di Antonio Marafioti, tratto da Altreconomia
«L’Italia destina il 15% del Pil proprio al settore pensioni. La considerazione è che spendiamo tanto e male. Bisogna ragionare su una riforma delle pensioni che miri a: adeguatezza delle prestazioni, equità e naturalmente mantenga la sostenibilità economico-finanziaria del sistema». Matteo Jessoula, professore associato di Scienza Politica all’Università Statale di Milano e membro del Comitato scientifico dei “Social Cohesion Days”, spiega come le scelte politiche in materia previdenziale influenzino la coesione sociale all’interno del Paese. Con un sistema pensionistico che è il frutto di un patto intergenerazionale, ma che oggi ha bisogno di adeguarsi al nuovo mercato del lavoro e a un contesto economico a bassa crescita.
Come influiscono le scelte di politica pensionistica sulla Coesione sociale di uno Stato?
Influiscono in maniera decisiva se pensiamo che negli anni Cinquanta in Italia, come in molti altri paesi europei, la povertà tra gli anziani era molto diffusa e oggi il tasso di povertà e di esclusione sociale tra gli anziani è più basso rispetto a quello della la popolazione in generale, a livello della media Ue28. In media ci sono 6-7 punti di scarto fra la percentuale di povertà ed esclusione sociale fra gli anziani, che si aggira attorno al 18%, e quella della popolazione nel suo complesso, che è tra il 24% e il 25%. In Italia le cifre sono 22% tra gli anziani contro il 28% nell’intera popolazione. Il contributo alla coesione sociale è il portato di un’evoluzione dei sistemi pensionistici in tutti i Paesi europei. Nella maggioranza degli Stati membri quella delle pensioni è la prima voce della spesa sociale e, di conseguenza, la prima voce del bilancio pubblico. Quasi il 50% della spesa sociale complessiva è impiegata per le pensioni, in Italia siamo addirittura oltre quel livello.
Il sistema pensionistico influisce sulla coesione sociale da un lato, perché tutela contro un rischio generalizzato, nel senso che mentre disoccupazione e infortunio sul lavoro possono capitare ad alcuni, il rischio di invecchiare riguarda tutti; dall’altro perché i sistemi pensionistici, specie quelli pubblici “a ripartizione”, gettano ponti fra le generazioni.
L’Italia presenta un modello di welfare sud europeo in cui le famiglie rappresentano uno dei maggiori ammortizzatori sociali. Quanto pesano le pensioni su questo schema?
In Italia le famiglie svolgono questa funzione di redistribuzione interna che chiaramente solleva degli importanti problemi di equità, perché la redistribuzione interna avviene in base alle risorse disponibili dei diversi nuclei familiari, mentre in altri paesi è lo Stato ad avere una funzione riequilibratrice rispetto ai flussi redistributivi, con chiare implicazioni per l’equità distributiva.
Le pensioni in questo schema pesano molto, se si pensa che il nostro modello di welfare è al contempo sia un modello “familista”, che assegna importanti funzioni di welfare alla famiglia, sia un welfare state “pensionistico”, che stanzia circa il 60% della spesa sociale complessiva al settore delle pensioni. Questa espansione della spesa previdenziale in rapporto alla spesa sociale complessiva o in rapporto al Pil, su cui pesa per il 15%, comprime le risorse a disposizione per altri rischi e altri settori della protezione sociale che invece dovrebbero essere sviluppati per ridurre il sovraccarico di funzioni sulla famiglia.
Quali sono questi settori di protezione sociale?
Mi riferisco al settore dei servizi sociali, in particolare quelli per la prima infanzia, che hanno importanti implicazioni di genere, e ai servizi per malattie croniche e assistenza nei casi di non-autosufficienza che investono le famiglie. Se mancano servizi sociali di tipo pubblico, i carichi continueranno ad essere sostenuti dalle famiglie quali enti redistributori ed erogatori di servizi di prima istanza, che assolvono queste funzioni con grave ripercussioni sulla capacità di autonomia soprattutto della componente femminile all’interno del nucleo familiare. Un altro settore che soffre della limitata disponibilità di risorse sono le prestazioni anti-povertà, che sarebbero particolarmente importanti per i giovani nella fase di uscita dalla famiglia di origine ma non solo.
Rispetto a ciò che dice la soluzione sembrerebbe una ricalibratura delle risorse del settore pensionistico verso altri settori del welfare.
Il problema non sono le pensioni ma, nel caso italiano, uno sbilanciamento funzionale del welfare state. Avendo assegnato al settore pensionistico una quota consistente di risorse, che tra l’altro hanno una dinamica incrementale a differenza di quelle per la disoccupazione, si sono compresse le risorse disponibili per altri settori. Il problema principale, tuttavia, rispetto alla ricalibratura non è economico, bensì la mancanza di effettiva volontà politica. Diversi studi hanno dimostrato come l’introduzione di uno schema di reddito minimo di sostegno alle persone in condizioni di bisogno, avrebbe un impatto sul Pil fra lo 0,2 e lo 0,4%. Il che chiaramente indica che c’è spazio per questa forma di intervento, visto che stiamo parlando di quote di spesa assolutamente incomparabili con quelle per le pensioni che ammontano a quasi 300 miliardi di euro.
