South America coast to coast / 11

Il Cile australe: da Valparaiso a Castro,
passando per le terre dei Mapuche e la “tedesca” Valdivia

foto e testi di Samuel Bregolin

Qui in Cile ce l’hanno già detto più volte: al sud se chiedi dell’acqua ti daranno acqua, farina e miele, per mescolarli e berli insieme. Un’espressione per spiegare la convivialità e l’apertura della gente del sud, rispetto alla chiusa società mineraria del nord e del deserto. Il paragone con l’Italia e gli italiani viene spontaneo, anche se qui in Cile, emisfero australe, più si scende verso sud più aumenta il freddo: l’estremo sud del paese, Punta Arena, è terra di ghiacciai, pinguini e gelo. Luoghi affascinanti, ma che non siamo attrezzati a sufficienza per raggiungere. Scendendo col dito lungo la cartina geografica del Cile, decidiamo che comunque un pezzo di sud ce lo vogliamo portare a casa e allunghiamo il nostro percorso per raggiungere l’isola di Chiloé.

Lì dove finisce la Ruta 5, dopo di che l’asfalto si interrompe e si continua in traghetto, verso la famosa carrettera australe.

La nostra discesa verso il sud comincia da Valparaiso, la città fatta di tante case colorate, aggrappate al monte e affacciate sull’oceano. La vista migliore la troviamo alla Sebastiana, la residenza di Pablo Neruda, una casa su tre piani, completamente rivestita di legno, al cui interno sembra di essere su di una nave, c’è anche il bar del capitano. Neruda amava il mare e tutte le sue case ricordano un’imbarcazione: con le finestre a forma di oblò e i corrimano di ottone.

Andiamo verso il porto tra stradine che scendono ripide, circondate da case di lamiera, colorate di giallo e lilla, con scorci sull’oceano e sulle imbarcazioni. Al centro del porto commerciale spuntano due grandi navi della marina militare, immobili e possenti, controllano le acque di Valparaiso come quel giorno di settembre del 1973. I quartieri attorno al porto sono i più caratteristici, gli edifici più vecchi della città sono qui, oggi quasi tutti sono diventati dei ristoranti, propongono menù del giorno a base di pesce e i camerieri escono per strada per attirare gli avventori, alcuni finiscono quasi per litigare per il possesso del marciapiedi, riusciamo a svignarcela mentre da lontano ci propongono ancora orate e zuppe di pesce. Il quartiere del vecchio porto è una delle attrazioni turistiche della città: con la sua atmosfera d’altri tempi, gli intonaci scrostati e il vecchio filobus che lo attraversa, il mercato del pesce e i pescatori col berretto di lana in testa che fin dal mattino bevono birra in locali che puzzano di fumo. Poco lontano da lì troviamo un quartiere di grandi edifici e banche, qui i prezzi lievitano tremendamente, tre euro per un caffè, signori di mezz’età che attraversano la strada indossando completi grigio fumo di Londra ci guardano come se fossimo straccioni. Le differenze sociali del Cile tornano a farsi paurosamente sentire.

Valparaiso in questi giorni è circondata dal fuoco, un incendio sta bruciando i boschi attorno alla città, c’è molta paura tra la popolazione: l’anno scorso un incendio simile finì per bruciare intere colline, lasciando senza casa molte famiglie. Per fortuna quest’anno è limitato e i vigili del fuoco riescono a vincerlo in pochi giorni, quando usciamo dalla città attraversiamo alcune zone completamente bruciate, il suolo è nero, i tronchi degli alberi ridotti a neri carboni.

La vista di Valparaiso da casa Neruda

La vista di Valparaiso da casa Neruda

Raggiungiamo la regione di San Fernando, dove comincia la zona vitivinicola più conosciuta del Cile. I grappoli pendono da ambo i lati della strada, i vigneti che si allungano sulle colline. Lontane, nascoste da una fitta nebbiolina, le montagne della cordigliera. Qui incontriamo Matias: capelli castano chiaro spettinati e stopposi, la barba incolta di tre giorni, muscoli da rodeo, passo e sorriso da contadino. Matias è allevatore di cavalli, un gaucho come li chiamano in Patagonia, gestisce con la famiglia un piccolo dominio vitivinicolo. «Etichettiamo il vino col nostro nome solo da poco tempo» ci racconta quando ci accompagna a visitare le sue vigne a piedi «ancora vendiamo una parte dell’uva al consorzio, nella vinificazione ci aiuta un enologo svizzero». Matias ci mostra la cicatrice sullo stomaco che gli ha lasciato un toro, mentre con le corna infilzava e uccideva il suo cavallo. Una vita difficile e aspra quella della del cow boy, pur essendo estremamente sensibile Matias conserva tutte le rudi abitudini del mestiere: gioca veloce col coltello a serramanico, indossa il grande cappello di paglia tipico dei gauchos di Santa Cruz, nella sua stanza sono appese al soffitto decine di pelli di mucca o cavallo, gli stivali da cow boy e il lazzo in pelle secca sono in bella mostra accanto alla stufa a legna.

