Dentro Mogadiscio

Da Mogadiscio, Somalia.
Testo e foto di Alessandro Rocca

Quello che colpisce è la calma apparente.

 

Giorno 1, mattina

Arrivati all’aeroporto di Mogadiscio, dopo quasi otto anni di assenza, a darci il benvenuto è un grosso cubo tutto vetro e cemento. Non è ancora ultimato, ma presto accoglierà tutti quelli che arriveranno nella capitale somala. Attraversata la pista spazzata dalla brezza di mare calda e polverosa, ci viene incontro un ragazzino, forse non ancora ventenne. Ci chiama per nome e poi si presenta: “Sono Zacharias”. Dice di non preoccuparsi del nostro bagaglio e che penserà lui ai nostri visti. Pare abbia tutto sotto controllo nel caos arrivi di Mogadiscio. Supera velocemente la fila al botteghino, e poi ci fa segno di andare verso di lui. Anche qui foto digitale di rito con webcam, per il resto tutto approssimativo e disordinato. Passiamo senza nessun problema il controllo passaporti e all’uscita troviamo le nostre borse. Dopo un breve tratto a piedi, e passati un paio di check militari, arriviamo alla macchina. Il tragitto verso l’Hotel Pace (nome che sembra una beffa per un paese in guerra da 23 anni) è brevissimo, forse 300 metri. Ma è tutto un serpentone di protezioni contro autobombe e attacchi da parte degli Al Sahabaab che ancora minacciano la città. Solo qualche giorno prima del nostro arrivo proprio di fronte all’aeroporto una bomba ha fatto una strage.
Pochi minuti e siamo nel compound. Ci attendo Pietro capo progetto del Cesvi, una ong italiana che si sta occupando di minori, sia in città che nei campi profughi nati nel corso degli anni tutt’intorno a causa della guerra che affligge il paese.
Ci presenta Bashir, sarà lui il nostro uomo. Smartphone di ultima generazione, occhiali da sole alla Top Gun, tablet sempre acceso e camicia stirata. Età indefinibile, probabilmente fra i 30 e i 40 anni. Ma sa il fatto suo. Se Bashir dice si può, allora si fa, altrimenti si resta. Uscire a Mogadiscio, nella calma apparente della città è estremamente pericoloso per un bianco, ancora peggio se armato di macchina fotografica e telecamera. Il pericolo sono i sequestri e le autobombe che vengono scagliate anche contro i convogli dove viaggiano gli “infedeli”. Di uno di questi attentati ne è stata vittima Alessandra Morelli responsabile dell’UNHCR per il Corno d’Africa, a Mogadiscio da oltre due anni. Era il marzo 2014 e solo la sua auto blindata le ha consentito di salvarsi la vita.
E’ ora di pranzo. Un cameriere gentile che conosce anche qualche parola di italiano ci porge il menù del giorno scritto su un foglio ordinato appena battuto al computer. Ci sono almeno 5 primi, ma quando arrivano i piatti, scopriamo che sono nomi diversi dati alla stessa portata! Lo spaghetto in Somalia non manca mai però.

