La storia del celebre musicista armeno Komitas. Sopravvissuto al genocidio del 1915, sprofondò nel silenzio
di Maria Izzo
Passata la furia del caos, il vuoto innaturale. Spento il clamore delle grida e delle armi, solo una calma spettrale riempie le vie dell’Anatolia in quell’aprile fatale di cento anni fa, quando il governo turco-ottomano mette in opera il suo piano cruento: sradicare l’Altro dall’Impero. Con mano violenta si abbatte sul territori ottomani fino ai confini orientali, lasciando dietro di sé morte, ceneri e rovine: una terra devastata, una storia rimossa, una ferita aperta nell’anima di un popolo, gli Armeni.
Dopo l’orrore, il silenzio. Tacciono i Turchi, impegnati a cancellare ogni traccia della presenza armena; tace il mondo esterno, distratto dalla Prima Guerra Mondiale, che coinvolge la stessa Turchia; tacciono i sopravvissuti che, strappati dalla loro terra, vagano sradicati e dispersi.
Il silenzio regna anche nell’esistenza di Komitas, musicista, musicologo e compositore considerato il Padre della musica armena, la cui vicenda personale rappresenta con estrema efficacia il dramma dell’intero popolo.
Nato nel 1869 con il nome di Soghomon Soghomonian da genitori armeni in una città della Turchia centro-occidentale, dedica le proprie energie e il proprio talento a rivitalizzare la tradizione musicale del suo popolo, mentre nell’Impero si accende la scintilla della questione armena. L’incendio che ne divampa, culminando nella violenza del genocidio, segnerà la sua vita irreversibilmente.
Il racconto dei primi anni della sua vita è sospeso fra storia e leggenda. Alcune fonti lo descrivono come un orfano che vive nella miseria e nell’abbandono; altre invece parlano del suo affidamento a una famiglia adottiva. Ma le discordanze fra le varie versioni si ricompongono riguardo alle circostanze del suo ingresso in seminario. Nel 1881 un prelato della sua diocesi viene convocato a Etchmiadzin, la città sacra per la Chiesa Armena, per essere ordinato vescovo e porta con sé un orfano da avviare agli studi seminariali. L’orfano è Soghomon Soghomonian. Il giovane non parla l’armeno, poiché, nell’area geografica di cui è originario, l’unica lingua ufficiale è turco, ma viene ammesso in seminario grazie alle sue doti canore.
L’ingresso in seminario segna l’inizio della sua attività di etnomusicologo. Vaga per i villaggi sulle pendici del Monte Ararat per raccogliere canti tradizionali, che trascrive con la notazione della musica liturgica armena. Si narra che sia arrivato a trascrivere in un solo giorno 34 canti. Il suo obiettivo non si limita al campo della musica. Portando alla luce la valenza sociale del canto come forma di “conversazione” fra chi canta e la comunità di ascoltatori e ricostruendone la forma originaria, fino al Medioevo, cerca di recuperare le radici più lontane della cultura armena. La sua attività di raccolta e trascrizione diventa un cammino verso la riscoperta dell’identità culturale del suo popolo.
Nel 1893 Soghomon viene ordinato prete e Dottore in Teologia, Vardapet in lingua armena. Fedele alla prassi della tradizione monastica, assume un nuovo nome. Sceglie Komitas, nome di un monaco vissuto nel VII secolo, celebre per aver composto inni sacri in armeno.
Mosso dal desiderio di un orizzonte più ampio, Komitas lascia Etchmiadzin prima per Berlino, poi per Parigi, dove le sue sonorità “euroasiatiche” e la sua spiritualità destano l’ammirazione di Claude Debussy.
Lo attende un amaro ritorno in patria. Da una parte incontra l’ostilità del clero armeno, per il quale Komitas aveva interessi troppo profani, dall’altro deve affrontare la diffidenza delle autorità ottomane, che leggono nel suo lavoro di ricerca sulle radici del folk armeno una potenziale minaccia.
Tuttavia, quando nel 1910 si trasferisce a Costantinopoli, riceve un’accoglienza positiva da parte del pubblico turco.
Poco più avanti, nel 1913 inaugura un progetto di storia orale rivolto a celebrare la comunità armena residente in territorio ottomano. Tristemente ironico, visti gli eventi che stanno per travolgere l’intero popolo armeno.
Mentre Komitas si appresta alla sua opera, Costantinopoli fa i conti con una profondissima crisi che sfocia in una rivoluzione guidata dai Giovani Turchi, schieramento che da una parte propone una modernizzazione economica sul modello occidentale, dall’altra mostra un forte tendenza al centralismo nazionalistico. Quando prende il potere il triumvirato composto da Enver, Talat e Cemal Paşa, l’Impero ha appena subito l’ultima perdita, l’Albania, e ora il suo territorio, in seguito alle guerre balcaniche, è ridotto di un terzo rispetto all’estensione del 1908. La sconfitta territoriale, che si somma all’espulsione della popolazione turca musulmana dai territori balcanici, innesca un processo di radicalizzazione nazionalista del governo dei Giovani Turchi.
