di Lorenzo Guadagnucci,
tratto da Altreconomia
Alla scuola Diaz fu praticata la tortura. Ci sono voluti 14 anni e il giudizio della Corte europea per i diritti umani perché si utilizzasse il vocabolo più temuto. La sentenza del 7 aprile scorso è stata una specie di choc e si è guadagnata per qualche giorno i titoli dei giornali, complice anche l’infelice, ma rivelatrice, “rivendicazione” via Facebook di uno degli agenti che parteciparono al blitz.
Ma non è stata una sorpresa: chi conosceva gli atti e soprattutto la pluriennale giurisprudenza della Corte di Strasburgo si aspettava un giudizio del genere, destinato peraltro a una replica in decine di ricorsi analoghi e amplificato quando si passerà ad esaminare il caso Bolzaneto (lì le torture si protrassero per giorni). Gli stessi pubblici ministeri del processo Diaz, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, nel 2012 avevano chiesto alla Cassazione di non applicare la prescrizione ai condannati, richiamandosi proprio alla giurisprudenza europea in materia di tortura. Il ricorso fu rigettato dalla Cassazione e ignorato da tutti. Era invece un’anticipazione e un’indicazione di rotta.
La sentenza non è una sorpresa perché le lacune nella risposta italiana agli abusi erano state identificate da tempo. Possiamo riassumerle: mancata identificazione e quindi impunità degli agenti picchiatori; sostanziale impunità anche dei capisquadra e dei dirigenti condannati in via definitiva, a causa della prescrizione e dell’indulto e delle pene lievi previste dal codice penale.
La Corte ha qualificato come tortura gli abusi commessi alla Diaz rifacendosi a una giurisprudenza ormai consolidata: si trattò di una violenza gratuita, che causò acute sofferenze psichiche e fisiche e fu attuata allo scopo di umiliare e punire un gruppo di cittadini che avevano preso parte alle manifestazioni organizzate durante il G8 del 2001. In Italia non si era mai parlato di tortura, ma di “sanguinoso blitz”, “pestaggio”, “brutali violenze”, in un clima di minimizzazione che ha permesso di tenere i vertici di polizia e gli imputati lontano dai riflettori, per rendere più agevole la loro protezione professionale e politica.
La risposta dell’Italia agli abusi compiuti alla scuola Diaz, dice la Corte, è stata inadeguata per “ragioni strutturali”, e la Camera, nel pieno della bagarre mediatica, ha approvato in tutta fretta il testo di legge sulla tortura che stava discutendo, accogliendo così una precisa sollecitazione venuta da Strasburgo. Si tratta in realtà di un testo pessimo, che si discosta -al ribasso- dagli standard internazionali. C’è addirittura il dubbio che tale normativa, se fosse esistita nel 2001, non si sarebbe applicata al caso Diaz.
Le forze politiche, ancora una volta, si sono rivelate impreparate e succubi dei desiderata provenienti dalle forze dell’ordine, storicamente ostili all’esistenza di una legge ad hoc sulla tortura. Il testo licenziato da Montecitorio è un passo che va nella direzione sbagliata e non lascia presagire niente di buono sulla capacità del Parlamento di corrispondere agli obblighi che discendono dalla sentenza di Strasburgo. A una “carenza strutturale” si dovrebbe rispondere in modo strutturale, cioè con una riforma complessiva del comparto. All’ordine del giorno, oltre a misure specifiche come i codici identificativi sulle divise e nuovi criteri di reclutamento e formazione, andrebbe messa un’autentica riforma democratica delle forze dell’ordine. Al momento sembra una chimera, ma sta crescendo la consapevolezza che siamo di fronte a un’emergenza.
La sortita su Facebook dell’agente Fabio Tortosa è stata per molti una scossa: ha rivelato una “cultura” che spaventa, ma che si era già manifestata in passato nell’indifferenza generale. L’agente, dopo tutto, ha espresso con le sue parole ciò che molti in polizia pensano del caso Diaz e di Genova G8.
Nessuno, men che meno i massimi responsabili della Polizia di Stato, ha mai davvero rinnegato quell’operazione, legittimata invece attraverso la protezione garantita ai responsabili. L’agente Tortosa è stato sospeso e c’è qualcosa di ironico in questa tempestiva decisione presa dall’attuale capo della polizia, se si pensa che l’Italia è stata giudicata inadempiente dalla Corte di Strasburgo per non avere sospeso i funzionari e i dirigenti implicati nella vicenda Diaz all’epoca del rinvio a giudizio, cioè nel 2004. Non furono sospesi né allora né mai.
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