di Jacopo Perazzoli
Quando una figura pubblica come un Sindaco di una metropoli, benché sia ancora in carica, decide di pubblicare un libro con cui traccia il resoconto della sua esperienza amministrativa, i mass media, dai grandi quotidiani nazionali ai piccoli siti d’informazione locale, tendono a spulciare il volume più alla ricerca del sensazionalismo che del reale contenuto. E non potrebbe che essere così. Questo è esattamente quanto successo in occasione del lancio di Milano città aperta. Una nuova idea di politica, il libro con cui Giuliano Pisapia ha cercato di illustrare non soltanto la sua attività alla guida del capoluogo lombardo, ma anche la sua visione della sinistra nei giorni più segnati dal renzismo e dalla sempre maggiore frammentazione di quell’universo che gravita attorno alla parte mancina del Pd.
Ha fatto grande scalpore la ricostruzione di Pisapia della campagna elettorale che lo portò a Palazzo Marino, sconfiggendo la debole sfidante Letizia Moratti (55,1% a 44,9% fu il responso del ballottaggio). Il primo cittadino, non senza una punta di orgoglio, ha voluto evidenziare la miopia dell’allora classe dirigente del Pd locale, che lo giudicava «troppo connotato a sinistra» (p.53). Ancora più sferzanti sono i commenti rivolti a Stefano Boeri (candidato democratico sconfitto alle primarie) il quale, dopo un’ottima performance personale a livello di preferenze, giunse quasi a teorizzare la creazione del ruolo di «prosindaco» (p.80).
Al di là di questi aspetti, nel rievocare la campagna elettore del 2011, a mio giudizio alcune assenze risultano particolarmente evidenti. Se Pisapia ha dato il giusto riconoscimento al ruolo svolto dal comitato elettorale originario, composto da «un maestro elementare, un socialista ex dirigente di Fininvest, una professoressa universitaria, un giuslavorista, una giornalista disoccupata, un funzionario di regione, un dipendente comunale in fase di scivolo, alcuni studenti, una giovane creativa e un esperto di web» (p.46), non ci sembra che lo stesso si possa dire di quell’insieme variegato di cittadini che si riunirono nei famosi comitati e che furono il vero asse portante della cosiddetta Rivoluzione arancione milanese. Certo, ci furono le giuste intuizioni dello stesso Pisapia e di alcuni dei suoi più stretti uomini di fiducia, ma siamo sicuri che ci sarebbe stato quel contagio e quell’effervescenza senza la partecipazione attiva e disinteressata di una fetta importante di quei milanesi vicini alla politica ma non per forza politicamente attivi?
Probabilmente, l’aver da tempo confidato alla cerchia dei collaboratori più vicini di non volersi ripresentare per un secondo mandato, ha fatto sì che Milano città aperta sia diventato una sorta di lascito programmatico per quel complesso e variegato mondo che effettivamente è il centrosinistra all’ombra della Madonnina.
È innegabile che questo libro rappresenti, oltre ad un resoconto dell’attività amministrativa dell’attuale giunta, un’ipotetica rotta da seguire per l’universo pisapiano.
Battute e supposizioni a parte, questa sensazione deriva dallo sfoglio di quattro capitoli precisi – Laboratorio Milano, Una città da vivere, Il vecchio cuore di Milano, Milano e gli occhi del mondo –, nei quali gli spunti significativi sono oggettivamente molti. Per esempio, ragionando sul nuovo assetto istituzionale scaturito dalla nascita delle città metropolitane, Pisapia evidenzia come proprio da questi nuovi conglomerati urbani possa partire «la soluzione dei problemi che il governo centrale non vuole, o non può, risolvere» (p.89), anche se, precisa, «non bisogna aspettarsi che possa accadere domani» (p.147). Per quanto riguarda invece gli sviluppi dell’economia cittadina, l’attuale inquilino di Palazzo Marino fa capire come la futura ed ipotetica maggioranza di centrosinistra dovrà rafforzare la sharing-economy: un metodo che simboleggia «un cambiamento radicale di prospettiva soprattutto culturale», un po’ «come se avesse meno importanza il possesso di un bene, perché quello che conta è poterlo usare quando serve» (p.104). Anche sul fronte delle politiche sociali il messaggio è quanto mai chiaro. Dinanzi all’aumento della povertà e all’arrivo sul suolo italiano di un numero crescente di nuovi poveri, la soluzione non potrà mai essere quella di impedire loro l’arrivo, sparando «per fermare i barconi come suggerisce la Lega (Nord)». Al contrario, «la città deve affrontare i problemi con quello che ha», ben sapendo «che non esistono scorciatoie» (p.122).
