Le elezioni municipali e autonomiche celebratesi domenica in Spagna si prestano come non mai a numerose letture.
di Andrea Geniola
@andreageniola
Le elezioni municipali e autonomiche celebratesi domenica in Spagna si prestano come non mai a numerose letture. A livello stato-nazionale strettamente spagnolo si tratta di un importantissimo test in vista delle politiche di novembre, per valutare lo stato di salute dei partiti tradizionali (la capacità di tenuta del PP e le opzioni reali di essere alternativa di governo da parte del PSOE) e l’appoggio reale che hanno le nuove formazioni politiche nate nel contesto di crisi politica e istituzionale di questi anni, Ciudadanos (Cs) a destra e Podemos a sinistra. Per coloro che poi amano estrarre lezioni da casi singoli ed estrapolarne interpretazioni e letture globali, queste sarebbero anche le elezioni in cui si misura la forza del miraggio del cosiddetto fronte dei popoli del sud Europa contro i poteri forti. In questo senso in molti vedono in Podemos la Syriza spagnola, ciononostante sarà estremamente difficile, pericolosamente avventuroso e politicamente fantasioso, valutare il peso di Podemos in una tornata elettorale in cui questa non si presenta da sola bensì in coalizione con altre forze di sinistra in liste civiche alternative nelle grandi città ma con scarsa ramificazione territoriale. In ogni caso, quello dell’estrapolazione di modelli e lezioni riproducibili è qualcosa che appartiene al campo della speculazione e propaganda politica piuttosto che a quello dell’analisi. Inoltre, estrapolare indicazioni generali da elezioni amministrative e “regionali” può essere fuorviante anche se in questa campagna la presenza dei leader “nazionali” dei grandi partiti spagnoli è stata una costante e se ci sono dei precedenti storici d’inevitabile forza evocativa in cui delle “semplici” elezioni municipali hanno aperto la strada a cambi importanti, come le elezioni municipali del 1931 che aprirono la porta all’avvento della Seconda Repubblica spagnola.
Il voto in chiave spagnola
La sensazione generale è che dopo queste elezioni nulla sarà più come prima in Spagna ma se si tratta di un cambiamento reale, di una rottura o di una semplice rigenerazione politica questo ce lo dirà l’uso che i partiti (vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, nazionalisti spagnoli o nazionalisti periferici) faranno di questo voto. Già dalla campagna elettorale e dai temi emersi si respirava aria di cambiamento. Quote di preoccupazione, sebbene di circostanza, per la partecipazione democratica erano presenti nei programmi di tutti i partiti, PP e PSOE inclusi (La participación se construye desde los ayuntamentos, “La Marea”, n. 27, maggio 2015, pp. 10-23). Per il momento non possiamo che essere spettatori di un risultato senza precedenti dalla nascita della Spagna democratica post-franchista. Non si tratta solo del fatto previsibile di una virata elettorale verso sinistra ma della (almeno apparente) qualità e senso politico di questo voto. Il primo dato globale è una sconfitta del Partido Popular (PP) di cui per la prima volta non si beneficia il partito socialista (PSOE). Com’era accaduto un anno fa in occasione delle elezioni europee entrambi i partiti tradizionali perdono voti. Il PP è sceso dal 37,5% al 27% e il PSOE dal 27,8% al 25%; i primi hanno perduto circa due milioni e mezzo di voti mentre i secondi quasi un milione e mezzo. Terza forza politica spagnola sarebbe Ciudadanos (Cs), il partito anti-indipendentista e unionista catalano che, con un discorso legalista, rigenerazionista e di stampo liberale, probabilmente raccoglie molti dei voti persi dal PP e forse anche qualche socialista centrista, ottenendo il 6,6%, pari a un milione e mezzo di voti. Comincia così a prendere forma l’auspicio del Presidente del Banc Sabadell, Josep Oliu, con tutta probabilità accompagnato da diverse forme di appoggio materiale, dell’avvento di un “Podemos di destra” con la speranza che la “nuova politica” non rimanesse orfana di un buon partito d’ordine capace di difendere gli interessi di classe dei ceti finanziari e alto-imprenditoriali. Perde questo terzo posto Izquierda Unida (IU), la coalizione di sinistra alternativa composta dai comunisti spagnoli (PCE), verdi e altri, che scende dal 6,3% al 4.7%. Dietro il quasi mezzo milione di voti persi si nasconde il fatto che IU non si è presentata ovunque con le proprie sigle, confluendo in alcuni casi con Podemos, Equo e in liste civiche di sinistra alternativa. Per quanto riguarda invece Podemos, la grande star mediatica del momento politico spagnolo, se ne può valutare la forza propria solo in quelle regioni in cui si votava anche per le autonomiche. Il partito del “general intellect” universitario e delle speranze di cambiamento politico entra con forza in tutte le assemblee autonomiche, affermandosi ovunque come terza forza politica, mentre in Cantabria e Navarra sono quarti (qui dopo i regionalisti navarri e le due forze abertzale) e nel Paese Valenciano addirittura quinti (superati da Cs e dai valenzianisti di Compromís). Da questo punto di vista, su scala regionale, quello di Podemos sembrerebbe essere un risultato povero, poco in linea con i proclami anticipati di vittoria che ripetono ossessivamente i suoi dirigenti.
