di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, Giulia Lazzarini, John Turturro, Nanni Moretti, Beatrice Mancini.
Di Irene Merli
Il dodicesimo film di Nanni Moretti è, come è stato scritto, “pericolosamente” intimista. Ancor più de La stanza del figlio, perché lì c’era in campo un fantasma e qui una perdita vera, che il regista ha vissuto durante il montaggio di Habemus papam. All’epoca aveva tenuto dei diari: quando li ha riletti ha pensato di usarli per dare più verità ai dialoghi di Margherita, la protagonista del film, e gli hanno suggerito il titolo di una semplicità disarmante: Mia madre.
Così come è disarmante la sincerità con cui Moretti racconta quest’ultima storia: una regista di mezza età, che molto gli somiglia, sta girando un film sulle proteste operaie in una fabbrica con un attore americano indisciplinato, ha appena chiuso una relazione con un attore della troupe, ha difficoltà a seguire la figlia tredicenne che vive con l’ex marito e va avanti e indietro dall’ospedale dove sua madre si avvia alla confusione e alla morte.
Sarebbe già molto per una persona più solida, ma Margherita è turbata, incerta, spezzata. Si sente inadeguata su ogni fronte. Quando è sul set vorrebbe essere con la madre, quando è con la madre pensa alla figlia, a volte sembra che viva e invece sogna, oppure le escono dei pensieri a voce alta sul set che non riguardano il film…
Una situazione fluida, tipica di chi si sente travolgere da una serie di avvenimenti e soprattutto dall’avvicinarsi di un lutto che fatica addirittura a realizzare. Una solitudine troppo abitata. Per fortuna Margherita ha al suo fianco un fratello ingegnere più posato, adeguato, che ha preso un’aspettativa perché non riesce a far convivere lavoro e dolore: la persona che tutti vorremmo vicino in un momento del genere.
Il dolore, la malattia, la morte, ma anche l’allegria quotidiana che strappa risate, sono raccontati con una delicatezza e un’autenticità che commuovono senza mai cadere nella retorica o nel patetico, perché arrivano dalla vita vera.
La vita di una famiglia borghese con la mamma insegnante di latino e greco che ha fatto del suo lavoro una missione. I suoi allievi la vengono ancora a trovare, per parlare o prendere un caffè, e pure con la maschera ad ossigeno continua a dare ripetizioni alla nipote. Ma ora quella piccola grande donna perde energie ogni giorno, con tutto lo sconcerto e la paura che può provare una persona autonoma nel trovarsi di colpo a dipendere da medici, infermiere, figli…
È tutto così vero quello che vediamo sullo schermo, da far accapponare la pelle. Persino i libri nella casa della madre malata sono quelli che erano nell’appartamento dei genitori di Moretti: in una scena la mano di Margherita li accarezza con amore e rimpianto.
Ma ovviamente in un film di Moretti si ride, non ci si commuove soltanto. Come è proprio dei grandi film.
E il lato comico si rivela nelle scene in cui Margherita lavora, con tutte le idiosincrasie, la mania di perfezionismo, le insofferenze del Moretti regista, tra le guasconate di John Turturro, l’attore americano, che millanta di aver lavorato con Kubrick e poi non ricorda neppure le battute, costringe a un sacco di ciak, complica e rovina il serissimo film che il vero Nanni non vorrebbe mai girare.
L’amerikano è John Turturro, a suo agio in questa parte un po’ gaglioffa, mentre Margherita Buy, presente in ogni scena del film, qui è giunta al suo apice di maturazione. E Moretti si è talmente “scansato” da se stesso da ritagliarsi una parte pià piccola ma luminosa per misura e profondità. Su tutti, un’indimenticabile Giulia Lazzarini che ha raccontato di “aver cercato di dare una presenza a qualcosa che Nanni aveva dentro”. Che grandezza, che umiltà… Non si può neanche pensare quanto può aver perso il cinema italiano rinunciando ai migliori attori dei nostri palcoscenici.
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