Call center Due Palazzi

Una mattina nel carcere di Padova dove la Cooperativa Giotto impiega circa 30 detenuti per un servizio di call center, un’attività considerata alienante che, invece, “dietro le sbarre” diventa tra le più ambite

Profumo di crema pasticcera, lungo tutto il corridoio. Non è esattamente quello che ci si aspetta all’ingresso di un carcere. Ma al Due Palazzi di Padova, istituto penitenziario alla periferia della città, è così dal 2005, grazie all’azione della Cooperativa Giotto, responsabile della pasticceria e delle altre attività all’interno del carcere. È una calda giornata di inizio maggio, con me all’ingresso c’è Eugenio Andreatta, addetto stampa della cooperativa che, attualmente, impiega circa 120 detenuti, su una popolazione carceraria pari a 700 persone. “La pasticceria è una delle nostre eccellenze, riforniamo mense e panetterie di Padova e dintorni”, spiega, “ma abbiamo molti altri laboratori”.

La cooperativa Giotto, attiva nel sociale dal 1986, si affaccia sul mondo del carcere agli inizi degli anni Novanta, con la realizzazione di un parco didattico e un corso di giardinaggio insieme ai detenuti. “Era il 1991 ed è stata la prima attività svolta nel Due Palazzi”, racconta Eugenio. Da questa esperienza insieme a detenuti in semilibertà e affidamento, è nato il Consorzio Giotto, alla guida della pasticceria, del laboratorio di valigie, del montaggio biciclette. Non solo. “Siamo stati tra i primi a introdurre servizi digitali svolti dai detenuti”, continua Eugenio, “con la realizzazione di chiavette USB, la digitalizzazione dei documenti cartacei per camere di commercio e ordini professionali”. Ma soprattutto, non tutti sanno che in carcere è attivo un call center, da dieci anni, un’attività in continua crescita, tra le preferite della popolazione carceraria.

“Il call center del Due Palazzi è nato nello stesso anno della pasticceria”, spiega Alessandro Krivicic, tra i responsabili della Cooperativa Giotto, “era un’attività parallela ma nel tempo è cresciuta e abbiamo lavorato anche con commesse importanti”. Il call center oggi si occupa di prenotazioni per visite specialistiche ed esami di laboratorio per l’ospedale di Padova e anche per l’area privati dell’ospedale di Mestre, lavora inoltre per un importante provider di forniture per gas.

corridoio

I detenuti impiegati nel call center sono circa una trentina, hanno dai 30 ai 60 anni e provengono da ogni blocco del carcere, “non c’è discriminazione secondo il reato”, da quello dei detenuti comuni all’ex Alta Sicurezza al blocco dei detenuti protetti. “Molti di loro non hanno mai lavorato”, continua Alessandro, “o peggio, sono reduci da una lunga inattività, un periodo di branda durato anche anni, per loro avere questo lavoro è una rivoluzione”. Significa puntare la sveglia per non arrivare tardi, vestirsi, lavarsi, farsi la barba. “Il fine settimana diventa un dramma: si passa dalla giornata lavorativa a tempo pieno alla vita di sezione, dove si ritorna a parlare di carcere, di reato, di indulto, di libertà”, forse, un giorno.

“Il lavoro è lo strumento più educativo, un elemento concreto delle loro vite, abbiamo mansioni importanti e non possiamo permetterci di essere imprecisi: siamo in carcere e, se fuori un errore può essere tollerato, qui dobbiamo dimostrarci ancora più bravi, sbagliare non ci è concesso”.

È la stessa ragione per cui, secondo la politica della Cooperativa, non sono concesse assunzioni a fine sociale: “non possiamo permetterci di fare inserimenti sociali, dobbiamo controllare che il lavoro sia fatto bene e da persone capaci”. I lavoratori del call center svolgono un periodo di formazione, un tirocinio e, se tutto va bene, ottengono un’assunzione in piena regola: “tutti hanno un contratto regolare, ferie, assicurazione, assistenza medica, tredicesima, 14 mensilità e contributi”. L’aspetto della retribuzione è fondamentale, dà completezza e dignità al lavoro: “tutti lavorano per necessità, esattamente come me, e devono essere pagati per quello che fanno”. Un aspetto che anche i detenuti tengono a specificare: “non c’è sfruttamento e siamo pagati bene, alcuni di noi hanno anche la possibilità di mandare 700 euro a casa ogni mese”.