Non potendo contabilizzare l’appoggio reale ottenuto da Podemos e nemmeno il vero peso di IU per avere un’idea dal cambiamento (possibile) in corso bisogna andare ai risultati reali di alcune città in concreto. A Madrid è avvenuto un vero e proprio terremoto, almeno per ciò che questa città rappresenta politicamente e per la composizione politica che ha espresso negli ultimi lustri: PP dal 49,7% e 31 consiglieri al 34,5% e 21 consiglieri, PSOE dal 23,9% e 15 consiglieri al 15,3% e 9 consiglieri. Il PP vince ma perde la maggioranza assoluta e con tutta probabilità andrà all’opposizione. A contendergli la vittoria è stata Ahora Madrid – https://ahoramadrid.org/ (coalizione di Podemos, una parte di IU, Equo e la piattaforma civica movimentista Ganemos Madrid) che ha ottenuto il 31,8% e 20 dei 57 consiglieri comunali della capitale spagnola.
Se teniamo conto che nelle precedenti elezioni IU aveva ottenuto il 10,7% e 6 consiglieri e che la sua lista ufficiale ha ottenuto adesso solo l’1,7%, possiamo pensare che la forza di Podemos a Madrid sia rilevante e che l’effetto unità abbia fatto confluire verso questa lista anche molti voti delusi di tradizione socialista. Contenuto invece il risultato di Cs, il cui 11,4% e relativi 7 consiglieri si alimenta del crollo elettorale di un’altra formazione simile ma molto meno dinamica, quella UPyD che aveva ottenuto nel 2011 il 7,8% dei voti e 5 consiglieri. A meno di rocambolesche soluzioni l’unica via possibile per il governo municipale sarebbe una coalizione tra Ahora Madrid e PSOE, che arriverebbe appena a garantirsi la metà più uno dei consiglieri, 29 su 57. Una via davvero difficile e che potrebbe darsi solo se entrambe le forze rinunciassero a parti importanti della propria cultura politica e proposta programmatica. Sarà in questo che si dovrà misurare il peso reale e l’applicazione concreta delle misure di cambiamento e politiche sociali contenute nel programma di Ahora Madrid. Il PP perde la maggioranza assoluta ma rimane, stavolta saldamente, prima forza nel parlamento della regione di Madrid (dal 51,7% al 33%), il PSOE resta secondo (dal 26,3% al 25,5%), irrompono Podemos (18,6%) e Cs (12,1%). Analizzando il numero di voti e facendo ipotesi circa i possibili flussi elettorali si potrebbe pensare che in questo caso come in altri non si sia trattato di semplice travaso di voti. Infatti, se è plausibile che Cs abbia raccolto molti voti del PP pare evidente che i voti di Ahora Madrid e di Podemos provengono solo in parte dalla crisi dei socialisti o dalla semplice confluenza tra bacini elettorali consolidati ma che un nuovo elettorato stia sostituendo quello precedente. Ciò non toglie che nella concretezza della politica queste istanze possono prendere altre strade, come ad esempio trasformarsi in stampella o sostituto dei partiti tradizionali e contribuire alla sola riforma o rigenerazione del sistema politico attuale piuttosto che essere fattore di rottura ed embrione di un nuovo “potere costituente”.