Matias col lazzo è un maestro, per dimostrarcelo ferma così una puledra agitata quando nel pomeriggio usciamo a cavallo: con l’aiuto dei cani la fa entrare nel recinto, poi è una questione di attimi, prepara il lazzo, lo fa girare veloce sopra la testa, mira la puledra e la centra attorno al collo, quando questa si dimena selvaggiamente Matias fa abilmente un passo indietro, la lascia sfogare legando la corda attorno al palo. Poi la tranquillizza accarezzandole il collo: uno spettacolo da rodeo. Pochi minuti dopo stiamo già passeggiando in mezzo alle vigne e ai boschi. La sera, tra una bottiglia di vino rosso e un’altra di Pisco, Matias si confida: «Fino all’anno scorso ero gaucho nella Patagonia argentina, lavoravamo in tre con la transumanza delle vacche, spersi tra le montagne del sud e lontani centinaia di chilometri dalla prima abitazione. Un giorno mentre catturavamo al lazzo un grande toro selvaggio il mio compagno è stato sbalzato dal cavallo ed è caduto in un crepaccio, morendo sul posto». Dopo questo incidente Matias ha abbandonato la Patagonia per ritornare tra le vigne della regione dei laghi. Le vigne però gli vanno strette e con i cavalli qui non riesce a guadagnare abbastanza.

«Appena riesco a mettere da parte i soldi per il biglietto aereo parto per l’Australia, sembra che lì cerchino cow boy.» Anche i gauchos emigrano!

La nostra strada continua verso Pucon e il lago di Villarrica, lì dove qualche settimana fa il vulcano ha cominciato a borbottare, nella zona è ancora attiva l’emergenza color arancio, è vietato salire sulla montagna e la forestale mantiene chiusi i sentieri, una parte della popolazione è stata evacuata ma dal vulcano oramai escono solo pietre e fumo a singhiozzo. Sembra più sul punto di fermarsi che su quello dell’esplosione imminente. Per strada ci raccolgono Gris e Marcela, entrambe professoresse all’università di Temuco, vengono a Pucon per spezzare la routine e passiamo la giornata insieme. Gris ci racconta la storia del popolo Mapuche, il popolo indigeno di questa zona, barbaramente ucciso ai tempi del colonialismo «Nel corso del diciannovesimo secolo sono arrivati a vivere qui emigrati da tutta Europa: italiani, francesi, svizzeri, tedeschi. Hanno tagliato ettari ed ettari di foresta vergine per fare spazio ai pascoli. Le popolazioni locali sono state praticamente sterminate»·

Il vulcano di Pucon

Il vulcano di Pucon

Quella dei Mapuche è una storia cruenta e poco conosciuta della colonizzazione europea in Sudamerica. Ne parla un libro: Menéndez, rey de la Patagonia, di José Luis Alonso Marchante. I Mapuche sono il popolo indomito, che mai si è lasciato spezzare dai colonizzatori, al punto che alcune comunità vivono ancora oggi orgogliose in mezzo ai boschi, cacciando e raccogliendo frutti. Il Cile sta attualmente vivendo una sorta di rinascimento della cultura Mapuche, riconosciuta come parte integrante del paese, una sorta di nucleo originario «ma a differenza della Bolivia, dove i popoli indigeni sono la maggioranza, qui i Mapuche rappresentano meno del 10 per cento della popolazione» ci spiega Gris mentre passeggiamo in riva al lago e il vulcano sbuffa nuvoloni di fumo nel cielo «esistono dei movimenti indipendentistici ma hanno poca influenza, per il momento il miglior risultato da ottenere è cambiare l’idea generale che i cileni hanno dei Mapuche, sono ingiustamente considerati pigri e scansafatiche, quando invece lavorano, ma a modo loro: seguendo i ritmi della natura e non quelli dell’economia. Nella lingua dei Mapuche praticamente tutte le parole derivano dalla natura, dalla vegetazione, dagli alberi e dalle rocce.»

Per capire perché i Mapuche abbiano una così grande considerazione della natura basta guardarsi attorno, le regioni del sud del Cile sono di una bellezza che lascia a bocca aperta.

Foreste di conifere che come velluto si stendono sulle colline silenziose della cordigliera, abitate da falchi e cinghiali, montagne rocciose dalle punte aguzze ricoperte di neve e ghiacciai perenni. Spaventosi ed enormi vulcani neri, spolverati di neve e ripieni di lava rovente. Decine di laghi blu con spiagge di sassi e ciottoli, l’Oceano Pacifico con i pellicani, le foche, le balene e i pinguini. Solo un pazzo potrebbe rimanere indifferente allo spettacolo che la natura regala da queste parti.

