L’altro volto della Vittoria

di Maria Izzo

Chi ricorderà il massacro del Cherek nel Giorno della Vittoria, il 9 maggio, quando tutta la Russia festeggerà solennemente il trionfo dell’Unione Sovietica sull’invasore nazista?

La valle del Cherek era una gola impervia. Nascosta all’ombra delle alture selvagge del Caucaso occidentale, era protetta da dirupi rocciosi di oltre mille metri, fra i quali strisciava uno stretto sentiero, l’unico accesso alla valle.
Lungo i pendii si arrampicavano case di pietra scavate nella roccia. Erano le dimore dei Balkari, un popolo musulmano di lingua turca la cui origine era così lontana nel tempo da non poter essere ricostruita con certezza.
In quella gola, troppo stretta perché la modernità riuscisse a insinuarsi, i Balkari avevano vissuto per lunghi secoli in un universo pastorale immobile nel tempo.
Sebbene conquistati militarmente verso la metà dell’Ottocento dall’Impero Zarista, i Balkari continuarono a opporsi alle autorità imperiali e alla russificazione, restando ostinatamente ancorati ai propri costumi e alla propria struttura sociale poco incline ad accettare le gerarchie, men che meno quelle esterne.

Nel 1917 la Rivoluzione spazzava via l’Impero Zarista, ma con l’avvento dei Bolscevichi si apriva per i Balkari un nuovo capitolo di oppressione. Non solo i Sovietici tentarono di sradicare l’Islam tradizionale, ma imposero con forza il modello di agricoltura collettivizzata con la liquidazione violenta dei contadini e degli allevatori più abbienti in una comunità per cultura estranea al concetto di lotta di classe.

Spinti dagli eventi, molti presero le armi e si nascosero fra le impenetrabili montagne del Caucaso dove compievano azioni di guerriglia e vivevano di furto e di rapina, secondo l’antico costume degli abrek, i banditi caucasici.
Era il preludio della tragedia che si sarebbe abbattuta sul Cherek poco più tardi, quando l’imperversare della Seconda Guerra Mondiale avrebbe creato lo scenario adatto.
Era il luglio del 1942. L’Unione Sovietica, guidata da Stalin, combatteva contro la Germania di Hitler che avanzava verso il Caucaso, puntando alle riserve di petrolio di Majkop, Grozny e Baku. In un disperato tentativo di difesa i soldati sovietici affrontarono i tedeschi a Rostov, ma la disfatta fu totale.
Circa 700 uomini, fra i sopravvissuti alla cruenta battaglia, si ritirarono fra i monti, allargando le fila dei combattenti. La maggior parte dei disertori erano Balkari e circa un centinaio si nascosero nella valle del Cherek.
Il maggior generale Zakharov, temendo che i disertori potessero attaccare l’esercito durante la ritirata, ordinò alla polizia segreta sovietica, il temibile NKVD, di prenderne in ostaggio i parenti.
Le forze della polizia segreta non erano di certo pigre e iniziarono a giustiziare civili sommariamente accusati di essere disertori.
A quel punto i disertori, quelli veri, erano pronti ad attaccare. Aprirono il fuoco dando il via a quattro giorni di scontri, durante i quali cinque soldati rimasero uccisi, molti invece furono feriti.
Il Comando Militare Sovietico era furioso. Il Generale Kozlov ordinò di cancellare i villaggi balkari dalla faccia della terra e poco dopo, il 24 novembre del 1942, un distaccamento di circa 150 soldati guidati dal Capitano Nakin calava nella gola del Cherek.
Nakin inviò due soldati al primo dei nove piccoli villaggi della valle per iniziare le operazioni. Lì i soldati furono accolti caldamente come ospiti, come da tradizione montanara. In cambio, avvisarono la popolazione dell’incombente minaccia. Poco dopo, Nakin, scoprendo che i due soldati non avevano ucciso nessuno, andò su tutte le furie e ordinò di giustiziarli.
Intanto, la voce dell’arrivo dei sovietici si spargeva in fretta per la valle e gli uomini armati lasciarono i villaggi per ritornare fra i monti, convinti che donne, bambini e anziani non corressero alcun pericolo.

Gli uomini che non erano fuggiti in montagna si trovavano al fronte, dove combattevano come soldati sovietici. Gli uomini di Nakin, quindi, trovarono la popolazione completamente disarmata, ma questo non li mosse a compassione.

Senza dare spiegazioni, né muovere accuse concrete, facevano irruzione nelle case, aprivano il fuoco, lanciavano granate nelle abitazioni dove avevano rinchiuso civili in gruppi di 20-30.
Quando la furia di Nakin si spense, della valle del Cherek non restavano che ceneri e cadaveri, più di mille, troppi perché i pochi superstiti potessero seppellirli degnamente.
Poco dopo, nella valle arrivavano i soldati romeni, alleati dei Nazisti. I Sovietici non impiegarono molto a realizzare che i Romeni rappresentavano il capro espiatorio perfetto per i terribili crimini commessi nella valle del Cherek.
Nel dicembre 1942, ancora prima che la valle venisse riconquistata dai Sovietici, veniva diffusa la versione secondo la quale i disertori balkari altro non erano che agenti al soldo dei Nazisti. Quando le autorità sovietiche tornarono nella valle, venne aperta un’indagine, ma nei report dell’inchiesta le violenze perpetrate sulla popolazione civile e la distruzione dei villaggi venivano attribuite agli invasori Nazisti, entrati nella valle del Cherek il 6 dicembre con l’aiuto di tre traditori della patria.
La verità sulla tragedia dei Balkari veniva sopraffatta dalle falsificazioni sovietiche; pochi mesi dopo il nome dei Balkari sarebbe stato cancellato dalla storia ufficiale. Nel marzo 1944 infatti l’intero popolo balkaro fu deportato per ordine di Stalin. Seguendo lo stesso destino di Ceceni, Ingusci, Tatari di Crimea, Calmucchi, Tedeschi del Volga, Karachay, Turchi Meshketi, Armeni, Greci, Bulgari, Polacchi, Lettoni, Estoni e Lituani, i Balkari furono trasferiti su carri bestiame in Asia Centrale, mentre nel Caucaso veniva cancellata ogni traccia del loro passaggio.

Chi ricorderà il massacro del Cherek nel Giorno della Vittoria, il 9 maggio, quando tutta la Russia festeggerà solennemente il trionfo dell’Unione Sovietica sull’invasore nazista? Chi celebrerà la memoria di quelle vittime fra le tante che la Grande Guerra Patriottica ha lasciato sui territori sovietici?

Che posto avranno i Balkari sopravvissuti nella parata solenne? Accanto ai veterani che hanno combattuto nelle fila dell’Armata Rossa o ai cittadini che hanno vissuto il terribile assedio di Leningrado?
Semplicemente, non ci saranno. Il culto della Vittoria, l’elemento più scintillante di una nuova religione della Guerra, rispolverata e rivisitata in versione terzo millennio dal governo russo, non ha posto per questi martiri. Eppure loro saranno presenti nel corteo, come in una danza macabra, a ricordare ai vivi che nessuna guerra è eroica, monito che alle orecchie russe oggi tarda ad arrivare.

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