callcenter

“È solo la comunione che tiene desto lo scopo nelle decisioni”, è la frase che campeggia al centro della sala del call center. La cooperativa Giotto ha una forte componente religiosa, il nucleo dell’associazione appartiene a Comunione e Liberazione e negli spazi di lavoro abbondano riferimenti cristiani e crocifissi, nonché frasi motivazionali dall’evidente matrice cattolica. “Al di là dell’essere credenti, la dimensione del carcere implica affrontare domande e questioni spirituali”, continua Alessandro, “lavorare in carcere implica un’interrogazione quotidiana sui nostri limiti, sulla comprensione, sull’accettare e il guardare oltre il reato e il blocco di provenienza”. Dalle parole dei detenuti, però, è chiaro come tale interrogazione avvenga in una dimensione umana, fin troppo umana, tra se stessi e gli altri, o nel chiuso di una cella, dove il divino è spesso assente.

Alessandro Puccio, 23 anni, originario di Genova, lavora all’interno del call center del Due Palazzi da più di un anno. “All’inizio non è stato facile pensare di lavorare in carcere”, ammette, “la mia prima domanda è stata chiedere se ci fossero guardie”. Ora la situazione è radicalmente cambiata: “questo lavoro mi sta insegnando molto, soprattutto che ci vuole tempo e onestà per imparare a relazionarsi all’interno del carcere e che non è facile mettersi nei panni degli altri”.

Uno degli “altri” è Michele, camicia azzurra, occhi dello stesso colore, ha 44 anni, originario di Verona. “Sono in carcere da più di 9 anni, me ne restano ancora altri 3”, racconta. Michele è in carcere per omicidio: “ho scontato quasi 4 anni in casa circondariale a Verona, poi mi hanno trasferito a Padova, da sei anni”. Michele ha iniziato a lavorare nel call center quasi subito, appena un mese dopo il suo arrivo a Padova. Ora è il coordinatore delle attività, “in mensa mi fermano, mi chiedono ‘sei tu quello del call center? Mi fai lavorare?’”. Prima aveva svolto solo lavori amministrativi, una formula edulcorata per dire “scopino”, addetti alle pulizie, “ci danno un secchio e ci dicono di arrangiarci, è un po’ come pulirsi la coscienza, un dirsi ‘io almeno li ho fatti lavorare’”.

Michele e Alessandro al call center.

Michele e Alessandro al call center.

“Sono il primo detenuto italiano a essere stato autorizzato a ricevere e inviare mail o telefonate”, dichiara Michele, “tutte tracciate e controllate”, siamo in un carcere modello, ma in fondo sempre in carcere. “Non so se un giorno uscirò da qui e andrò a lavorare in un call center”, racconta Michele, “ma questo lavoro ci dà fiducia e responsabilità, ci fa sentire lavoratori a tutti gli effetti”. Uno stato d’animo che giova soprattutto ai detenuti alle prime armi: “Ho una risposta straordinaria da parti di chi non ha mai lavorato”, racconta Michele, “sono come dei bambini, delle spugne, mi ringraziano per il solo fatto di poter lavorare e mi raccontano che se avessero avuto un lavoro fuori probabilmente non sarebbero qui”.

“Ci sono persone che entrano qui una volta e poi sentono il bisogno di tornarci, di venire a lavorare con noi o semplicemente a trovarci, mi sono chiesto il perché e mi sono detto che forse qui si fanno i conti con una certa umanità, un lato di comprensione ed empatia che non si pensava di avere”.

Michele ha l’espressione disincantata di chi conosce bene il sapore delle ore vuote in carcere e coglie dal primo istante smarrimento e timore negli sguardi esterni. Inizia lui a metterci a nostro agio: “ormai penso di accorgermi subito di quello che pensano le persone quando parlano con me”, racconta. Michele ricorda visitatori impauriti, schiena al muro, un sorriso di circostanza stampato in faccia: “alcuni invece sono di una schiettezza disarmante”, continua, “uno mi ha anche chiesto cosa provo quando parlo al telefono con una donna”. Tutti hanno un modo diverso di entrare in punta di piedi all’interno di un carcere, più o meno maldestro. Anche accorgersi che ad avere più riserve sono proprio i visitatori può richiedere un po’ di tempo. Avrei quasi voglia di chiedergli cosa pensa di me.

