Di Davide Maggiore
Scrivo queste righe mentre il numero dei morti in quella che è ormai certamente la più grande strage di migranti nel Mediterraneo, cresce ancora: da 700 si sarebbe passati ad oltre 900. E in un orripilante gioco di rincorsa, insieme ai numeri delle vittime del ‘mare di Mezzo’ (se le ultime cifre fossero confermate, nel 2015 sarebbero già 1800 in poco meno di quattro mesi), sale anche il tono delle reazioni politiche, soprattutto italiane.
Dalla richiesta di un “blocco navale” c’è chi è passato – con parole riportate da alcune testate online, e che si spera vengano smentite al più presto – a quella di “affondare i barconi”. Indipendentemente dal grado di verosimiglianza, praticabilità e umanità di ogni presunta “soluzione”, tuttavia, c’è un elemento che quasi tutte le proposte sembrano avere in comune ed è, per così dire, il radicamento geografico.
Il mantra delle ultime settimane, in effetti, è stato soprattutto uno: “Se non si risolve il problema in Libia…”. Questa era la premessa apparentemente indispensabile di ogni discorso: tutto sembrava passare per il paese che fu del colonnello Gheddafi – da molti rimpianto – come se la Tripolitania e la Cirenaica fossero diventate il ricettacolo di tutti i migranti d’Africa pronti a riversarsi verso nord e soprattutto verso le coste italiane.
Ma la realtà dei fatti è un’altra: davanti all’immensità dell’Africa, la ‘porta d’Europa’ si riduce, semmai, a una finestra e i dati dimostrano che sono molti più gli africani che, invece della costa nord, cercano di raggiungere l’altra estremità del continente. Per ogni migrante africano che passa da Lampedusa, oltre tre cercano infatti di raggiungere il Capo di Buona Speranza.
Le cifre dell’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sono chiare: l’Italia ospitava, a luglio 2014, 98.000 tra rifugiati e richiedenti asilo, contro i 309.000 del Sudafrica. E di questi, un numero abbastanza importante arriva dal Corno d’Africa, normalmente visto come uno dei punti di partenza di chi sceglie l’Europa e l’Italia in specie. Eppure, all’inizio di quest’anno, ben 24.000 somali risultavano rifugiati in Sudafrica, insieme a 9.600 etiopi. E altri 4.400 di questi ultimi avevano presentato richiesta d’asilo. In dodici mesi, prevede inoltre l’UNHCR, il numero complessivo crescerà di circa 5.000 persone.
Non è a caso che si è scelta come termine di paragone la ‘Nazione Arcobaleno’, né ha pesato solo il fatto che la sua popolazione totale (circa 53 milioni, ma in crescita) sia sostanzialmente paragonabile a quella italiana. È questo infatti l’altro paese che, nelle ultime settimane, ha occupato le cronache internazionali per questioni che hanno a che fare con migranti, rifugiati e richiedenti asilo: un’ondata di violenze xenofobe ha interessato alcune delle principali città, in particolare Durban e Johannesburg.
Ad innescarle, alcune dichiarazioni di un capo tradizionale, il re zulu Goodwill Zwelithini, che hanno un suono fin troppo familiare per chi è abituato alla propaganda politica nostrana. Secondo il sovrano, infatti, gli stranieri tolgono il lavoro ai cittadini sudafricani e sporcano le strade. Di qui l’invito a “fare le valige e tornare a casa”, che re Zwelithini ha rivolto loro.
L’esempio sudafricano è significativo non per il numero dei morti – sei finora – ma per l’entità delle reazioni che le parole del sovrano zulu hanno provocato e anche per un’altra ragione. Mostrare, cioè, quanto simili siano per molti versi le dinamiche relative a certe questioni, pur a migliaia di chilometri di distanza.
E altri casi africani potrebbero portare alle stesse conclusioni: la situazione dei migranti congolesi in Angola, con la stampa locale che cita quasi quotidianamente il numero degli espulsi e dei respinti alla frontiera; i rapporti difficili tra cittadini della Costa d’Avorio e quelli del Burkina Faso, in quella che è storicamente la via della migrazione più frequentata del continente (1 milione di persone in 10 anni); i sospetti di connivenza col terrorismo che circondano, in Kenya, i somali del campo di Dadaab e non solo.
Allargando lo sguardo dal Nordafrica all’intero continente, insomma, si comprende bene che un’azione di qualunque tipo centrata sulla Libia, se fosse efficace, potrebbe risolvere al massimo (ma per quanto?) le questioni che riguardano la frontiera meridionale dell’Europa. Non inciderebbe affatto, invece, sui fattori fondamentali che provocano i grandi movimenti umani nel continente: disuguaglianze economiche, mancanza di riconoscimento dei diritti fondamentali, persecuzioni per ragioni politiche, ideologiche o di fede.
Sono dunque questi i temi che andrebbero posti all’ordine del giorno, i nodi di cui andrebbe cercata la soluzione se si vuole evitare il ripetersi di stragi del mare sempre più gravi, e non solo di quelle. E nel fare ciò, sarebbe opportuno anche guardare ai nostri (cioè europei e italiani in primis) rapporti – spesso oscuri – con i paesi di provenienza dei migranti. È, ad esempio, di pochi giorni fa la notizia della condanna in primo grado dell’ex assessore regionale lombardo Piergianni Properini per esportazione illegale d’armi in Eritrea.
Per non parlare del comportamento schizofrenico nei confronti di un altro regime, quello del Sudan: interlocutore affidabile quando è in gioco la firma del “processo di Khartoum” – che riguarda proprio le migrazioni – ma non quando si parla di elezioni. Durante l’ultimo voto, concluso da pochi giorni, infatti, l’Unione europea non ha voluto inviare osservatori, prendendo atto dell’ impossibilità “di ottenere un risultato credibile”.