Oltre alla contemplazione c’è chi questa natura ha saputo sfruttarla per fini economici: sono gli immigrati europei, prevalentemente tedeschi, che nel tempo hanno lasciato una profonda influenza culturale; la si nota sopratutto a Valdivia. Circondata da fiumi, boschi e paludi la città di Valdivia si affaccia sull’oceano. Quando arriviamo qui abbiamo l’impressione di non essere più in Cile ma in Germania: tutto è estremamente pulito e ordinato, l’erba dei giardini rasata di fresco, i contenitori delle immondizie divisi per la raccolta differenziata, pub con birre artigianali tedesche sono presenti un po’ ovunque in centro, tra i giardini passeggiano ragazzi dai capelli biondi e dalla pelle chiara, alcuni fanno acrobazie con skatebord o VTT.

La bella Valdivia è la più importante delle colonie tedesche nel sud del Cile.

Quando le ombre del pomeriggio si allungano, andiamo verso la stazione dei pompieri, che durante tutto il viaggio ci hanno aiutato consigliandoci i posti migliori e più sicuri dove piantare la tenda per la notte. Qui a Valdivia la divisione locale dei vigili del fuoco si chiama Germania 1, sono tutti alti, atletici, bianchi e biondi e non ci aiutano un gran che. Scopriamo che in tutto il territorio municipale di Valdivia è proibito il campeggio libero, aspettiamo che scenda il buio per aprire la tenda in un angolo di un parco pubblico e durante la notte ci facciamo svegliare dalla polizia, chiamata da un residente delle tante villette a schiera del quartiere.

Palafitte a Castro

Palafitte a Castro

Lasciamo Valdivia e ci dirigiamo verso quello che per me rimarrà probabilmente a lungo il punto più a sud del pianeta che ho potuto toccare: l’isola di Chiloé. L’isola è collegata al continente da un traghetto giallo, sulla sinistra spuntano all’orizzonte le montagne aguzze della cordigliera coperte di neve, a qualche centinaia di metri nuota una balena ed è emozionante vederla spruzzare l’acqua in aria, sull’isola ci accoglie una spiaggia di sabbia nera abitata da una colonia di gabbiani.

L’isola di Chiloé è semplicemente meravigliosa.

Fatta di piccoli villaggi con case di legno colorate e colline che ricordano il Chianti e la Toscana: pascoli, cipressi, querce, circondate dall’oceano, le cui acque si divertono a formare insenature e fiordi. La sera si alza una fitta nebbiolina sulla cittadina di Ancud, le case di legno scompaiono tra l’umidità e il silenzio è rotto solo dai passi di qualcuno che in lontananza ritorna verso casa. Adesso l’isola ricorda di più le Highlands scozzesi. Manca solo un bicchiere di Whysky accanto alla stufa di ferro che scalda la cucina di legno dove siamo ospitati.

L’indomani autostop verso la Pinguinera, attraverso allevamenti bradi di bovini, paludi stagnose e colonie di gabbiani. Di pinguini però ne vediamo ben pochi: siamo a fine stagione, quasi tutti sono già emigrati lontano, ne resta solo una mezza dozzina, che indifferente sugli scogli osserva il gommone, carico di turisti e macchine fotografiche che si avvicina. Sul percorso incrociamo anche una lontra a caccia di pesci per il pranzo. Dopo la Pinguinera il nostro viaggio prosegue tra le colline dolci e l’odore di legna che brucia nelle stufe. «La maggior parte della gente lavora con la pesca, negli allevamenti di salmoni e frutti di mare» ci racconta Marco, responsabile di cantiere in un allevamento di cozze, mentre ci accompagna in macchina.

«I salmoni sono praticamente tutti nelle mani di aziende norvegesi, i vari frutti di mare invece sono proprietà di cileni, che rivendono tutto all’estero: Stati Uniti, Canada, Giappone o Cina».

Per il resto l’economia è di sussistenza: pesca privata, coltivazioni di patate o allevamenti di pecore. «C’è ancora molto da fare qui» continua Marco «c’è da sviluppare il turismo, ci sono molte attrazioni, feste popolari ricche di tradizione, quasi irraggiungibili per chi non è del posto.» Nella capitale Castro facciamo un giro in mezzo alle palafitte, costruzioni antichissime che si conservano fino ad oggi. Quando qualche giorno dopo arriva il momento di ripartire chiudo lo zaino con lentezza e poca voglia, l’idea di lasciare l’isola non mi attira per nulla. Nella mia testa questo è un arrivederci e non un addio, sento che sto abbandonando un ennesimo pezzo di cuore da queste parti, e questo mio nuovo profondo sud mi si imprimerà negli occhi e nello spirito per molto tempo ancora.

 

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