lo ha rimosso dal suo palazzo. Un gesto simbolico e rivelatore
E così la nuova inquilina di Pantovčak, la residenza presidenziale croata, ha fatto le pulizie di primavera. Come aveva annunciato alcuni giorni prima durante una visita in Germania, Kolinda Grabar Kitarović il 18 aprile ha fatto rimuovere il busto di Tito dall’ufficio presidenziale. “E’ un dittatore” si è schermita e il busto, insieme ad altri oggetti della collezione personale di Broz ha preso la via del museo del suo luogo natale Kumrovec.
Come avrebbe dichiarato una fonte vicina alla presidente al quotidiano “Večernji list”, Grabar Kitarovic non vorrebbe rigettare la memoria antifascista in toto ma ricordarne selettivamente quegli elementi che si accordano con la sua visione della narrazione nazionale. Così dovrebbe finire nel dimenticatoio ogni legame con il comunismo per lasciare spazio alla memoria del “partigiano istriano o dalmata che si è battuto per l’annessione delle terre storiche alla madrepatria croata”.
Una dichiarazione che illustra con precisione la trasformazione operata da una parte cospicua del mondo politico croato della dimensione dell’antifascismo: un fantoccio, svuotato dei suoi contenuti originari, depoliticizzato e trasformato in una piattaforma irredentista alla quale va il merito di aver ricongiunto l’area alto adriatica al corpo della nazione.In genere fa da corollario una condanna senza appello dell’esperienza socialista, bollata genericamente come una dittatura che ha lasciato dietro di sé solo lati oscuri.
Un discorso politico mainstream da più di un ventennio sembra tracciare una linea divisoria tra l’ieri (il grigiore della Jugoslavia socialista) e l’oggi (la democrazia e la società dei consumi), intesi come concetti assoluti e privi di sfumature, separati da un evento fondamentale che non può essere messo in discussione, quello della giustezza della scelta dell’indipendenza, fondamenta dell’odierna impalcatura istituzionale.
Può stupire che, secondo un’inchiesta del portale mojevrijeme.hr, l’82% degli intervistati in una fascia di età che implica un’esperienza del precedente sistema avrebbe affermato che si viveva meglio al tempo della Jugoslavia, il 74% che potrebbe vivere ancora in un sistema monopartitico, il 69% sostiene che la corruzione sia a un livello maggiore oggi rispetto ai tempi della Federazione e il 55% rimpiange il potere d’acquisto della Jugoslavia socialista.
Al contrario, solo il 13% degli intervistati dichiara di essere stato discriminato su base nazionale nel precedente sistema e sono la maggioranza coloro che dichiarano di aver seguito normalmente le funzioni religiose al tempo della Jugoslavia.
Senza voler dare un’importanza eccessiva al sondaggio, è possibile trarre alcune riflessioni. La disaffezione odierna verso la classe politica del paese, piagato dal settimo anno consecutivo di crisi economica, può lentamente far scricchiolare la narrazione vittoriosa costruita dopo il 1991 con una grande profusione di sforzi mediatici, quella di un cammino teleologico della Croazia verso l’indipendenza.
Il concetto di democrazia, spesso declinato in senso prettamente formale, come un esercizio di voto, mette in luce la sua distanza da un’idea di partecipazione. Se da una parte un tale orientamento implica il forte rischio di trasformarsi in un trampolino dell’antipolitica, dall’altra può rappresentare anche un punto di partenza per una riflessione sul passato, che guardi senza dicotomie alla memoria del socialismo, lo estrapoli da una parentesi storica, senza cercare un bianco o un nero, senza demonizzarlo né glorificarlo, ma approcciandolo come un esperimento umano, che ebbe i suoi successi e i suoi fallimenti.
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