Un voto in chiave catalana
Queste elezioni sono un test importante anche in vista delle future elezioni regionali catalane e di come si articolerà nei prossimi mesi la politica catalana, oltre e nonostante quello che potrà accadere a Madrid. Come sottolinea oggi il quotidiano catalano “Ara” in Catalogna c’è più di un processo in corso, con chiaro riferimento al sovrapporsi dialettico tra processo per l’autodeterminazione e alternativa politica al regime attuale. L’analisi del primo passa attraverso la valutazione del risultato complessivo su scala catalana dei partiti indipendentisti o favorevoli al dret a decidir mentre per quanto concerne il secondo il focus si concentra sulle conseguenze politico-sociali e magari propulsive della vittoria delle sinistre a livello municipale. I dati aggregati e proiettati sull’insieme della Catalogna consegnano infatti un panorama di chiara crescita rispetto al 2011 in entrambi i campi. I partiti a favore del dret a decidir passano dal 39,4% al 45,1% contro il 32% di quelli unionisti, prima al 39%.
L’insieme delle sinistre cresce dal 44,7% al 52,4% mentre il centro-destra scende dal 41% al 36,4%. Ma la cosa forse più interessante, e che non fa che confermare precedenti sondaggi d’opinione come quelli del CEO, è che la maggioranza assoluta e larga delle forze di sinistra sono a favore del dret a decidir e che tra le forze favorevoli all’esercizio di questo diritto vi una maggioranza assoluta e larga delle forze di sinistra. In questa prospettiva generale, il voto di Barcellona si presta a letture differenti e va comunque relativizzato all’interno del contesto in cui si produce. Letto in chiave spagnola il risultato di Barcellona è interpretabile come l’avanguardia del cambiamento (parlare di rivoluzione sarebbe esagerato), la capitale spagnola di questo cambiamento, il luogo immaginario dal quale le sinistre conquisteranno il potere politico istituzionale in tutta la Spagna. Letto in chiave catalana è l’opportunità per far confluire dialetticamente anche a livello istituzionale processo di autodeterminazione e trasformazione sociale. In chiave strettamente indipendentista, poi, un buon risultato o addirittura una vittoria a Barcellona delle forze sostenute dall’Assemblea Nacional Catalana (ANC) avrebbe consacrato il sogno di una Barcellona non solo capitale della Catalogna ma anche centro propulsivo del processo di autodeterminazione. Infatti, è giusto ricordarlo, la città non è mai stata particolarmente indipendentista e da questo dato bisogna partire per un’analisi del “dove siamo” e ddel “dove stiamo andando”. Rispetto al 2011 i consiglieri indipendentisti (o che perlomeno si dichiarano tali) passano da 16 a 18 e in percentuale da 36,3% a 41,1%. Se a questi aggiungiamo favorevoli al dret a decidir e possibilisti rispetto alla possibilità di una soluzione intermedia tra lo statu quo e l’indipendenza, che preveda comunque la decisione popolare e l’applicazione di una qualche forma di diritto all’autodeterminazione, i consiglieri salgono da 21 a 29 (su 41) e la percentuale da 46,7% a 65,3%, ovvero una maggioranza assoluta molto ampia. La sommatoria dei partiti contrari al processo (PP, socialisti catalani del PSC e Cs) raduna 12 consiglieri e solo il 29,4% dei consensi. E anche in questo caso, dei 29 consiglieri favorevoli al dret a decidir ben 19 (ovvero i 2/3) sono di sinistra mentre dei 12 contrari 8 sono di destra. Allo stesso modo, dei 23 consiglieri di sinistra 19 sono pro dret a decidir. Insomma, un “soveranismo” sempre più a sinistra e una CiU sempre più in difficoltà su questo piano nonostante le apparenze. Le ripetute perdite elettorali di CiU vengono “compensate” dall’aumento di voti di ERC e CUP. Su questa linea interpretativa si esprime anche l’edizione catalana di “El País” (http://cat.elpais.com/cat/2015/05/24/catalunya/1432490694_772055.html).