La discussione sul reddito minimo è sempre più intensa. Recentemente anche Tito Boeri, numero uno dell’Inps, e Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, sono arrivati a una diatriba a distanza.
È ancora azzardato parlare della proposta di Boeri. É invece certo che oggi le forme di tutela nella fase di vita attiva sono forme assicurative che vengono erogate a fronte di un contributo e di un periodo di assicurazione. Quello che manca nel sistema italiano, unico caso in Europa insieme alla Grecia, è uno schema di contrasto alla povertà di tipo redistributivo ispirato al principio dell’assistenza sociale a cui accederebbero le persone in cerca di prima occupazione e tutti quei lavoratori che sono stati occupati per un periodo troppo breve per riuscire ad accedere ai sussidi di tipo assicurativo. Chiaramente, qualora ci si dovesse decidere ad adottare misure di reddito minimo, è necessario collegarle a programmi di inserimento lavorativo e/o sociale, che è la modalità classica di funzionamento degli schemi già in essere in altri Paesi.
A proposito di problemi intergenerazionali, quelli sulle pensioni toccano i nonni, i padri e i figli. Iniziamo a parlare di quelli dei primi che spesso hanno pensioni così basse da non riuscire ad arrivare a fine mese. Quale potrebbe essere una riforma che migliori le loro condizioni?
Una percentuale superiore al 40% di pensionati che hanno un assegno pensionistico inferiore ai mille euro al mese è un dato preoccupante, ma anche paradossale se si pensa che l’Italia destina il 15% del Pil proprio al settore pensioni. La considerazione è che spendiamo tanto e male, nel senso che le modalità di funzionamento del sistema pensionistico per gli attuali pensionati, che sono quelli andati in pensione con il vecchio sistema retributivo, producono degli esiti insoddisfacenti dal punto di vista dell’equità distributiva. C’è un’elevatissima sperequazione, cioè un gap molto elevato fra le pensioni basse e quelle molto alte. A livello europeo l’Italia è tra i sei paesi in cui è più elevata la disuguaglianza sia nella fase di vita attiva, tra i redditi da lavoro, sia nella fase di quiescenza e dunque tra i redditi da pensione. Tassi più elevati si riscontrano soltanto in Portogallo, Croazia, Cipro, Francia, Grecia e Irlanda. Anche se l’urgenza c’è ed è reale, per i lavoratori già in pensione non si può fare tantissimo per ragioni di ordine addirittura costituzionale. Sono stati tentati alcuni interventi volti a limitare questa sperequazione delle risorse tramite contributi di solidarietà, ma la Corte Costituzionale li ha sempre sanzionati. Stiamo parlando di persone che sul reddito atteso nel pensionamento hanno strutturato tutta una serie di scelte di lungo periodo relative al rapporto fra spese e consumi, quindi modificarle ex-post sarebbe una violazione al contrario di quel ponte generazionale di cui parlavamo prima.
Una soluzione praticabile e legale quale potrebbe essere?
Un intervento valido, in prospettiva strutturale e non solo temporanea, sarebbe la sterilizzazione dell’indicizzazione, cioè l’adeguamento delle pensioni di anno in anno. Sterilizzando l’indicizzazione delle pensioni più alte si possono recuperare risorse, anche se non molte. E lo si dovrebbe fare per dare un segnale, per muovere verso sistemi pensionistici più redistributivi che non consentano questo livello di sperequazione fra le prestazioni. Perché nel breve periodo le risorse sono vincolate ai diritti soggettivi esistenti, quindi i margini di manovra non sono ampi.
Parliamo dei padri. Per loro i tempi di accesso alla pensione si sono prolungati a dismisura negli ultimi anni.
Prima dell’introduzione delle ultime tre riforme sulle pensioni, Sacconi I e II e Fornero, in Italia, in media, si andava in pensione prima degli altri Paesi europei. Ancora oggi l’età di accesso al pensionamento nel nostro Paese è un po’ più bassa della media europea. La pressione che si è generata e che ha richiamato l’attenzione degli osservatori, degli esperti e delle parti sociali ha riguardato il radicale e rapidissimo innalzamento dell’età pensionabile combinato con l’irrigidimento e innalzamento dei requisiti di accesso alla pensione. L’età pensionabile per le dipendenti del settore pubblico è aumentata di cinque anni nell’arco di due anni, tra il 2010 e il 2012, quella per le dipendenti del settore privato ha raggiunto incrementi pari a sei anni nel giro di sei anni, una riforma che per la sua velocità ha destato preoccupazioni anche in sede europea, benché sia stato in parte richiesto proprio da Bruxelles. Le politiche di progressivo innalzamento dei requisiti per il pensionamento sono comuni a molti Paesi europei. Sono misure che si adeguano all’invecchiamento della popolazione nel medio-lungo periodo: ad esempio la Polonia ha approvato una riforma molto simile alla nostra di innalzamento di cinque anni dell’età pensionabile per le donne lungo un periodo di trent’anni. L’italia lo fa in sei in una condizione economica e occupazionale critica. Se l’economia è in fase di recessione prolungata come quella italiana, se non permettiamo il ricambio della forza lavoro innalzando l’età pensionabile, i giovani restano fuori. L’effetto sugli anni post-crisi e post riforme, in Italia è molto chiaro: c’è un milione in più di occupati sopra i cinquant’anni e c’è un milione in meno di giovani al lavoro. Nel breve periodo in fase di recessione economica l’effetto non può che essere quello. In più si determina una serie di problemi di altra natura nel senso che se non si accompagna l’innalzamento dell’età pensionabile con politiche di invecchiamento attivo, il risultato è quello che sta già verificando: l’aumento della disoccupazione tra gli anziani.