Giorno 1, pomeriggio

Vogliamo uscire. Sono circa le due del pomeriggio. Bashir dice che è una buona giornata. Tutto tranquillo in città. Tanto che non ci da nemmeno l’auto blindata e solo un’auto di scorta con sei uomini, ben armati e ordinati (di solito le auto sono due, una che apre e l’altra che chiude il convoglio). Sono stupito dall’ordine e dalla disciplina dei ragazzi della scorta. Ero abituato a miliziani vestiti uno diverso dall’altro, con armi più o meno recenti, masticatori infaticabili di chat (l’erba allucinogena molto in voga in questa parte del mondo), che aiuta a non sentire la fatica, la fame, il caldo. Monto una telecamerina all’interno dell’auto (non si sa mai, non dovessimo riuscire a scendere). Bashir ci spiega che in ogni posto dove ci fermeremo la sosta potrà essere solo di alcuni minuti. La prudenza non è mai troppa e fermarsi a lungo in un posto può dare il tempo ad altri di “organizzarsi”. Andiamo verso il mercato del pesce sul lungomare. All’interno alcune donne fanno gli ultimi acquisti della giornata. Qui il mare è uno dei più pescosi del mondo anche se le reti dei pescatori tirano su di tutto. In quello che sembra un mattatoio, un’ala appartata del mercato, nascosta dietro due muretti di un metro e mezzo, giacciono alcune tartarughe giganti capovolte, ancora in vita. Presto verranno sventrate e vendute. Per noi sono specie in via di estinzione, qui fonte preziosa di proteine.
Il tempo scorre e i minuti passano, il responsabile del mercato che parla un buon italiano vorrebbe dialogare ancora con noi, ma la nostra scorta dice che bisogna andare. Ultime foto al lungo mare, con i ragazzini sugli scogli e alcune navi in lontananza e la vecchia Mogadiscio ferita che guarda verso l’oceano indiano. Andiamo verso la cattedrale, più volte bombardata, vicino la piazza dell’arco di trionfo, miracolosamente ancora intatto, e tutto intorno palazzi e case in stile coloniale, con loggiati e colonne, ridotte ad un cumulo di macerie. Dentro la navata centrale della cattedrale, un gruppo di persone chiacchiera, alcuni ragazzini giocano a calcio. Qualche capra è in cerca di qualcosa di commestibile e un vitello vaga senza meta. Doveva essere un gioiello questa chiesa: ora il suo tetto è l‘azzurro intenso del cielo.

Qui la sosta dura almeno quindici minuti, ma ora si deve andare. Ci dirigiamo verso la spiaggia dove la gente passa il pomeriggio. Le donne sul lungo mare battuto dal vento con i loro veli disegnano strane figure sull’orizzonte. I ragazzi più coraggiosi affrontano le onde, ma nessuno è in costume, ne donne, ne uomini. Le prime coperte come vuole la religione, i secondi al massimo in canotta e pantaloni.
E’ ora di risalire in auto, sono gia le 4 ed è meglio rientrare. Velocemente riattraversiamo la città che è spaccata in due. Lungo la costa un cumulo di macerie, la parte interna appare in continuo divenire, con i viali ordinati e asfaltati, i lampioni ad energia solare, i negozi con le tipiche insegne murales dipinte a mano. E la gente che si affretta nel traffico. Ci dicono che un forte impatto sulla città lo sta avendo la Turchia. La compagnia di bandiera di Ankara ha voli regolari su Mogadiscio 4 volte a settimana. Le imprese turche stanno ricostruendo la città, le sue infrastrutture, in una corsa senza sosta con i cinesi, che qui sembrano meno presenti che in molti altri paesi africani.

 

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Giorno 1, sera

Rientrati all’hotel pace, salgo sul tetto per godere del tramonto e della brezza che dal mare soffia verso l’interno. La calma apparente avvolge Mogadiscio. La voce del Muezzin è solo un suono in lontananza spostato dal vento.

Giorno 2, mattina

Non ci può essere colazione in Somalia senza il fegato di capretto con le cipolle, quello che da noi è chiamato alla veneziana. Qui è considerato una vera prelibatezza e viene servito con le uova e il pane tostato al posto del bacon.
Mentre beviamo il caffè ci raggiunge Bashir con Pietro. La giornata dovrebbe essere dedicata alla visita dei centri che si occupano di minori, sia in città che verso la striscia di Afgoye dove sono concentrati molti campi profughi. Bashir ci comunica che nella zona dove dovremmo recarci c’è appena stato un attentato con un’auto bomba, evento all’ordine del giorno in città ormai da mesi. Dobbiamo aspettare il via libera per muoverci. Verso le 9,30 usciamo e ci dirigiamo verso i campi profughi. Decine di donne e bambini in composta attesa del loro turno per una visita, un vaccino o la somministrazione di un farmaco. Sono pochissime le ong che operano in Mogadiscio e con grande difficoltà. Nel vicino campo profughi il nostro arrivo desta curiosità e forse aspettative tra le donne che attendono per l’acqua. Mi allontano per fare qualche scatto, ma subito un uomo della scorta mi segue ed un altro si pone di fronte a me. Troppo pericoloso girare per il campo da solo. Potrebbero esserci infiltrati Al Sahabaab ed approfittare della mia voglia di raccontare questa gente che soffre da più di due decenni.