Diciamo che il risultato di Barcellona visto all’interno del contesto politico catalano ha un valore diverso rispetto alla sua lettura in chiave spagnola. La lista vincitrice, Barcelona en Comú – https://barcelonaencomu.cat/ (BEC), è paragonabile ad Ahora Madrid solo in parte. La compongono ICV (gli ex-comunisti e rosso-verdi catalani), la sezione catalana di IU (EUiA), Equo – http://partidoequo.es/, Procés Constituent – http://www.procesconstituent.cat/ca/ (PC), Podemos e Guanyem Barcelona ma ha ereditato dalla prima tutti i privilegi provenienti dall’esserne considerata una filiazione: spazi televisivi, copertura finanziaria, visibilità istituzionale. Questi elementi di continuità (burocratica, istituzionale, finanziaria) hanno convissuto con i settori provenienti dalla piattaforma Guanyem, nata da settori movimentisti che hanno deciso di fare il passo verso l’istituzionalizzazione, con il progetto di confluenza degli assi nazionale e sociali di PC e con la recentemente conformata architettura di Podemos in Catalogna.
l risultato è stato la vittoria con circa ventimila voti di differenza sulla coalizione di centro-destra del governo comunale uscente di CiU. La BEC ottiene il 25,2% e 11 consiglieri con un aumento spettacolare rispetto al 10,4% e 5 consiglieri ottenuti da ICV e EUiA nel 2011. Anche in questo caso è chiara la radicalizzazione del voto di sinistra verso opzioni nuove o formalmente tali. I socialisti crollano dal 22,1% e 11 consiglieri al 9,6% e solo 4 consiglieri. Un crollo già evidente di per sé reso ancor più evidente dal fatto che i socialisti avevano espresso il sindaco della città ininterrottamente dal 1979 al 2011: nel 1983 vincevano per maggioranza assoluta con il 45,8% e 21 consiglieri e ancora nel 1999 ottenevano il 45,1% dei voti alle municipali. L’inizio della caduta, a Barcellona come nel resto della Catalogna, nel 2003 in piena era Zapatero con il 33,60% e nel 2007 con il 29,9%. Quello di queste elezioni è il peggior risultato della storia del partito a Barcellona. Chiara la sconfitta di CiU che aveva polarizzato la campagna giocando la carta dell’offerta moderata compaginandola con l’appoggio all’indipendenza: 10 consiglieri e il 22,7% dei voti rispetto ai 14 precedenti con il 28,7%.
Una sconfitta che viene a dire che l’appoggio della coalizione dei centristi catalani al processo di autodeterminazione continua ad erodere la sua forza elettorale, fino a metterne in discussione l’esistenza in vista delle prossime autonomiche e minare la sempre più difficile convivenza tra i due partiti che la compongono, CDC e UDC, in disaccordo su questa questione così centrale. Se alcuni sostengono che CiU si è fatta indipendentista per vincere le elezioni e continuare a governare a noi pare che, come argomentato in precedenti articoli e stando alla realtà dei risultati elettorali, stia accadendo esattamente il contrario. Un altro partito stato-nazionale spagnolo, il PP, è oramai a livelli a dir poco testimoniali anche nella capitale. Al massimo storico ottenuto nel 2011, con il 17,2% e 9 consiglieri fa da contraltare l’8,7% e i soli 3 consiglieri ottenuti in questa tornata. Possiamo affermare che i partiti che hanno governato alternativamente la Spagna del dopo Franco, e che ancora sono i maggiori partiti spagnoli, oggi in Catalogna hanno un peso e un appoggio popolare minimo e di nicchia. Sotto questo punto di vista si può osservare un passaggio di consegne tra questi due partiti e altre forze emergenti.
