Expat in Kabul

Diario dall’Afghanistan: un racconto da una terra in ricostruzione, lacerata da trent’anni di guerra

di Laura Cesaretti

Sono qui da due settimane. La morte di una donna uccisa per strada ha sconvolto il paese e risvegliato l’indignazione degli abitanti di Kabul che sono scesi in piazza a difendere il suo onore. Due autobombe posizionate nei luoghi affollati della città, hanno già ucciso più di sette persone, tra cui donne e bambini, e ferito molti altri. Un mio amico afghano, che stava uscendo da una palestra vicino al luogo di uno dei due attentati, ancora trema pensando a quella giornata: «Lo so che succede, ma non mi ci abituerò mai».

Io invece mi sto piano piano abituando agli elicotteri militari americani, che a due a due sorvolano i cieli della città e alla ricca scelta di verdure che questo paese offre.

Alle donne che si muovono lentamente tra le macchine per chiedere l’elemosina, coperte dal burqa per sostenere gli sguardi e difendere la propria umiliazione.

Mi sto abituando anche all’aria corrotta di sabbia, abbellita dagli aquiloni che sorvolano il cielo, e al sapore dei kebab speziati che fanno invidia alle più famose cucine libanesi e turche. Dopo una settimana di spostamenti sempre accompagnata, ho quindi deciso di fare una passeggiata da sola. «E’ meglio di no, almeno per i primi tempi» mi spiega la guardia di sicurezza mentre provo a mettermi le scarpe sull’uscio di casa. E così, ancora una volta, andiamo insieme.

Rientrando, a soli trecento metri da casa vedo un negozio di frutta: «Fin qui posso arrivare sola?», «No».

Dopo altri duecento metri: «E a questo chioschetto che vende il pane?». «Meglio di no», risponde sorridendo. Ci si abitua anche a questo. La casa è circondata da muri alti e filo spinato mentre i bambini bussano alla porta per riavere indietro l’aquilone finito per sbaglio sulla terrazza. Ci si abitua alla noia che affligge i ragazzi e delle ragazze afghane, limitati da una connessione internet troppo lenta e dalla mancanza di spazi dove socializzare.

I pochi posti che nel 2005-6-7 avevano regalato un po’ di svago alla città, sono ora chiusi o affollati dai pochi expats che non sono sottomessi a rigide misure di sicurezza dalla compagnia per cui lavorano. E allora, spesso, le feste si fanno nelle case degli stranieri o delle organizzazioni non governative, segnando all’azienda bottiglie di Vodka da settecento euro sotto la voce ‘sostenibilità’ e ritrovandosi a chiacchierare con figli di warlord, giovani professionisti e donne locali presentate come amiche, fidanzate o, più probabilmente, amanti.

È difficile orientarsi e capire le vere dinamiche che guidano questa vita sociale.

La differenza tra prostituzione e libertà sessuale è quasi impercettibile. Qui, li chiamano “reati d’amore”, e i carceri ne sono pieni. Questo è un Paese dove la mancanza di contatto con l’altro sesso porta giovani uomini a vestirsi da donna per ballare e far divertire pubblici prettamente maschili. Ma è anche il Paese dove il bisogno d’amore spinge i ragazzi a raccontare storie di appuntamenti nascosti, baci rubati e corteggiamenti impossibili ad uno show radiofonico trasmesso il venerdì sera, la domenica del weekend afghano.

Perché, in realtà, la vitalità degli Afghani è travolgente. Gli uomini si abbracciano e ballano con sicura eleganza senza mai perdere la loro mascolinità e le donne, al riparo da giudizi e abusi, chiacchierano divertite e con ironia, rivelando la morbidezza dei loro capelli. Nei loro volti, i valori di lealtà e amicizia che hanno guidato e ancora mantengono uno strano equilibrio tra antichi codici tribali e necessità moderne.

L’Afghanistan, dopo due settimane, mi appare così: combattivo, ma gentile. Se hai una cosa che piace ad un amico, è tuo dovere regalargliela. Non importa il valore economico o affettivo che ti lega ad essa. Il piacere di far apparire un sorriso è ciò che compensa la separazione dall’oggetto, qualunque esso sia. Per questo, da quando sono qui, per aver detto per sbaglio «Che bello», ho già ricevuto un pacchetto di sigarette edizione limitata e una giacca.

In cambio però, non sono ancora riuscita a regalare con naturalezza la mia camicia preferita. Spero che con il tempo imparerò.

 

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