dal gruppo terroristico somalo nella politica di Nairobi
#147notjustanumber. L’hashtag non va forte come #jesuischarlie, ma il senso è lo stesso: stringersi attorno alle 147 vite spezzate dalla violenza dei terroristi di Al Shabaab a Garissa, città a Nord del Kenya, al di là di quel confine poroso da cui, a partire dal 2013, incessantemente passano bombe e uomini armati. Le immagini del massacro sono ancora fresche nelle mente dei kenyoti, che per questo scendono in strada per dire no al terrorismo.
Ormai è guerra aperta, sul confine. Da una parte i terroristi di Al Shabaab, dall’altra le forze militari riunitesi attorno alla missione Onu AMISOM, di cui il Kenya è uno dei Paesi promotori. Lo spettro del fondamentalismo targato Al Shabaab ha già allontanato i turisti (tra cui, tanti italiani), e rischia di riempire le teste degli investitori stranieri di dubbi sulla tenuta del Paese.
Male per chi si candida a diventare la nuova locomotiva dell’Africa, oltre ad assumere il ruolo di guida di tutta quell’area geopolitica.
La guerra con Al Shabaab, però, ha più fronti. Quello più evidente è appunto il confine orientale e le ultime vittime che ha mietuto sono i 147 studenti del Garissa University College, un ateneo d’élite, frequentato soprattutto da cristiani. Il più pericoloso, però, è quello politico in cui il gruppo somalo viene usato come arma contro le parti avverse. E così, a seconda delle necessità, Al Shabaab può diventare la sigla dietro cui nascondere omicidi di cui non si conosce l’esecutore oppure la giustificazione per darsi poteri straordinari.
Ma andiamo con ordine. Il Kenya, come l’Italia, è un Paese pieno di magistrati che mettono sempre nel mirino le bestie più feroci della savana e tornano a casa a fine indagine con un pugno di mosche. L’ex colonia britannica è la terra promessa dei retroscenisti, una nazione che si candida, quando festeggerà anche lei 150 anni di storia, ad avere un armadio popolato dagli stessi scheletri rinchiusi in quello italiano.
La storia di Garissa però pare non rientrare nell’elenco dei misteri kenyoti. La dinamica dell’attacco sembra chiara: un commando di jihadisti sarebbe entrato nel campus all’alba aprendo il fuoco.
Gli attentatori sembra fossero «dotati e coscienziosi studenti dell’università», scrive il Daily Nation, il principale giornale kenyota. Ma affiora nelle testimonianze il racconto dell’inefficienza nella risposta di esercito e polizia, che sarebbero rimasti bloccati nel traffico e per questo avrebbero ritardato l’intervento. E così cominciano a montare le polemiche, le stesse scatenatesi dopo l’attentato al centro commerciale Westgate di Nairobi, avvenuto il 21 settembre 2013.
Allora, morirono in 68 e rimasero feriti in 150. Al Shabaab rivendicò l’attacco, ma le indagini non riuscirono nemmeno a ricostruire le nazionalità dei miliziani del commando. Sembra che tra loro ci fossero anche cittadini britannici e americani. Forze speciali che hanno partecipato al blitz per liberare gli ostaggi testimoniarono di non avere nemmeno una cartina per muoversi all’interno della centro commerciale. Sembra poi che gli attentatori avessero nascosto le armi una settimana prima dell’incursione: possibile? Sì, in Kenya tutto si spiega con una mazzetta: dalle ricostruzioni pare che qualche addetto alla sicurezza sia stato convinto a suon di scellini. Una spiegazione semplicistica, ma che potrebbe rispondere al vero.
Il presidente Uhuru Kenyatta all’epoca era sotto i riflettori perché ancora accusato di crimini contro l’umanità di fronte al Tribunale internazionale dell’Aja, che poi ha fatto cadere le accuse percheé il fatto non sussiste in dicembre. Pensare che tra Westgate e il caso Kenyatta ci sia un legame consequenziale sarebbe scellerato: nemmeno il retroscenista più impenitente oserebbe firmare un pezzo tanto scellerato.
Il dubbio legittimo, invece, riguarda l’efficacia della risposta che Nairobi ha deciso di dare al terrorismo.