Nel caso del PP il ruolo da questo svolto di baluardo dell’unità nazionale spagnola in terra ostile sembra essere passato a Cs, che per questo è nato in effetti: dall’1,9% all’11% e 5 consiglieri. Per quanto riguarda invece il voto socialista, certamente una parte del suo elettorato è passato alla BEC mentre la diaspora del catalanismo socialista sta progressivamente proiettando Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) come l’espressione più visibile della socialdemocrazia catalana. ERC ha ottenuto infatti l’appoggio anche dei partiti della diaspora catalanista del PSC, come Moviment d’Esquerres (MES) e Avançen-Espai Socialista, che hanno certamente contribuito alla conquista dei 5 consiglieri e 11% dei voti, quando nel 2011 il 5,6% aveva fruttato solo 2 consiglieri. A completare la sterzata verso sinistra dell’elettorato barcellonese vi è senza dubbio l’ingresso in consiglio comunale della Candidatura d’Unitat Popular (CUP) con la lista Capgirem Barcelona – http://capgirembcn.cat/ (Capovolgiamo Barcellona). Se nel 2011 la lista era rimasta fuori con il 2% dei voti in questa occasione il 7,4% ha fruttato 3 consiglieri.
Non dimentichiamo però che non si è votato solamente a Barcellona e che la vittoria della BEC è un caso molto specifico che per il momento non si è prodotto né generalizzato anche nelle altre città catalane. Ad esempio nelle altre capitali di provincia il terremoto elettorale di queste elezioni ha potuto prescindere di liste come questa. Ad esempio, a Girona crollano socialisti e popolari, da 7 a 4 consiglieri e da 3 a 1 rispettivamente, la CUP ne guadagna uno da 3 a 4, ERC e Cs (rispettivamente 4 e 2) entrano in un consiglio in cui CiU conserva i suoi 10 consiglieri. A Lleida i socialisti sono ancora il primo partito ma scendono da 15 a 8 rappresentanti, CiU conserva i suoi 6, il PP ne perde quattro e rimane con 2, Cs, ERC, CUP e Lleida en Comú entrano in consiglio con rispettivamente 4, 3, 2 e 2 consiglieri. Scenario simile a Tarragona, dove i socialisti si confermano come primo partito scendendo da 12 a 9, il PP scende da 7 a 4 e CiU da 7 a 3, entrano in consiglio Cs, ERC, CUP con rispettivamente 4, 4 e 2 consiglieri e ICV-EUiA conserva il suo rappresentante. Poi ci sono le città dell’area metropolitana di Barcellona, tradizionale feudo delle sinistre ma poco permeabile alle suggestioni della questione nazionale.
In questo caso il PSC riesce a contenere un crollo che in altri luoghi come a Barcellona è stato verticale mentre entrano nelle istituzioni municipali ERC, la CUP e le candidature frutto dell’alleanza fra questa e PC o fra ICV-EUiA e piattaforme di movimento e sinistra alternativa sul modello della BEC. Ciononostante, spicca il caso di Badalona, dove il PP al governo perde un consigliere ma guadagna in percentuale e numero di voti, raccogliendo i frutti avvelenati di un’amministrazione e di una campagna con forti accenti xenofobi e anti-immigrazione oltre che anti-indipendentisti. Nelle città medie e piccole dell’interno l’alternativa a CiU viene capeggiata, a volte anche con qualche vittoria, da ERC o dalla CUP, mentre PSC e PP sono prossimi alla sparizione e Cs si erge a difensore credibile dell’unità nazionale spagnola. Questi elementi entreranno in gioco nel momento in cui, ad esempio, si dovrà rinnovare la composizione dell’AMI, l’associazione dei municipi a favore dell’indipendenza (http://www.municipisindependencia.cat/). Significativa da questo punto di vista l’idea della BEC di sottoporre a consulta cittadina l’ingresso di Barcellona nell’associazione.
