Morsi condannato a morte, Mubarak assolto. Al Cairo lo spirito di Tahrir viene sepolto in tribunale
di Christian Elia
Potrebbe essere il Gran Muftì, massima autorità religiosa legale in Egitto, a salvare la vita di Mohammed Morsi, deposto presidente egiziano e leader dei Fratelli Musulmani, condannato ieri (16 maggio 2015) a morte.
Assieme ad altre cento persone, in una delle sentenze che da tempo la magistratura egiziana sta emettendo, condannando centinaia di persone. Morsi è ritenuto colpevole dell’evasione di massa di militanti dei Fratelli Musulmani nel 2011, durante l’insurrezione contro Mubarak. Scampa, invece, l’accusa di essere una spia di Hamas.
In questa vicenda, senza dargli una lettura politica, ma limitandosi ai fatti, ci sono due fattori di totale assurdità: Morsi viene condannato per un’evasione di massa che, per natura, in un momento rivoluzionario, è fenomeno tra i più comuni. Allo stesso tempo, la vita di un leader di partito, vincitore di libere elezioni, accusato di voler islamizzare a forza la società egiziana, è affidata alla clemenza di un Muftì.
Il cerchio si chiude. Il regime militare, nel 2011, ha ceduto alla piazza. Mubarak è stato messo in formalina, i militari hanno finto (a questo punto è evidente) di farsi da parte per lasciare il passo ai civili. Le elezioni le hanno vinte i Fratelli Musulmani, ma a quel punto, sfruttando gli errori di Morsi e dei suoi, hanno ripreso il potere, prima muovendo la piazza, poi reprimendo con una strage la reazione dei sostenitori di Morsi.
Ed ecco la figura di al-Sisi, il nuovo generalissimo, nella tradizione del potere che tiene in pungo l’Egitto fin dalla fine della monarchia e dell’influenza britannica. Un potere, giova sempre ricordarlo, è anche e soprattutto economico.
Un sistema di potere che poteva rinunciare a Mubarak (uscito illeso e, alla fine, quasi anche assolto), ma non all’occupazione sistematica dei gangli del potere economico. Un controllo minuzioso dello Stato e delle vite dei cittadini, con una ricchezza sempre più grande per circoli legati alle forze armate e ai suoi sodali.
I Fratelli Musulmani avrebbero rovesciato questo sistema. Per imporre uno di loro fiducia, molto probabilmente. Ma non è accaduto, perché il golpe ha spazzato via prima il processo democratico. Farla passare per una battaglia di laicità è l’elemento chiave per ottenere l’appoggio degli utili idioti in Occidente, convinti di liberare le donne dal velo, in Afghanistan con le bombe sui civili o altrove.
Non è questo. E’ sempre stata una lotta di potere. La repressione dei laicisti golpisti colpisce indiscriminatamente giornalisti e omosessuali, attivisti di sinistra e tifosi di calcio. E’ in atto, in ogni angolo dell’Egitto, una brutale vendetta contro tutte le anime della rivolta del 2011. Nessuno escluso.
Europa e Stati Uniti belano qualche timida protesta, ma non muovono un dito. Anzi, trattano con al-Sisi come nulla fosse, senza neanche una richiesta di chiarimenti. E sono pronti, assieme ai media, a sostenere la tesi che il campione della laicità è pronto a occuparsi di Libia, mentre il Sinai brucia. La controrivoluzione ha molti volti. Quello di al-Sisi, certo, quello del clan Mubarak che ce l’ha quasi fatta a riabilitarsi, quella dell’inerte Occidente. Che alla fine, tra sostenere un processo post-rivoluzionario (con tutte le drammatiche difficoltà del caso) e riprendersi uno sceriffo che garantisce affari con le mani sporche di sangue, ha scelto la seconda.