Condannati ad amare una “professione malpagata”

In un libro di Giulio Marcon, 20 protagonisti del non profit raccontano l’evoluzione e le sfide di un lavoro che in Italia
conta oltre 680 mila addetti

tratto da Redattore sociale

Un manuale, una roadmap per il futuro, e anche un’inchiesta sui rischi e sulle opportunità che si incontrano nel mondo del terzo settore. Lavorare nel sociale – Una professione da ripensare, pubblicato dalle Edizioni dell’Asino e a cura di Giulio Marcon (nella foto sopra), attualmente deputato per Sinistra ecologia e libertà, ma da anni impegnato su tematiche sociali (Associazione per la pace, Lunaria, campagna Sbilanciamoci!), fotografa il lavoro sociale agli albori della riforma del terzo settore e ai tempi di un welfare “smantellato».

Una mappa dettagliata, con consigli pratici, suggerimenti e testimonianze, che attraversa un settore ampio che va dal carcere alla disabilità, dal microcredito alla cooperazione internazionale, dal lavoro di comunità all’altra economia, dai diritti umani alle tossicodipendenze, dalla scuola agli ospedali psichiatrici giudiziari. Un mondo in evoluzione costante che ha visto l’impegno volontario diventare strutturale fino a costituire una “parte integrante di un welfare mix». Un fenomeno che ha determinato la nascita di “una economia di grande importanza poggiata su tantissime imprese sociali con enormi bilanci e fatturati». Un passaggio storico, spiega Marcon, “che porta il terzo settore a essere un soggetto economico importante che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone».

Oggi, i lavoratori di questo ampio settore sono oltre 680 mila, così come numerosi sono gli albi professionali, le nuove qualifiche, i corsi, i master, le lauree e le scuole di formazione.

505786Una giungla dove non mancano “ambiguità e storture» emerse anche con le ultime vicende giudiziarie romane, ovvero Mafia Capitale, o quelle raccontate dal romanzo “I buoni» di Luca Rastello, spiega Marcon. Un mondo che spesso si trova ad operare in una “opacità gestionale, quasi fisiologica, per gran parte indotta dai meccanismi istituzionali e dei finanziamenti pubblici da cui è dipendente». Più di 20 i contributi raccolti dal libro dai protagonisti del lavoro sociale in Italia, dalla scuola al tema dei diritti, dal welfare alle nuove frontiere della finanza etica.

Apre la lunga serie di interventi Cecilia Bartoli, fondatrice di Asinitas (associazione romana per l’integrazione dei rifugiati), che pone subito l’accento sui rischi “dell’affannosa ricerca sul come auto-sostenersi in un panorama fortemente instabile e privo di punti di riferimento». Un contesto in cui l’educatore è diventato un “professionista, molto mal pagato e precario cui vengono richieste prestazioni sempre più disparate». Sullo stesso tema, le riflessioni di Giovanni Zoppoli, coordinatore del Centro territoriale Mammut di Scampia a Napoli e Nicola Ruganti, insegnante, che mette in guardia da “approssimazione e professionalizzazione» del lavoro sociale con gli adolescenti, in una scheda che approfondisce il rapporto tra operatore e ragazzo all’interno di un insieme di fattori, fatto di regole, contesti e rischi da tenere in considerazione. Una riflessione ampia anche quella di Franco Lorenzoni, che da anni gestisce la Casa Laboratorio di Cenci ad Amelia, che pone l’attenzione sulla necessità degli operatori di una continua ricerca.

“Lavorare nell’educazione senza ricercare – spiega – è come tentare di respirare senza polmoni».

Formazione sì, ma conta anche l’esperienza sul campo. Lo ricorda Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International che elenca le tante nuove figure professionali, dai campaigner a coloro che si dedicano al fact-finding o al fundraising, senza dimenticare le attività di advocacy. Per costruirsi una buona professionalità, però, non basta studiare, spiega Marchesi la “cosa migliore è probabilmente quella di buttarsi nella mischia». Esperienza pratica suggerita anche da Gianfranco Schiavone, dell’Asgi, associazione studi giuridici sull’immigrazione, secondo cui occorre scegliere percorsi che offrano la “possibilità di un tirocinio in una realtà che concretamente eroga servizi ai cittadini stranieri».