Il voto in prospettiva: lo tsunami e la formica
Sebbene il voto di Barcellona non sia il voto della Catalogna tutta la rotta che marcherà la sua capitale non potrà non avere conseguenze sul resto del paese. Se da un lato è evidente che esistono due maggioranze chiare e non necessariamente incompatibili, quella di sinistra e quella soberanista è altrettanto vero che non sarà facile articolarle e farle dialogare. L’appoggio alla BEC ha avuto una chiara origine di classe o quantomeno nella cultura politica della sinistra della città. La lista vince nei quartieri popolari e raccoglie consensi di massa su quelle linee che hanno caratterizzato lo sviluppo ineguale e classista di Barcellona dalle Olimpiadi del 1992 in poi: turismo, gentrificazione, speculazione immobiliare e quella politica d’immagine che ha trasformato la città in meta ambita da convegnisti, bohémien e avventurieri di ogni risma. Barcellona è oggi una città con dei trasporti costosissimi, un alto costo della vita per quanto riguarda beni comuni come l’acqua, carente in strutture scolastiche pubbliche e con un’offerta spropositata di centri privati. Contro la città di CiU, che ad esempio ha smesso di costruire scuole e asili e che in continuità con il modello impiantato dai socialisti ha si è dedicata alle grandi e costosissime opere per rendere il centro della città un accogliente salotto per il turista danaroso, in molti hanno individuato nella BEC come l’alternativa credibile di buona gestione e cambio di rotta. Orbene, i dubbi circa le possibilità reali di realizzazione di quest’alternativa non sono pochi. In primo luogo, vi sono delle cause esterne e oggettive. Il risultato elettorale, oltre la visualizzazione di una volontà politica di alternativa, consegna, al contrario del caso di Madrid, un panorama frammentato che rasenta l’ingovernabilità. Grazie alla legge elettorale spagnola il candidato di maggioranza relativa può essere sindaco anche “d’ufficio” ma la governabilità è un’altra cosa e l’unica soluzione matematicamente possibile sembra essere un governo di sinistra composto da BEC, ERC, PSC e CUP. La futura sindaca della BEC, Ada Colau, ieri già rendeva pubblico come fosse questa la linea sulla quale voleva lavorare per dare alla città un governo stabile. Segnali positivi in merito provengono da repubblicani e socialisti ma la CUP ha inizialmente dichiarato di non essere interessata all’idea. Orbene, dato che né repubblicani né socialisti condividono alcune soluzioni radicali in termini sociali che invece rappresentano l’asse centrale del programma della BEC, ciò significa già in partenza prevedere di mettere nel cassetto proprio quelle proposte che hanno alimentato il successo della lista. In secondo luogo, e di conseguenza, entrano in gioco le questioni politiche di fondo e diciamo interne.
La Colau, cui spetta adesso il compito di formare la maggioranza ha certamente suscitato grandi entusiasmi. È stata per lungo tempo attivista e leader del movimento anti-sfratto e contro la speculazione immobiliare. Il suo programma è certamente appetibile e rappresenta un condensato delle rivendicazioni dei movimenti sociali di questi ultimi anni: fermare gli sfratti, garantire l’accesso alla casa, ridurre drasticamente il prezzo di acqua, luce e gas e fermarne il taglio in caso di morosità a causa di situazioni di disoccupazione e povertà, trasparenza amministrativa, difesa e potenziamento di educazione e sanità pubblica, trasporto pubblico a prezzi ridotti, protezione dei settori sociali e generazionali più deboli, politiche attive contro la discriminazione di genere e, nel complesso, lo sganciamento delle logiche del profitto da quelle del welfare.
Tutto magnifico ma esistono dei problemi, delle questioni di fondo. La candidata della BEC ha mostrato in campagna elettorale un forte personalismo, per affermazioni fatte dagli ambienti stessi della lista, che rasenta il ridicolo. Quella della BEC è stata l’unica candidatura ad avere come simbolo elettorale sulla scheda la faccia del candidato sindaco. Cosa che ci si può aspettare dai partiti tradizionali in via di americanizzazione ma che stona non poco con una proposta “alternativa” così coraggiosa. A questo elemento simbolico che potrebbe anche essere un semplice aneddoto se ne aggiungono altri. Per scorgerli dobbiamo scavare un po’ più a fondo. Quando la piattaforma elettorale della Colau, Guanyem Barcelona, decide di allearsi, tra gli altri, con ICV, ne accetta l’appoggio economico e ne assume l’eredità politica. Si da il caso però che la coalizione rosso-verde post-comunista sia una delle formazioni maggiormente indebitate con le banche, quelle stesse banche che richiedono lo sfratto di quelle famiglie che essendo rimaste senza reddito non possono più pagare il mutuo della casa. Inoltre, ICV è corresponsabile (ovviamente in parte soltanto) dell’attuale modello di città che la BEC si propone di cambiare. Si tratterebbe di una questione secondaria se la stessa candidata non avesse pubblicamente rivendicato la figura e l’opera del sindaco che ha posto le basi e avviato il processo di gentrificazione di Barcellona, il socialista Pasqual Maragall (Un cafè amb el candidat: Ada Colau, in “Ara”, 20.05.2015, p. 11).