Le forti tendenze nazionaliste dei Giovani Turchi si scontrano inevitabilmente con le rivendicazioni della popolazione armena, che protesta da tempo perché le vengano riconosciuti alcuni diritti che agli armeni, in quanto minoranza, sono negati. Il malcontento armeno, soffocato nel sangue dai massacri perpetrati dal sultano Abdül-Hamid II negli anni 1894-96, è ormai diventato risentimento. Il discorso nazionalista anti-turco assume toni più aspri e gli atti di ribellione armata si fanno più frequenti. Nel 1915 lo scenario per la tragedia è ormai pronto.
Con l’arresto di oltre 2.300 armeni, fra le personalità più in vista della comunità, iniziano il 24 aprile 1915 le operazioni che porteranno al genocidio degli Armeni. L’ondata di arresti non risparmia Komitas, che viene deportato in Anatolia insieme ad altri artisti e intellettuali. Qui, nel cuore dell’Armenia storica, Komitas si ritrova faccia a faccia con l’odio più cieco, assistendo in prima persona al massacro indiscriminato del suo popolo, allo sradicamento di una civiltà che ha popolato quelle terre nel corso di una storia millenaria.
Agli Armeni i Turchi hanno riservato un trattamento efferato, dal quale Komitas si salva grazie all’intercessione dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau e della figlia del Sultano, sua allieva. Ma la salvezza è solo apparente. Dopo tanto dolore, la sua mente è perduta per sempre. In seguito agli eventi del 1915 la sua vena artistica si è spenta e le corde della sua ispirazione sono sprofondate nel più oscuro mutismo. Da quel momento Komitas interrompe la sua produzione musicale e i suoi studi, inoltre, rifiuta totalmente di suonare. Nella furia del Metz Yeghern, il Grande Male, come gli Armeni chiamano il genocidio, il suo lavoro di ricerca e ricostruzione dei canti tradizionali armeni è andato distrutto: non solo ha perduto la sua terra e la sua patria, ma anche la possibilità di preservarne la memoria attraverso la musica. Si dice che questo tormento, unito al trauma della catastrofe, lo abbia portato al silenzio.
Ryszard Kapuscinski in “Imperium” racconta l’abisso del musicista:
“Dedicò l’intera vita alla musica armena. Girava per le campagne raccogliendo canti popolari. Compose decine, qualcuno dice centinaia, di cori armeni. Era un gusani, un cantore ambulante, improvvisava epopee, cantava. Nel 1915 in Turchia cominciò il massacro degli armeni. Fu nella storia il maggiore eccidio prima di Hitler, un milione e mezzo di armeni vi persero la vita. I soldati turchi trascinarono Komitas in cima a una roccia, dalla quale stavano per buttarlo giù. Lo salvò all’ultimo momento la figlia del sultano di Istanbul, sua allieva. Ma ormai Komitas aveva visto l’abisso e la sua mente era rimasta sconvolta. Aveva quarantacinque anni. Qualcuno lo portò a Parigi. Non sapeva di trovarcisi. Visse ancora vent’anni. Non disse più una parola. Vent’anni in un asilo per alienati. Camminava poco, taceva, però guardava. È probabile che vedesse i suoi accompagnatori, dicono li guardasse in faccia. Interrogato, non rispondeva. Provarono con ogni mezzo. Lo portarono davanti a un organo. Si alzò e andò via. Gli fecero ascoltare dei dischi. Sembrava che neanche li sentisse. Qualcuno gli pose sulle ginocchia uno strumento popolare, il tar. Lo scostò delicatamente. Nessuno può dire con certezza se fosse malato oppure no. E se avesse scelto il silenzio? Forse quella era la sua libertà. Non era morto, ma neanche viveva. Esisteva e non esisteva, sospeso tra la vita e la morte, nel purgatorio per malati di mente. Coloro che andavano a trovarlo dicono che appariva sempre più stanco. Ogni tanto raspava la superficie del tavolo con le dita, in silenzio, poiché il tavolo non faceva rumore. Era calmo, sempre serio. Morì nel 1935: ci mise vent’anni a cadere nel baratro dal quale un giorno la figlia del sultano di Istanbul, sua allieva, l’aveva salvato”.
Come i molti Armeni che il Grande Male ha disperso, strappandone le radici, Komitas vive nel mondo come in una terra straniera, con una sofferenza che è troppo grande per essere cantata. Il silenzio è caduto sugli Armeni e ne ha coperto la tragedia per decenni, ma a distanza di un secolo il trauma vissuto da un intero popolo continua a riverberare con sinistri bagliori di guerra nelle dispute territoriali che ancora oggi tormentano ciò che resta di quella terra.