La Scultura Sociale di Beuys
ci insegna che «La rivoluzione siamo noi».
di Giusi Affronti
New York, Maggio 1974 – Joseph Beuys, profilo scarno dagli occhi emaciati, originario delle campagne del Basso Reno, possiede il carisma dell’uomo di medicina e l’austerità del pastore luterano. Trascorre tre giorni all’interno di una “gabbia” presso la René Block Gallery, in un’amalgama di rito e performance dal titolo I like America and America likes me.
Dell’America di quel tempo, però, Beuys condanna la guerra in Vietnam: appena all’aereoporto Kennedy di New York si fa avvolgere in una coperta di feltro e, a bordo di un’ambulanza, raggiunge la galleria. Un isolamento vero e proprio per non toccarne il suolo, un sacrificio d’iniziazione per mezzo dell’arte, un’esperienza di cattività coatta in compagnia di Little John. L’artista, che anni prima nel corso di un’azione alla Galleria Schmela di Düsseldorf, miele e foglie d’oro sulla testa, «spiega i quadri a una lepre morta» (1965), qui sceglie un coyote vivo, il lupo che ulula nelle praterie adorato dagli indiani come un dio.
Indossa guanti marroni, ha con sé una torcia elettrica e resta accovacciato sul pavimento, avvolto nel feltro con un bastone da passeggio in mano. Suona qualche nota con un triangolo appeso al collo, parla con il coyote. Una litania sommessa di un moderno San Francesco, capace di ammansire anche i lupi. Little John è guardingo, addenta e lacera la stoffa, annusa l’uomo.
L’animale si muove fra il giaciglio di paglia, nell’angolo, e le pile dei Wall Street Journal, unici oggetti di scena.
Allo scadere delle settantadue ore, Beuys saluta Little Jonh stringendolo teneramente e spargendo la paglia nello spazio del loro habitat: la riconciliazione dell’uomo con la natura si compie attraverso lo sciamanesimo dell’arte a discapito di ogni pensiero positivista. È una favola contemporanea, è la narrazione intima di un’amicizia atavica, è l’azione mistica di un artista geniale che da bambino andava in giro con un gregge immaginario e un bastone reale.
Beuys, in una parola. Anche la moglie Eva lo chiama sempre e solo Beuys, mai Joseph.
Ironico e caustico, possiede una cultura sterminata: botanica, zoologia, filosofia, letteratura. Trasforma le argomentazioni delle sue azioni artistiche in ideogrammi che annota su grandi lavagne. Sa affermare pensieri serissimi con una scrosciante risata così come ha l’abitudine di bere acqua del rubinetto in bicchieri di cristallo molato. Una salute cagionevole, gambe pesanti e un maledetto vizio che gli fa fumare oltre sessanta sigarette al giorno.
Gilet da pescatore, fazzoletto di seta nel taschino, camicia bianca, jeans e scarponi. D’inverno una lunga pelliccia di lince, un completo di flanella con una cravatta nera fermata da una piccola mascella di lepre. Così si presenta Beuys: una bellezza spigolosa e un cappello di feltro, della migliore fattura. Quel feltro, che utilizza spesso nella scultura e dentro cui si avvolge nelle sue performance, durante la Seconda Guerra Mondiale gli salva la vita.
Letteralmente. Viene reclutato prima come radiotelegrafista, poi come bombardiere di picchiata. Un giorno d’inverno, nei cieli della Crimea, il suo JU 87 precipita nel corso della manovra di richiamata seguita all’attacco di una contraerea russa. Beuys è scaraventato fuori dall’abitacolo, resta incastrato sotto la coda dell’apparecchio, sprofondato nella neve e privo di conoscenza. La diagnosi sarà: doppia frattura della base cranica; costole, braccia e gambe spezzate; setto nasale schiacciato; numerose schegge di granata sparse nel corpo.
È un miracolo che Beuys sopravviva.
Lo deve a un gruppo di tartari nomadi che lo cura secondo una sapienza antica: cospargono il corpo congelato di grasso animale, lo avvolgono nel feltro e lo nutrono con latte e formaggio molle. Un rito di passaggio dal freddo della morte al calore della vita.
Tornato a casa, Beuys abbandona la decisione di studiare medicina e nel 1947 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, dove lavorerà in futuro come insegnante. L’arte diviene inconfondibilmente parte della sua vita, è strumento di guarigione e salvezza; nell’arte consuma faticosamente sé stesso e tutta l’energia fisica e psichica di cui è capace. Restare fermo per ore nella stessa posizione, staccare grasso da una parete, parlare per cento giorni a Documenta V nel 1972, piantare 7000 querce.
Beuys utilizza motori, ricevitori, filtri, trasmettitori, condensatori, dinamo, registratori e videoregistratori, telefono, bottiglie di Leida, radiografie. Lavora con sangue, fango, garze, ossa, capelli e unghie. A uno sguardo superficiale il mondo delle sue installazioni è crepuscolare e stantio, odora di polvere e rancido. Chi, invece, sa “sentire” le sue “nature morte” percepirà la potenza e il fascino che, con poca spesa, sprigionano. Uno choc salutare, insomma: distribuire forti scosse di energia poiché quello di cui abbiamo bisogno è nient’altro che calore.
La “Soziale Plastik” (Scultura Sociale) di Beuys ci insegna che «La rivoluzione siamo noi».
L’arte è un’esperienza estetica legata a doppio filo alla scienza, alla politica, alla religione, alla prosaicità del vissuto quotidiano da cui nessuno è escluso; è un impegno, attraverso la libertà e la fantasia, a “modellare” la propria esistenza e a modificare creativamente il mondo in cui si vive. Come fa Beuys, per esempio, allegro sempre in maniera sconcertante, nei suoi viaggi in automobile, quando strilla canti popolari al volante di una Cadillac.
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