Al Jazeera English, in un’impressionante inchiesta uscita lo scorso dicembre, tramite tre fonti interne alle forze di sicurezza di Nairobi, ha rivelato le esecuzioni extragiudiziali di una serie di imam accusati di proselitismo pro Al Shabaab ordinate da membri del governo ad agenti speciali della polizia. Il tutto in un’indagine tanto documentata da apparire quasi falsa: possibile che in tanti confessino? Forse. L’importante è che il rumore resti tale, senza provocare conseguenze.
In Kenya ci sono faide interne in ogni settore, anche tra chi è impegnato a garantire la sicurezza del Paese, con le forze speciali della polizia che si contendono il primato di corpo d’élite con alcuni reparti dell’esercito. I due contingenti polemizzarono dopo l’attacco al Westgate accusandosi reciprocamente di inefficienza e hanno polemizzato nuovamente dopo l’attentato di Garissa.
L’impressione è che da allora non si sia imparata nessuna lezione né tantomeno che il Kenya abbia potenziato la lotta al terrorismo vero.
Le incursioni oltreconfine dell’esercito del Kenya, frequenti negli ultimi due anni, erano più esercitazioni per una superpotenza regionale che una reale guerra alle milizie fondamentaliste. Tanto che all’inizio la missione è stata condotta in solitaria da Nairobi.
I Paesi sotto una minaccia esogena sanno conservarsi bene: si mantengono uniti, compatti, non cambiano pelle. Un esempio è il vicino Uganda, che ha subito nel luglio 2010 un attentato rivendicato dai fondamentalisti islamici: il clima creatosi in seguito spinse la popolazione a concedere un altro mandato al presidente Yoweri Museveni, in teoria a fine corsa. Il nemico riavvicina, permette deroghe e azioni in solitaria.
In Kenya la guerra per il potere è una lotta cruenta, fra pochi contendenti. Le oligarchie cercano qualunque strumento per sgambettare il vincente di turno.
Nel 2007 lo strumento fu un rapporto della società Kroll diffuso da Wikileaks che rivelava molti contenuti veri, ma che venne reso pubblico con una tempistica quanto meno sospetta. Accusava infatti l’ex presidente Daniel Arap Moi di aver sperperato del denaro pubblico proprio all’indomani dell’endorsement di quest’ultimo per il candidato ed ex rivale Mwai Kibaki. Le elezioni erano di lì a pochi mesi e, per inciso, dopo il trambusto infernale all’indomani delle elezioni, di quelle accuse non se ne è fatto più nulla.
Nel dicembre 2010, invece, fu utilizzata una velina dell’ambasciata americana. I contenuti li pronunciò il ministro della Sicurezza George Saitoti in Parlamento, sostenendo che alcuni deputati fossero pericolosi narcotrafficanti. In effetti è difficile smentire che il Kenya sia diventato un hub per il narcotraffico.
Nel giugno di due anni dopo il ministro morì in un incidente in elicottero molto sospetto. I colpevoli? Le ipotesi iniziali portavano ai terroristi di Al Shabaab, che definirono l’evento come “un dono caduto dal cielo”, oppure, in alternativa, a uno dei baroni della droga. Per la commissione governativa d’inchiesta, invece, il velivolo era caduto a causa della scarsa visibilità, ma nessuno ci credette davvero. Come, poche settimane fa, lo scorso febbraio, in pochi credettero che a uccidere due membri del parlamento, colpiti in pieno giorno da una pallottola, fosse stato un qualche violento con problemi di salute mentale. E non, ancora una volta, i miliziani di Al Shabaab.
Nel Paese delle indagini che puntualmente non portano a nulla, la reale minaccia di Al Shabaab, capace di uccidere studenti, assaltare centri commerciali e gettare intere città nel terrore, sembra poter essere utilizzata dai potentati locali come una pecetta per risolvere i propri problemi.
Per questo, i kenyoti, dopo aver mostrato coraggio ed essere scesi in piazza, dovrebbero chiedersi chi, nei loro palazzi del potere, gioca con i temuti miliziani di Al Shabbab, chi cerca tornero di usare la minaccia terroristica per il proprio tornaconto politico e chi cerca di trarre consenso elettorale persino da stragi come quella di Garissa. Dovrebbero farlo se davvero vogliono che 147 non sia solo un numero, l’ennesimo da aggiungere al lungo conto delle vittime del terrorismo e della guerra che cerca malamente di sconfiggerlo.
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!