The Tribe

Regia di Myroslav Slaboshpytskiy. Con Grigory Fesenko, Ana Novikova, Rosa Babiy, Alexamder Dsiadevich. Premio Fipresci e European discovery of the year 2014. Nelle sale dal 28 maggio

di Irene Merli

Ucraina, oggi. Sergey, giovane sordomuto, arriva in una scuola speciale per ragazzi come lui. Un luogo spoglio, squallido, che sembra fermo al “realismo” sovietico. Non solo. Dentro le mura dell’istituto si nascondono dinamiche molto violente e prevaricatorie. Sergey viene subito sottoposto a brutali rituali di iniziazione da parte dei capi di una banda che detta legge dentro e fuori i corridoi,

E per sopravvivere, deve entrare a far parte del branco.

I ragazzi della banda pestano, rubano e di notte prostituiscono le due compagne più carine, portandole a cercare clienti tra i camionisti di un grande parcheggio. Ma, a un certo punto, accade che Sergey si innamori di una delle due, Anna, e venga ricambiato. Non sa però che uno degli istitutori sta dandosi da fare per mandarla in Italia con la sua amica. E la passione lo porterà a infrangere pericolosamente tutte le regole della banda, in una paurosa escalation di violenza senza via d’uscita.

Il primo lungometraggio di Myroslav Slaboshpytskiy è un pugno nello stomaco, uno di quei colpi che restano impressi nella memoria sia per la durezza, sia per lo stile del racconto. Che è davvero unico ed è spiegato all’inizio del film: i personaggi parleranno con il linguaggio dei segni, non ci saranno sottotitoli né voice over né colonna sonora.

Solo gli attori, la loro lingua a noi sconosciuta e i mille suoni del mondo in cui agiscono.

Eppure The tribe, dopo il primo spaesamento, tiene inchiodati per più di due ore e costringe a guardare gesti ed espressioni del volto dei protagonisti per cercare di capire, e ad ascoltare con maggiore attenzione i suoni.

Del resto Odio e amore, come dice il manifesto del film, non hanno bisogno di parole. E l’espediente del linguaggio rende ancora più crudo il nerissimo racconto di formazione di Sergey. Qui ogni pietismo è bandito e il regista inquadra le scene con fredda lucidità, in lunghi piani sequenza. Sembra quasi che, per poter costruire se stessi, non esista altro che la sopraffazione, il dominio del più forte e del più spregevole sul debole.

Il regista ha affermato: «È un mio vecchio sogno quello di rendere omaggio al cinema muto. Fare un film che possa essere compreso senza che venga detta una parola».

«Non pensavo però a un certo tipo di cinema europeo ‘esistenzialista’ in cui gli eroi stanno zitti per metà della durata del film. Anche perché gli attori non erano muti nei film muti. Comunicavano molto attivamente attraverso un’ampia gamma di azioni e di linguaggio corporeo. Questo è il motivo per cui ho sempre voluto realizare un film sulla vita dei sordomuti. Senza dialoghi e sottotitoli, e con la partecipazione di veri sordomuti».

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Sergey e Anna sono vittime di un piccolo mondo chiuso che impone regole ferree a cui cercano di adattarsi. In loro, però, la fiammata di sentimenti diversi fatica a spegnersi, anche se tutto spinge perché si adeguino il più presto possibile. Non a caso, il regista ha detto ancora: «Vedo questo film come una storia d’amore e iniziazione: una storia sul passaggio alla vita adulta in un mondo crudele».

E la scena della lunga fila fuori dall’ambasciata italiana, vista dalla nostra parte dell’Europa, è un’altra immagine destinata a restare impressa nella memoria.

Perché aiuta a capire quanto dolore, quante speranze, quanto sfruttamento ci siano dietro lo sguardo di persone che incontriamo ogni giorno, nella nostra vita.

N.B. Il casting per gli attori è durato circa un anno ed è stato condotto soprattutto per mezzo dei social network, molto popolari tra i sordomuti. Inoltre, la maggior parte del film è stata girata nel quartiere periferico di Kiev, dove Slaboshpytskiy ha vissuto la sua infanzia.

 

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