Call center. Lavoro che da anni fa rima con frustrazione, sfruttamento, attività di ripiego, qui diventa mestiere professionalizzante, un’apertura sul mondo, una possibilità per parlare di altro anche solo per quattro ore. “Lavorare mi ha aiutato a eliminare l’ozio dalla quotidianità”, spiega, “il detenuto diventa spesso un automa, si aggrappa alle abitudini, aiuta a scandire il tempo”. Un tempo che Michele vuole lasciar scorrere inalterato fino all’uscita definitiva. “Spesso salto le ore d’aria, potrei battermi per avere un permesso in più, ma non lo faccio”, racconta, “è difficile da spiegare, perfino da ammettere, ma ho più paura di uscire che di restare qui dentro”. A influire è anche la scelta di non sconvolgere gli equilibri di casa per pochi giorni: “per me è duro dirlo, ma la mia casa va avanti senza di me e non ho voglia di rimetterci piede solo per qualche giorno”.

“Essere impegnati in qualcosa di vero, di concreto, mi ha restituito un valore sociale, ci sentiamo parte di un progetto e, per quanto possa valere, io qui sono Michele del call center, fuori potrei tornare a essere Michele quello del carcere”.

Prima di andare via, Alessandro mi consiglia di fare quattro chiacchiere con Guido, responsabile del controllo contratti al call center. Un paio di occhi chiari e capelli nerissimi, un accento meridionale addolcito forse dalle vicine parlate venete, a 42 anni, Guido è un ex detenuto dell’Alta Sicurezza di Padova, in attesa di declassificazione e tuttora suscettibile di trasferimento. Ha due figli, uno di 26 anni e una ragazza di 21, e 14 anni di carcere alle spalle, trascorsi in più istituti, “ne ho cambiati quasi uno all’anno”, e la sua pena, almeno per ora, non ha fine.

L’intervista inizia con una manciata di secondi di silenzio, come per calibrare le domande, adattare la concezione di tempo ordinaria alla sua. Come si chiede del tempo a un ergastolano? Cosa sono per lui le vacanze? E le ferie? Ha il tempo libero? Guido, che sicuramente ha meno dubbi di noi, prende la parola per primo. “Il momento peggiore è stato l’isolamento, nel carcere di Agrigento”, racconta, “ma da quella cella è iniziata anche la risalita”. Guido ha imparato a leggere e a scrivere in cella d’isolamento, “ero rimasto solo con me stesso”, dove non c’era nessuna direzione verso cui guardare.

Guido

Guido

La solitudine completa, l’isolamento totale, lo scontro a priori con tutti, l’attacco come unica via d’uscita, il silenzio che dura settimane, mesi. “Ora, invece, il mio compagno di cella parla sempre”, scherza. Guido è al call center da un anno, “è la mia prima vera esperienza lavorativa” e una piccola grande rivoluzione nell’organizzazione delle sue giornate. “Il tempo non è più mio nemico”, conferma, “prima le giornate erano lente, lunghe, vuote, oggi 24 ore non bastano”. Guido continua a studiare, nel tempo libero legge, scrive ai suoi figli e accetta ogni ora di straordinario, “penso che il tempo abbia finalmente smesso di farmi paura”.

Mezzogiorno è passato, si cambiano i turni, è quasi ora di conta nelle celle. Lasciamo il call center, anche la pasticceria è vuota ormai. Il silenzio ci riporta alle coordinate spazio-temporali originarie e, con queste, alla consapevolezza di come ogni attività negli istituti penitenziari, lavorativa o ricreativa, finisca inevitabilmente per scontrarsi con una contraddizione di fondo, intrinseca nella condizione carceraria stessa: la privazione della libertà, l’assoggettamento completo, l’essere obbligati a mettere il proprio tempo nelle mani di altri, riversare ogni esigenza nelle poche righe di una domandina. Uno stato di dipendenza totale, che le poche ore di lavoro possono forse lenire, ma sicuramente non eliminare. Non ci sono illuminazioni, né redenzioni improvvise nelle celle di isolamento o nei corridori delle sezioni, solo forse la volontà di ricostruire un pezzo di identità andata smarrita sulla soglia del carcere e il bisogno di dare un senso al tempo insensato della reclusione.

Ci avviciniamo all’uscita. Riprendo il mio telefono, i documenti, alle spalle si chiudono almeno quattro cancelli diversi. Cambiamo di nuovo prospettiva. Dall’interno all’esterno. Sicuramente con l’esigenza di tornare dentro, parlare ancora, fare altre domande, chiedere di più. Aveva ragione Michele.

 

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