Ci spostiamo nel centro della città. Chiedo di poter passare nella via dove c’è l’Hotel Hamana, tristemente noto per l’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ci voglio andare assolutamente. E’ da quando sono arrivato che ne parlo con Baschir. Ma lui è sempre titubante. Dice che noi vogliamo parlare male della Somalia e in quei posti non mi vuole portare. Ma alla fine cede. Facciamo su e giu per la via, un paio di volte. L’hotel non c’è. I ragazzi della scorta bussano ad un portone, pare questo il luogo, si, pare proprio qui. Ma la guerra ha distrutto anche questo luogo, tutto intorno è devastato, solo ruderi con centinaia di buchi di artiglieria. Mi fanno cenno di scendere, mi dicono che ho solo due minuti. La gente si sta chiedendo perché mai voglia fare delle foto e delle riprese proprio li, proprio a quell’insignificante portone. Qui sono stati assassinati due giornalisti che cercavano la verità su traffici illeciti di armi e rifiuti tra l’Europa e la Somalia, giornalisti scomodi, attirati probabilmente in una trappola, e freddati, in un’esecuzione.

Giorno 2, pomeriggio

Oggi le auto di scorta sono due, dodici uomini, più il capo scorta e gli autisti. Farà è uno di loro. Comunica di continuo con la sua radio. Si accerta che tutto sia in ordine. Ma dobbiamo muoverci veloci, il rientro è previsto prima. Siamo gia stati troppo in giro per la città e la nostra presenza non passa di certo inosservata. Massimo alle 14.30 bisogna rientrare. Ci dirigiamo verso un altro centro sanitario nella parte sud della città. E’ una struttura apparentemente nuova, ma semplice nella sua essenzialità. Ci accoglie un medico somalo, che ha studiato in Uganda. Alcune donne velate aspettano nel cortile. Osservano attraverso i loro chador questi bianchi con le macchine fotografiche. Qualcuna sorride con gli occhi e guarda con insistenza.
Ma è molto tardi bisogna muoversi. Saliamo sulle auto e percorriamo un tratto della città che non avevamo ancora visto. Traffico e persone indaffarate, ancora una volta l’apparente tranquillità di una qualunque caotica città africana. Passiamo di fianco all’ingresso dell’aeroporto, con le sue fortificazioni, enormi muri di sabbia e reti metalliche in grado di fermare un’autobomba. Rientriamo. Ancora un tramonto spazzato dal vento su Mogadiscio, domani si parte.

 

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Giorno 3, mattina

E’ ancora Zacharias il nostro uomo. Sarà lui a percorrere con noi le poche centinaia di metri che ci separano dall’aeroporto, rigorosamente in auto e con i vetri oscurati. All’interno dello scalo ci avvertono che il nostro volo farà uno scalo tecnico a Wajir, appena in territorio kenyota. Le autorità di Nairobi non si fidano dei controlli antiterrorismo dei somali e così bisognerà sbarcare e far ricontrollare tutti i bagagli e noi stessi. Al gate c’è un via vai attraverso la porta che conduce agli aerei che sembra l’ingresso di un centro commerciale. Ma siamo pur sempre al Mogadiscio International airport. Un uomo oltre la porta. Oltre quella barriera che nel nostro occidente è sbarrata da metal detector, porte sbrangate, guardie armate ed allarmi…beh, qui a Mogadiscio, se vuoi, puoi uscire e fumarti una sigaretta sotto il portico, osservando il via vai di aerei improbabili. E forse un poliziotto dalla divisa non proprio di ordinanza ti chiederá :”italiano…?”
Quando viene chiamato il nostro volo, un militare, con il suo frustino che sventola in aria con fare cameratesco ci impone di fare due file. Uomini da una parte e donne dall’altra. Questo per impedire contatti fra i due sessi, non si sa mai! Saliamo sul volo. L’aereo è pronto sulla pista lungo mare. Lasciamo Mogadiscio con un pizzico di amarezza. La città potrebbe essere splendida, un ottimo posto per una vacanza. Ci ha pensato anche Bashir, l’uomo che ci ha protetto nella nostra breve visita. Lui i turisti li vuole portare davvero in Somalia, è convinto che entro due anni tutto sarà in ordine e intanto si è comprato un pezzo di spiaggia vicino alla città, con i soldi delle scorte!

 

 

 

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