Per Sergio Giovagnoli, presidente di Arci Lazio Immigrazione, lavorare nel sociale richiede una “sempre più attrezzata coscienza critica capace di leggere i processi e le mutazioni della politica» da “coniugare con le competenze più avanzate». Francesco Carchedi, responsabile dell’area ricerca del consorzio Parsec, invita gli operatori sociali a “sapere fare connessioni multiple e saper co-programmare”, saper fare rete e lavorare insieme. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, afronta invece il delicato e difficile ruolo dell’operatore in carcere che “va ben oltre il suo mandato specifico» poiché “il carcere è un luogo dove la presenza della società esterna è un antidoto alla violenza e agli arbitrii». Tuttavia, il contesto e il confronto con l’istituzione carcere non semplifica le cose dal momento che “per il sistema penitenziario sono tutti volontari». “Il carcere è un luogo difficile dove lavorare», ricorda Gonnella. “Solo un operatore informato, conoscitore delle norme, rispettato per la sua autorevolezza, supportato dalla sua organizzazione avrà modo di non restare solo, silente e triste».

Un lavoro, quello nel sociale, che inoltre deve essere “amato», racconta don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco che sul tema del lavoro di comunità mette subito in chiaro le cose:

“Sono definitivamente terminati i tempi nei quali era facile confondere le funzioni di volontario e di operatore addetto a un servizio».

Un lavoro che ha bisogno di “professionalità adeguata», ma non solo. “Da parte di chi presta la propria opera è fondamentale che il lavoro sia cercato e amato». Per Marina Galati e Isabella Saraceni, della Comunità Progetto Sud, serve un “sapere professionale che sia empiricamente situato, sperimentato e accompagnato dallo sviluppo della riflessività». Agli operatori del sistema sanitario dedica un capitolo Roberto Landolfi, esperto di medicina sociale e del lavoro, mentre Pietro Barbieri, oggi portavoce del Forum del terzo settore, evidenzia le difficoltà nell’ambito della disabilità dove quello dell’operatore “è un lavoro disarticolato rispetto al quadro normativo nazionale e internazionale”.

Vittorio Agnoletto, fondatore della Lila e da anni impegnato nella lotta all’Aids sottolinea la necessità del saper lavorare in équipe, suggerita anche da Massimo Costantini, assistente sociale del Cnca. “Formarsi anche sul campo – spiega Costantini – permette di collegare teoria e pratica, per non rimanere delusi da false aspettative». Esperienza “sul campo» necessaria anche nell’ambito della salute mentale, come ricorda Dario Stefano Dell’Aquila, giornalista e ricercatore, secondo cui “l’operatore sociale che voglia acquisire una specifica competenza non ha altra strada». Carlo e Rita Brutti, inoltre, mettono in guardia gli psicologi che operano nel sociale dalla “perdita del senso dell’operare che rischia di diventare sempre più approssimativo”.

L’ultima parte del libro è dedicata ai “mestieri di un mondo diverso», con i contributi di Domenico Chirico, direttore di “Un Ponte per…» sul lavoro del cooperante internazionale, Alessandro Messina, responsabile delle relazioni con le imprese per Federcasse, e Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch, si confrontano su ulteriori tre ambiti, in parte nuovi, tra cui le nuove frontiere della finanza etica e quelli dell’altra economia.

Un manuale ricco di spunti, quindi, ma anche di nodi da sciogliere, conclude Marcon.

“Bisogna archiviare una volta per tutte la storia di un terzo settore parastatale e prono al business, commisto alla politica e senza valori, privo di radicalità e di volontà di cambiamento. Bisogna ricominciare da capo, facendo tesoro degli errori e delle cose buone fatte, ma consapevoli che serve un nuovo inizio con alla base rinnovate fondamenta sociali, etiche e politiche. È quello che si aspettano le tante persone che vogliono fare bene il mestiere degli operatori sociali». (ga)

 

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