di Gabriele Battaglia
tratto da China Files
«Guarda quali sono le aziende che dopo il lancio della Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB) e del fondo per la Via della Seta hanno regolarmente superato il benchmark, sia a Hong Kong sia a Shanghai: costruzioni, sviluppo portuale, trasporti, infrastrutture, ferrovie, macchine edili. Sono quasi tutte aziende di Stato, ma a loro si agganciano anche i privati come Sany Heavy Equipment, che fa macchinari». Si chiama esportare l’eccesso di capacità produttiva. La Cina, in casa sua, ha questo problema. E la Via della Seta le offre una via d’uscita. Follow the money, si dice di solito, e noi lo facciamo con Tom Miller, analista per l’Asia di Gavekal Dragonomics che da anni segue le manovre della Cina lungo quella che è destinata a diventare la nuova Via della Seta.
Al di là della geopolitica, qual’è la ratio economica della grande, grandissima opera? Chi ci guadagna? Quali sono i rischi?
«La Via della Seta serve a fare gli interessi economici della Cina condividendoli però anche con gli altri. È la parte internazionale del sogno cinese di Xi Jinping e si focalizza soprattutto sui Paesi vicini. La Cina manca di soft power, non è considerata un partner affidabile, quindi Pechino utilizza come leva il potere finanziario e l’appeal del proprio mercato di massa», spiega Miller.
Ci sono due Vie della Seta. La prima è la cosiddetta «cintura economica» via terra che, passando per l’Asia Centrale, collega la Cina con l’Europa.
«Dato che la maggior parte delle esportazioni continuerà ad andare per mare, il senso di esportare via terra è anche quello di dare sviluppo al Far West cinese», quello Xinjiang, cioè, dove gli uiguri si sentono esclusi dalla crescita economica. «Un altro obiettivo è quello di ottenere le risorse minerarie dell’Asia centrale». Questo è per esempio il significato dell’oleodotto che dal Mar Caspio va in Cina attraverso il Kazakistan (la Cina controlla un quarto del petrolio kazako) e del gasdotto che dal Turkmenistan attraversa Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan e finisce sempre in Cina. «Non sarebbe necessario che un gasdotto passi attraverso tutti quei Paesi – spiega Miller – ma la Cina vuole riempire il vuoto lasciato dai sovietici».
C’è poi la direttrice sud-ovest, verso il bacino del Mekong. L’idea, in questo caso, è quella di costruire infrastrutture sperando che poi, col tempo e lungo il percorso, arrivino le industrie private.
«Siamo ancora agli inizi. La ferrovia che attraverso il Laos si allaccerà alla rete thailandese è un progetto molto controverso, perché il costo è elevato: pari al 70 per cento del PIL laotiano. Il che significa che il Vientiane otterrà un prestito dalla stessa Cina. Come può ripagarlo? Beh, il Laos è molto ricco di minerali e la sua parte settentrionale è già una colonia del Celeste Impero, con la presenza di molti agricoltori dello Yunnan e piantagioni possedute da cinesi. E poi c’è ‘la zona economica speciale del Triangolo d’Oro’, che è una sala da gioco diffusa in cui è possibile utilizzare Renminbi e comunicare sulla rete di China Mobile».
La Cina sta anche cercando di espandersi attraverso Myanmar. «Questo è il corridoio Cina-Myanmar-India-Bangladesh, che da Kunming deve arrivare a Calcutta. Ma sia Myanmar sia India sono molto diffidenti nei confronti dell’espansione cinese. Sono tutti d’accordo nel dire che bisogna migliorare l’interconnessione, costruendo una nuova autostrada lungo la vecchia Burma Road. Ma poi la tensione di Pechino verso l’Oceano Indiano viene ripetutamente frenata, soprattutto dopo che i militari al potere in Birmania hanno cominciato a prendere le distanze dalla Cina per paura di dipendervi troppo.»
La seconda Via della Seta è quella marittima, che deve aprire nuove rotte dal Mar Cinese Meridionale all’Oceano Indiano e oltre.
«In questo caso, il problema è l’ammodernamento dei porti», spiega Miller. «La Cina ci tiene molto all’interconnessione mare-terra, cioè la costruzione di infrastrutture intorno agli scali. Ma, soprattutto in India, questo suscita molte preoccupazioni, perché il ‘filo di perle’ (tutti i porti in cui la Cina ha interessi) è percepito a Dehli come un cappio stretto intorno al collo» (vedi la vicenda del porto pakistano di Gwadar, ndr). In questo scenario, «oltre a fornire investimenti e credito, la neonata AIIB permette alla Cina di fare le cose sotto un ombrello multilaterale, riducendo il nervosismo dei Paesi che si sentono minacciati dalla sua espansione».
Oltre a favorire l’internazionalizzazione del Renmnbi, moltiplicare e proteggere le rotte commerciali internazionali, integrare l’Occidente cinese nel commercio globale e diversificare le fonti energetiche, il vantaggio economico principale della Via della Seta è però quello di trovare una via d’uscita all’eccesso di capacità delle imprese domestiche. Si torna dunque da dove siamo partiti: trovare uno sfogo all’estero attraverso la politica delle infrastrutture.
«Non è solo una questione di cemento e acciaio esportati in Asia centrale. La Cina vuole soprattutto produrre più qualitativamente, così la concorrenza sulla Via della Seta con le imprese coreane, giapponesi, statunitensi (con Caterpillar nei macchinari, per esempio) è utile: la Cina continua ad adottare politiche protezionistiche in casa, ma si lancia nella concorrenza all’estero», spiega l’analista.
Quindi la Via della Seta può diventare parte del suo rinnovamento industriale, tecnologico. In questo senso, l’esportazione di sovraccapacità non significa spedire merci nei Paesi che ancora non hanno un mercato per assorbirle, ma esportare l’intero pacchetto delle produzioni cinesi (cemento, acciaio, macchinari e anche la forza lavoro) attraverso la costruzione di infrastrutture, là dove sono necessarie.
«E non c’è Paese al mondo capace come la Cina di fare infrastrutture», conclude Miller.
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