi sovrastrutturali di scenario: alternanza di governo a Madrid, progetti di riforma dello Stato-nazione spagnolo, equilibri di potere, prospettive di cambio, ecc. L’indipendenza significherebbe (o dovrebbe significare) la rottura con lo stato-nazione e con tutto l’apparato di potere che lo sostiene o che da esso trae beneficio. E qui troviamo forse la principale differenza qualitativa tra l’indipendentismo (diciamo) ufficiale e quello proposto (o pianificato) dalla sinistra indipendentista che possiamo definire di movimento o di liberazione, per differenziarla da altre correnti come ad esempio ERC. La strategia di questa componente dell’indipendentismo nel post consulta si articola attraverso quattro assi: la disobbedienza, il conflitto con le istituzioni, l’istituzionalizzazione alternativa ed il processo costituente. Non si tratta certo di parole nuove né esclusive della sinistra indipendentista ma differente è di certo il contenuto e la lettura che di tutto ciò si fa. La disobbedienza è vista come il passo successivo alla già conquistata legittimità del diritto a decidere. Oggi in Catalogna vi è una maggioranza sociale e un sentimento maggioritario e trasversale che ritiene oramai indifendibile la lettura legalista della situazione. L’ipotesi secondo la quale non sarebbe legittimo votare circa la questione della costruzione di un nuovo stato-nazione indipendente è oramai una posizione fortemente impopolare, forse a ragione. Questa conquista, però, rischia di diventare una strada senza uscita se non viene attivata da una dinamica di disobbedienza nei confronti della legalità vigente, autonomia catalana inclusa. E il governo della Generalitat non sta attivando alcuna dinamica di disobbedienza reale, visibile e concreta. Nell’attuale processo catalano effettivamente non è stata superata alcuna linea rossa e quella della consulta e del Tribunal Constitucional sarebbe stata una commedia nella quale ognuno ha giocato un ruolo, un gioco delle parti non scritto. Inoltre, l’istituzione autonoma catalana, che non è altro che un’istituzione dello stato-nazione cui è subordinata, non è stata mai messa in discussione. Secondo questa lettura, dietro gli appelli alla responsabilità e a non “bruciare” le istituzioni della Generalitat si nasconderebbe il tentativo da parte delle classi dirigenti e dei poteri economici di conservare in buona salute gli strumenti attraverso i quali potersi riprodurre e legittimare. Questa la lettura del ruolo di strutture come il CATN (Consell Assessor per a la Ttansició Nacional: http://presidencia.gencat.cat/ca/ambits_d_actuacio/consells-assessors/consell_assessor_per_a_la_transicio_nacional_catn/), che avrebbero il compito appunto di favorire e porre le basi di una “transizione” e non di una rottura, in cui le istituzioni della Generalitat si trasformerebbero o in uno stato-nazione indipendente o in una nuova entità statale in qualche modo affiliata a una nuova Spagna riformata, almeno territorialmente e nella sua relazione interna tra stato ed entità sub-statali. Secondo la sinistra indipendentista è qui che dovrebbe avvenire la divaricazione tra un processo indefinito e poco effettivo, come quello in atto, e un vero e proprio processo di rottura con lo stato-nazione con relativa costruzione di una nuova entità statuale indipendente e sovrana. La via maestra di questo processo sarebbe un’istituzionalizzazione alternativa capace di mettere in essere un processo costituente (e partecipativo). E questa potrebbe materializzarsi in una struttura di base municipale, capace di contrapporsi al tentativo dell’autorità costituita catalana di conservare le vecchie strutture per poi utilizzarle come strumento di un negoziato con Madrid. Questa dovrebbe essere la base di un processo in cui non solo s’ignori la legalità spagnola vigente ma si superi quella autonomica a favore di un processo costituente. Questa ipotesi è anche funzionale a un altro progetto di fondo della sinistra indipendentista come quello della territorialità allargata a tutti i territori catalanoparlanti, i Països Catalans.
