di Giusi Affronti
Palermo, 1988 – È notte e nel silenzio buio le cicale friniscono. Un uomo a terra, solo, freddato, “morto ammazzato”, il rivolo denso di sangue, la solita macchina vicino. Un Omicidio targato Palermo, fissato sulla celluloide in bianco e nero. Letizia Battaglia trema per tutto il viaggio, correndo a perdifiato fra le strade e i vicoli, in Vespa per arrivare prima possibile. Non ti abitui mai all’orrore, anche se i tuoi occhi lo incontrano troppo spesso: devi ingoiare la nausea e la rabbia. Nella testa si accalcano le urla dei parenti, i pianti delle donne e dei bambini, le voci dei carabinieri, le mosche che ronzano e le sirene che attraversano la città.
«È uno sporco lavoro» ma deve pur succedere che il fotoreporter inquadri, metta a fuoco e scatti con la sua rumorosa Minolta.
Senza sciatteria, quel che si può. Magari non le concederanno il tempo di una seconda fotografia. Non si nasconde mai dietro l’apparecchio, Letizia Battaglia c’è, anima e corpo. Al teleobiettivo preferisce il grandangolo, sprezzante di chi, come Leoluca Bagarella in manette, le sferra un calcio o le sputa in faccia. La sua femmina e bionda presenza è prepotente, passionale, partigiana. Agisce con generosa umanità e rispetto. Non è mera fotografia di cronaca, è scrivere per immagini la storia di una guerra civile, di vincitori mafiosi e di vinti dai corpi ancora caldi. Sulla strada e dalle barricate:
«Ero dentro una guerra che non sapevamo ancora che avremmo perso», ripete Letizia con voce amara.
Sono anni di piombo e di polvere bianca, di assassini politici e regolamenti di conti. E odorano di morte. Tra il 1978 e il 1992, Palermo è una struggente Spoon River con un bilancio di circa mille “morti ammazzati”. Letizia Battaglia è sempre lì a fotografare per il quotidiano L’Ora boss e picciotti, poliziotti, carabinieri, colonnelli, procuratori della Repubblica, prefetti, segretari regionali del PCI, magistrati antimafia e politici. La domenica non esisteva, nessuna festa esisteva. Non ha studiato la tecnica, ma ha intuizione e istinto per la verità delle cose e degli uomini. O, meglio, delle donne.
La fotografia è uno strumento di militanza e di denuncia.
Puntare l’obiettivo della macchina fotografica equivale a scegliere da che parte stare, a schierarsi contro la violenza e il sopruso, a fianco delle vittime, dei diseredati e dei ribelli. Dietro a quel clic, in quella notte del 1988, non c’è il delitto di un volto tumefatto dai colpi di una 357 Magnum. C’è una storia collettiva, di quella Palermo che nelle parole di Letizia Battaglia appare come il centro dell’universo; c’è la cronaca della Sicilia e il fallimento di uno Stato.
Letizia Battaglia non dice l’anno, dice <
Attraverso la fotografia, scattando ad oggi oltre seimila immagini, Letizia Battaglia si guadagna il pane per vivere e la libertà di vivere lottando per quello in cui crede: la giustizia soprattutto.
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Rabbia, sì, tanta. Mai rassegnazione.
Nemmeno davanti alla notizia trasmessa dal telegiornale della strage di Capaci, quel 23 maggio 1992. È la prima volta che la fotoreporter Battaglia non raggiunge il luogo dell’esplosione, sull’autostrada A29, a pochi chilometri dalla nostra Palermo. Letizia va al pronto soccorso in un eccesso di disperata ingenuità. Purtroppo, però, a volte la Storia è più forte di alcune Resistenze.
Letizia conserva lo sguardo luminoso di quella bambina che è stata all’età di sette anni a Trento, correndo veloce in bicicletta. Oggi quasi arrossisce e sorride teneramente, sotto un caschetto di capelli rossi, immaginando e recitando i versi di Lawrence Ferlinghetti, poeta della Beat Generation: «Come lie with me and be my love […], and let our two selves speak all night under the cypress tree, without making love».
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