La retorica celebrativa e quella del fallimento ad ogni costo
di Lorenzo Bagnoli
Le urla della protesta, qui a Rho, sono solo un rumore lontano. Al sito espositivo è tutto un compiacersi, un invocare il miracolo dei tempi rispettati nonostante tutto. Il copione di Expo Milano 2015 è rispettato in pieno. Ai cancelli la calca è minima, anche se i tempi per il controllo di certo non sono i dieci secondi prospettati dal Commissario unico Giuseppe Sala. La cerimonia di presentazione è dimenticabile: una paccottiglia melensa di parole d’amore per l’Italia e per il mondo. La barra sui poveri la tiene solo Papa Francesco, con il suo intervento dalla Santa Sede. Ma anche questo è da copione. L’apice della retorica si raggiunge quando l’inno d’Italia, cantato da un coro di voci di Carabinieri e bambini, si chiude con «Siamo pronti alla vita l’Italia chiamò».
E poi lo schioppo roboante delle Frecce Tricolore squarcia lo scolorito cielo milanese.
L’atmosfera è comunque di gioia, seppur un po’ dimessa. Nessuno può dire né che non ci siano famiglie, né che ci siano musi lunghi e facce deluse. Il costosissimo luna park di Rho piace. Ma tanto chi se ne importa. Tutto quello che è successo dentro la fiera (nonostante tutto è stata una bella festa) sarà cancellato dalle auto bruciate, dalle indignazioni del giorno dopo, dalle accuse di colpevolezza e di infiltrazione. Il clima di guerra è stato preparato a dovere con notizie ad orologeria sui No Expo (come se fossero un corpo solo…) e chi ne fa parte. L’intelligence italiana ha continuato a riempire di veline i propri giornalisti che prontamente hanno battuto la lingua sul tamburo.
È un peccato constatare che nemmeno questa volta sia sia riuscito ad evitare quanto previsto. Di nuovo, il copione.
Fuori da Rho, la mattina dalle 9, i No Expo quelli veri, quelli che hanno qualcosa da dire per davvero, gridavano il diritto di esserci, di protestare, di declinare l’esposizione come “fame, cemento, precarietà” invece che come energia per la vita.
«Avremmo solo voluto fare una performance per dire ciò che pensiamo», gridano mentre riprendono la strada verso la metropolitana. La solita protesta, insomma. «Un po’ un peccato», diceva Abo, uno dei leader del movimento al megafono. Vero, ma è un po’ un peccato anche che il movimento No Expo abbia sprecato il suo vantaggio rispetto alla manifestazione. Per un “gufo” dei movimenti, anche questo da copione.
Eppure è dal 2008, non da ieri, che il movimento ragiona sulla manifestazione.
Nel 2013, a firma Roberto Maggioni e OffTopic, usciva Expopolis, ancora oggi uno dei libri fondamentali per capire le porcate di Expo, il gioco dell’oca per moltiplicare il valore di terreni altrimenti inutili della famiglia Cabassi, la guerra politica interna al centrodestra che tanto ha inciso sui ritardi nei primi anni dell’assegnazione, le colate di cemento lungo tutta la Lombardia, il precariato. Tutti temi che ancora oggi fanno esplodere la manifestazione in una miriade di contraddizioni.
A parte sul tema del lavoro, per il quale il movimento ha scatenato la campagna “Io non lavoro gratis per Expo”, per il resto pare legittimo dire che l’arrivo al primo maggio è stato un po’ deludente. Il refrain è sempre lo stesso, anche se le falle della fiera, soprattutto sul piano della pochezza dei contenuti, sono diventate sempre più evidente. Al vuoto della fiera si risponde con il vuoto della controproposta. Solo che il vuoto della prima almeno è gioioso, almeno non fa male: così pensa, alla fine, l’uomo comune.
Una parte corrotta (o infiltrata) del movimento ha bruciato insieme alle auto anche la possibilità di incidere sull’immaginario collettivo.
L’altra parte, quella sana, ha sprecato l’opportunità di fare un salto, di dimostrare quanto sia inadatto il contenitore di Expo ai temi dell’alimentazione e della povertà, che sono il pane su cui si fondano le idee altermondiste. Si vaneggiava un ritorno al pre Genova, ad altre sinergie dirette alla costruzione di una vera proposta alternativa. E dentro il mega universo No Expo questo c’è, è fuori di dubbio. Solo che ancora fatica ad esprimersi, ad uscire, a bucare lo schermo, a comunicare. E così vince solo la guerriglia.
Expo, con fatica e contraddizione, si è espresso. Ora tocca ai No Expo farlo.
Tocca ripulirsi dalla brutta figura del primo maggio e ricominciare a costruire l’alternativa. Perché è passata questa immagine: sono i No Expo che hanno messo a ferro e fuoco Milano. Poco importa se sia vero o falso. Forse al movimento tocca anche visitare i padiglioni del proprio nemico. E vedere da vicino la fatica degli impiegati Amsa a tenere in ordine un sito che al di là dei primi padiglioni affacciati al decumano, è un cumulo di detriti e sporcizia, ancora adesso.
Tocca parlare con quelli che a Expo ci lavorano gratis e con quelli che ad Expo dovrebbero essere stipendiati, ma non si sa con che contratto. Tocca domandarsi quale futuro avrà il sito espositivo e proporlo con maggiore forza alla città. Al di là degli slogan. Milano ha bisogno del movimento No Expo, ha bisogno di un’alternativa. Ma ha bisogno che chi si candida a farlo, svesta la retorica del fallimento ad ogni costo, infastidente tanto quella celebrativa mostrata da Expo.
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