Questo tipo di riflessione è all’origine della proposta politica della CUP, ovviamente integrata dai contributi provenienti dalle altre anime e settori della sinsitra indipendentista e di cui speriamo di poter parlare in futuro. Quest’organizzazione che, ricordiamolo, non è un partito bensì un cartello elettorale nato sulla base del municipalismo con l’ambizione di essere espressione elettorale della sinistra indipendentista, ha dichiarato di non voler firmare il protocollo di accordo promosso da Mas riguardo alla road map del processo. Ha invece presentato la sua proposta il 21 marzo scorso, denunciando contestualmente che il processo vive una fase di blocco a causa dei calcoli politici e di una mancanza di volontà di fondo di avanzare verso l’autodeterminazione e l’indipendenza. I due documenti, il “Full de ruta cap a la independència” (https://drive.google.com/file/d/0B6cdiXDbjVOaZWw0S0FlRUFDaFE/view?pli=1) e il “Document de bases per un apli acord polític i social per la independència, el procsés constituent i un paquet de mesures d’urgència” (https://drive.google.com/file/d/0B6cdiXDbjVOaa24xTUpDWVpYZjQ/view?pli=1), disegnano lo scenario alternativo che dovrebbe seguire alle elezioni catalane del 27 settembre. Secondo la CUP l’eventuale maggioranza parlamentare indipendentista uscita da queste elezioni dovrebbe dare seguito immediatamente a una DUI (Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza) supportata da un processo costituente capace di costruire delle istituzioni non legalmente riconosciute ma legittimamente accettate dalla cittadinanza. Le chiavi di lettura della proposta sono essenzialmente due: il recupero (o conquista) della sovranità popolare e lo sviluppo di una politica sociale chiaramente rivolta a sostenere questa sovranità e a sviluppare una nuova politica sociale. In realtà i due elementi sono profondamente relazionati. La costruzione di un nuovo stato-nazione indipendente passa per la costruzione di strutture di welfare e controllo democratico. Fermare le privatizzazioni e ristatalizzare le imprese dei cosiddetti “beni comuni” mettendoli sotto controllo pubblico, evitare la svendita del patrimonio immobiliare pubblico a interessi privati, garantire sanità, educazione e un tetto a tutti coloro che vivono in Catalogna, è l’unica possibilità di costruire un paese realmente indipendente e sovrano. Al contrario, continuare ad alleggerire il pubblico affidandone i compiti al privato rischia di produrre le basi di uno stato fantoccio senza sovranità reale né possibilità di reclamarla. Per questo motivo la CUP propone di mettere al centro la questione della sovranità popolare e della partecipazione, asse sul quale integrare anche quelle forze che si dichiarano favorevoli all’apertura di un processo costituente, come Podemos e ICV. Poiché la questione non è l’indipendenza nazionale bensì la sovranità popolare.
Sarà questo l’elemento attorno al quale le sinistre catalane dovranno, potranno o sapranno trovare un punto di contatto in positivo: decidere su tutto, anche sull’appartenenza nazionale come decisione dell’ambito in cui si sviluppa il welfare, la partecipazione popolare e la gestione delle risorse e beni pubblici. Certo, restano scogli non di poco conto. Ad esempio nel modo in cui Podemos e ICV subordinano questa possibile rivoluzione sociale al suo estendersi a tutta la Spagna o alla funzionalità nella rigenerazione di questa. O anche nell’ulteriore carica di complessità che con la questione dei Països Catalans la CUP inserisce nel dibattito politico. O ancora nella differenza di fondo che esiste tra ICV e Podemos, da una parte, e la CUP, dall’altra, attorno alla questione della critica al sistema socioeconomico vigente. Le prime due non possono certo considerarsi forze anticapitaliste, cosa che invece rappresenta una delle caratteristiche principali della seconda. Quello che è certo è che oggi una sinistra che non accetti il diritto di autodeterminazione in Catalogna è qualcosa di più di un anacronismo, rappresenterebbe la materializzazione di un errore tattico e strategico dinnanzi all’opportunità reale di un cambiamento politico senza precedenti, di una rottura non di una transizione.