Ma la riflessione di Pisapia non si ferma ai confini dell’area metropolitana. Anzi, il primo cittadino milanese dimostra di non preoccuparsi più di tanto delle reazioni che possono scaturire dai suoi ragionamenti. Tornando indietro alla stagione di Mario Monti e delle larghe intese, che, ironia della sorte, iniziò poco dopo l’arrivo del Sindaco arancione a Palazzo Marino, il suo giudizio è quanto mai netto e negativo.
Lo è non soltanto per una questione di sostanza nei confronti delle scelte compiute dal governo Monti, quanto per una ragione di forma: «non mi piace il consociativismo», argomenta Pisapia, perché non crede affatto «che destra e sinistra poss[a]no governare il Paese insieme». Acconsentire a questo disegno vorrebbe dire non cogliere una profonda verità, ovvero che «destra e sinistra hanno due visioni del mondo diverse e inconciliabili» (p.71).
Per quanto riguarda l’arrivo di Matteo Renzi, Pisapia afferma di cogliere le ragioni che hanno portato al «successo della parola rottamazione», anche se non la sente sua a causa del «tono troppo violento». L’esempio utilizzato è alquanto indicativo, soprattutto in queste giornate segnate (anche) dal dibattito sull’Italicum: «Sono felice di vedere una ragazza come Maria Elena Boschi mettere mano alle riforme che dovranno ammodernare il Paese», ma questo non può affatto significare che la giovane Ministra non debba tener «conto del contributo di chi prima di lei ha dimostrato capacità ed esperienza». Pertanto, a mio parere, la distanza dalla politica dell’attuale Premier è notevole. Mentre Renzi ha infatti fatto della messa in soffitta dei leader passati il suo slogan, Pisapia ritiene, come dimostra la citazione sopra-riportata, che il «pensiero di chi ha esperienza è una ricchezza, non un ostacolo» (p.76). Se poi volgiamo lo sguardo ai commenti riservati ad un’altra riforma voluta dall’attuale governo, il Jobs act, il giudizio è ancora più negativo. «Non è vero», chiarisce il Sindaco arancione, «che chi vuole investire in Italia si ferma per paura dell’articolo 18»; al massimo ci si dovrebbe concentrare su due altri aspetti al momento sottovalutati come «la burocrazia e la lentezza della giustizia» (p. 156).
Se inseriti nell’impianto del libro, i due esempi sopracitati rendono però poco chiaro il ragionamento che conclude Milano città aperta. Ci riferiamo all’affermazione secondo cui i destini del centrosinistra e del Paese sarebbero legati all’operato di Matteo Renzi. Da un lato, infatti, il primo cittadino non risparmia critiche al linguaggio e all’operato renziano, dall’altro valuta la partita giocata dal Presidente del Consiglio come una sorta di turning point per l’intero centrosinistra italiano, allontanandosi così dal mondo di Sel, partito a lui sempre vicino. A mio parere, questa sorta di ambivalenza deriva da una scelta precisa che Pisapia ha deciso di fare: non essere il personaggio di spicco attorno a cui formare un aggregato politico arancione che avrebbe potuto dialogare a pieno titolo con il Partito democratico.
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