Un ulteriore elemento che rende necessaria una riflessione è il fallimento del processo di confluenza elettorale tra Guanyem Barcelona e la CUP. A quanto è dato sapere uno degli elementi che hanno fatto naufragare il progetto, caldamente appoggiato e voluto ad esempio dal gruppo di Procés Constituent pare sia stato il codice etico. Guanym Barcelona pare non abbia accettato i punti proposti dalla CUP, alcuni dei quali sono stati ritenuti eccessivi; la CUP non permette ai propri rappresentanti di essere rieletti dopo la prima legislatura. Inoltre la CUP poneva il veto sulla presenza d’ICV nell’eventuale coalizione, a causa della sua partecipazione alla gestione della città nelle legislature passate, e avrebbe voluto una dichiarazione apertamente favorevole all’indipendenza della Catalogna. Effettivamente anche in questo la BEC eredita da ICV tutte le incertezze e gli equilibrismi di questa in materia indipendentista, ai quali si sommano quelli, non di poco conto, di Podemos. Ma la questione è forse anche più profonda. In realtà la CUP avrebbe voluto che Guanyem Barcelona e un’eventuale lista comune di confluenza facessero propria la metodologia della Trobada Popular Municipalista – http://trobadabcn.cat/ (TPM). Questa, promossa e organizzata dalla stessa CUP e da altre forze della sinistra di classe e antagonista, aveva l’obiettivo di costruire il programma elettorale attraverso l’implicazione diretta e la partecipazione dei movimenti presenti in città. Dal marzo dell’anno scorso a febbraio se ne sono celebrate quattro che hanno effettivamente preso decisioni vincolanti, come il codice etico, il programma elettorale, il nome della lista e nomi e ordine dei candidati.
In realtà alla fine la TPM si è trasformata in una sorta di formalizzazione di quella che in questi anni si è venuta definendo come l’area della CUP. Potremmo dire che la metodologia orizzontale e dal basso verso l’alto della CUP, non priva di un certo integralismo in alcuni aspetti, e quella verticale e dall’alto verso il basso di BEC, non priva di personalismi ed elitismi, hanno contribuito a privare l’elettorato di un’unica e più potente lista che avrebbe ottenuto di certo più del 30% dei consensi. Ciononostante, questa mancata confluenza, che invece si è data in altri luoghi come Amposta dove ha ottenuto la maggioranza assoluta e sbancato dal potere CiU, risponde a differenze di fondo difficilmente componibili. Inoltre, è possibile che la BEC e la CUP si siano sottratti voti a vicenda ma è sicuro che una loro confluenza avrebbe prodotto una somma matematica pura dei due risultati separati. La politologa e Segretaria Generale di Podemos in Catalogna, Gemma Ubasart, in un’intervista radiofonica del 16 febbraio scorso all’emittente catalana RAC1 dopo aver ribadito che lei e il suo partito fossero chiaramente a favore del dret a decidir fissava la differenza tra il suo partito e la CUP con l’immagine della strategia dello tsunami e della formichina. Secondo questa suggestiva immagine Podemos sarebbe lo tsunami che travolge il sistema politico portando in un tempo brevissimo alla conquista del potere mentre la CUP sarebbe la formichina che lavora in piccole dimensioni giorno per giorno ma troppo lentamente e senza né la voglia né la possibilità di conquistare il potere. Il paragone è un ennesimo esempio dell’ossessione per la conquista del potere da parte di Podemos. Un’ossessione che dev’essere valutata anche in base alla cultura politica rinunciataria che ha pervaso la sinistra europea negli ultimi lustri, così presa dal dominio del pensiero debole. È la cifra di una sinistra che, in un modo o nell’altro, torna a porsi il problema del potere e dell’egemonia e della sua conquista. Ma in questo di nuovo c’è davvero poco.
