Gilberto Pagani, che ringraziamo, è presidente del Legal Team Italia, e membro dell’Aed, Associazione dei Giuristi democratici. I fatti di Genova lo hanno visto come avvocato di partte civile per la famiglia Giuliani, le vittime della Diaz e Bolzaneto. Gilberto Pagani ha un occhio attento alla repressione nel Vecchi continente, rispetto alle violazioni dei diritti fondamentali dei cittadini e degli avvocati. per questo abbiamo chiesto a lui di commentare oggi la sentenza della Corte Euroepa dei Diritti Umani (CEDU) che ha certificato che fu tortura, alla Diaz, e che è cosa vergognosa che non ci sia ancora un reato di tortura nel nostro codice penale. (a.m. /c.e.)
La sentenza della Corte Europea del Diritti dell’Uomo nel caso Cestaro non ha detto nulla di nuovo sui fatti che sono avvenuti alla Diaz la notte del 21 luglio 2001, che da tempo sono noti e acclarati.
Gli esiti della sentenza erano prevedibili, la CEDU ha riaffermato ciò che tutti sanno sulla mattanza della Diaz; ciò è bene ma dubito potrà portare altri benefici se non quello di perpetuare il ricordo di uno sconvolgente attacco alla democrazia.
Ma le rinnovate certezze si fermano alla superficie, ancora c’è chi sproloquia di mele marce e mele sane e non si interroga sulle ragioni che hanno portato alla macelleria messicana, al lager di Bolzaneto, all’assassinio di Carlo Giuliani, alle ferite ancora aperte nei corpi e nelle menti di chi a Genova ha conosciuto il volto violento dello stato.
Sappiamo chi ha ordinato l’assalto alla Diaz, chi ha permesso lo scempio di Bolzaneto, chi ha gestito l’ordine pubblico a Genova.
Sappiamo che i fatti di Genova sono stati preceduti da un’attenta pianificazione e si sono svolti con le modalità previste, con lo scopo di disarticolare un nascente movimento antagonista, tappare la bocca e tarpare le ali al movimento.
Anche per ragioni anagrafiche chi ha programmato ed eseguito tutto ciò non occupa più le stesse posizioni di potere (in qualche caso il suo potere è aumentato), ma la politica di gestione dell’attività di polizia e di ordine pubblico non è mutata.
Se la scelta strategica era di lasciare mano libera alle forze di polizia, staccandole sempre di più dal resto della società, nulla è cambiato, soprattutto nell’impostazione delle politiche di gestione dell’ordine pubblico, indipendentemente dalla collocazione dei governi.
Le forze di polizia sempre più tendono ad assumere i connotati di una forza militare, sia per le modalità di arruolamento sia per quelle operative.
Come accade in altri settori di gestione della cosa pubblica, soprattutto quelli rivolti alle libertà individuali dei cittadini, la distanza che separa la nostra legislazione da quella dei paesi europei di democrazia matura è ormai abissale.
E nulla lascia presagire che il fondamentale obiettivo di avere forze di polizia che siano preposte non solo alla repressione dei reati ma anche alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini sia all’ordine del giorno.
La legge contro la tortura, che avrebbe dovuto essere approvata nel 1988 (quando l’Italia aderì alla convenzione dell’ONU) ancora giace in Parlamento, ma ciò che ne uscirà è forse peggio che non avere alcuna legge.
Grazie ad una normale intesa bipartisan (non ci risulta che nessuna minoranza abbia sollevato alcuna obiezione) sarà una legge che non punisce agenti, ufficiali o pubblici funzionari, ma si rivolgerà a “chiunque”.
Si tratta di una enorme mistificazione, che equipara la tortura inflitta da un rappresentante dello stato a violenze che hanno la loro radice in altri gangli della società, ma non mettono in discussione il rapporto tra il cittadini e il potere.
Perché questo deve insegnarci la sentenza della CEDU: uno stato che lascia un cittadino in balia della violenza e della prevaricazione dei suoi funzionari non può fregiarsi dell’aggettivo democratico.
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