È comunque significativo che il modo in cui la CUP ha ottenuto i suoi 3 consiglieri è più simile a quello di una laboriosa formichina mentre quello in cui la BEC ha vinto le elezioni è qualcosa di più simili a un tsunami. Ciononostante, questo tsunami non ha avuto la forza sufficiente per prendere il potere in un sol colpo e il momento del ritiro delle acque potrebbe lasciare svariati danni sul terreno. Non è dato ancora sapere se la via della formichina avrà costruito strutture stabili capaci di costruire ma un dato è chiaro. La BEC e la CUP non sono la stessa cosa, e non per il loro posizionamento rispetto alla questione nazionale. Se nella costruzione delle due candidature c’è stata una grande differenza sul “come” fare le cose altrettanto differente è e sarà il “cosa” fare con questo risultato elettorale, con i pochi o tanti consiglieri comunali conquistati. Arrivati a questo punto ci permettiamo di offrire una differenziazione certamente meno immaginativa cercando di concettualizzare la realtà politica che ci circonda. L’asse sul quale si sistema la BEC (e buona parte delle forze che la sostengono) è quello dell’alternativa istituzionale attraverso l’arrivo nei centri decisionali della democrazia delegata da parte dei rappresentanti dei movimenti che si postulano come ceto politico nuovo e dinamico.
La BEC e allo stesso modo Ahora Madrid non sono espressione di una sinistra alternativa bensì di una sinistra “di alternativa”. Infatti la BEC e Ahora Madrid sono oggi delle forze che per il momento hanno ottenuto l’obiettivo di sostituire i socialisti nel loro ruolo di alternativa turnista alla destra o centro-destra. Questa sinistra non ha l’obiettivo di trasformare il modello socio-economico vigente ma di offrirne una versione più giusta, partecipativa ed equitativa. Invece la CUP sembra postularsi come una sinistra “di rottura”. Questa più che obiettivi di buona gestione ha l’intenzione di usare i propri rappresentanti istituzionali come la “voce dei senza voce” ma l’attività istituzionale non è il centro del suo intervento. Ad esempio, tra le proposte della CUP per Barcellona figura la creazione di un Consiglio Popolare municipale come strumento di raccolta delle istanze popolari e fomento di autorganizzazione per la produzione di rivendicazioni base de far “esplodere” in Comune.
Il tutto in una prospettiva anticapitalista, cosa che non appare per nulla chiara nell’offerta politica della BEC che non sembra voler attaccare le logiche di mercato ma circoscriverle in una sorta di neo-keynesismo post-socialdemocratico. Il paradigma attorno al quale si muove la politica municipale della CUP è quello dell’uso del municipio come base per l’autodeterminazione (sociale e nazionale) e la costruzione di contropotere locale alla legalità costituità, cosa che la BEC non si sogna nemmeno di pensare. Insomma, due modelli che difficilmente potranno collaborare in Consiglio Comunale o confluire in vista delle prossime elezioni catalane per il rinnovo del Parlament. A quanto pare lo tsunami e la formichina giocano nello stesso campo ma a sport diversi oltre che a ritmi diversi.
Seguendo la linea delle suggestioni suscitate dai precedenti storici, alle elezioni municipali del 1931 seguì la proclamazione della Repubblica Catalana. Questa non significò l’indipendenza della Catalogna bensì la partecipazione del catalanismo di sinistra al processo repubblicano spagnolo. Chi si aspettava uno scenario simile, magari sostituendo alla repubblica un processo costituente, rimarrà deluso. Nemmeno coloro che sognavano una vittoria totale delle forze indipendentiste saranno soddisfatti da questo voto che, invece, si caratterizza come un passo ulteriore verso la complessità politica della situazione catalana rispetto a quella spagnola, con un sistema di partiti proprio, una politica propria e l’assoluta incapacità da parte delle strutture politiche spagnole, siano esse partitiche siano istituzionali, di articolarsi in Catalogna come offerta seducente e di massa. La questione è quindi tutta lì ma non è poco.