Che, insieme alla disoccupazione giovanile, presenta tassi di forte crescita negli ultimi anni.
La disoccupazione tra gli anziani sopra i cinquant’anni è rimasta per trent’anni praticamente stabile in termini assoluti oscillando fra le 150mila e le 200mila unità. A partire dal 2008 le cifre sono cresciute rapidamente fino sfiorare le 500mila unità, e senza contare i cassintegrati. Sappiamo benissimo che la disoccupazione fra gli anziani non è come quella a trent’anni, ma comporta un periodo di ricerca del lavoro molto più lungo, e soprattutto il rischio che non si riesca ad accedere di nuovo all’occupazione. Una possibile soluzione è quella di prevedere adeguati sussidi, e meccanismi di invecchiamento attivo per cercare di non creare disoccupazione in età avanzata.
Poi c’è una sfida tutta italiana che deriva da quel modello di welfare sud europeo di cui si parlava prima e dalla rapidità delle riforme che è la sfida sulle donne.
L’età pensionabile è stata elevata di sei anni nei prossimi sei anni, quindi nel 2018 si toccherà 66 anni e 7 mesi per tutte le categorie, e nel 2021 dovrà essere almeno 67 anni se non di più. La rapidità di questa progressione di requisiti per il pensionamento comporterà una maggiore pressione sulle famiglie in termini di svolgimento di questi servizi di cura di cui prima si occupavano le famiglie e soprattutto le donne.
Il modello familistico rappresenta comunque una peculiarità italiana da cui ci si vuole affrancare.
Va benissimo abbandonare il familismo (anzi, bisogna abbandonarlo..) ma è necessario costruire le alternative, il che significa sviluppare le tutele per la non autosufficienza e un sistema inclusivo di servizi per l’infanzia. Costruire questi servizi nel breve periodo in condizioni di recessione economica chiaramente è molto complicato. Su questo occorre porre l’attenzione insieme alla reintroduzione di forme flessibili al pensionamento: si può anche pensare che alcuni lavoratori con una carriera più lunga, possano anche accettare una pensione leggermente inferiore e andare in pensione prima. Le sfide che si aprono sono flessibilità del pensionamento, quindi regole pensionistiche, investimento in politiche di invecchiamento attivo quali formazione, life long learning, e infine sviluppo definitivo dei servizi sociali in termini di politiche dell’infanzia e dell’autosufficienza che sono ferme da anni. Qui un paese serio dovrebbe avere il coraggio di attivare quei meccanismi di ricalibratura che prevedono che parte dei risparmi sulle pensioni deve andare a queste politiche di “investimento sociale”.
Parliamo di giovani. Si dice che non vedranno mai una pensione. È vero?
In realtà, soprattutto dopo le tre riforme recenti, il rischio non è tanto quello di non avere la pensione quanto quello dell’età di accesso alla pensione che è un rischio di tutt’altra natura, nel senso che le riforme recenti hanno innalzato molto velocemente nel breve periodo l’età pensionabile, ristretto i requisiti di accesso al pensionamento, nonché agganciato automaticamente questi ultimi ai cambiamenti demografici. L’età pensionabile prevista per il 2045 sfiora i 70 anni. In quelle condizioni il sistema riesce a combinare sostenibilità economico-finanziaria e adeguatezza delle prestazioni perché a età di pensionamento più elevate corrispondono livelli di pensione significativamente più elevati con il sistema contributivo. Il nodo da sciogliere riguarda però l’equità di un sistema che presenta due caratteristiche fondamentali: età di accesso al pensionamento molto elevate, ridottissima capacità distributiva nel pilastro pensionistico pubblico. Entrambi questi elementi vanno a svantaggio di categorie a basso reddito, che tipicamente fanno lavori maggiormente faticosi, con maggiori impatti sulla salute e che hanno minori prospettive di vita. Se a questo si aggiunge che in un sistema di tipo contributivo la capacità redistributiva del sistema è affidata all’assegno sociale, che oggi è inferiore ai 500 euro al mese, si capisce come il combinato di questi due elementi ha forti implicazioni sull’equità e sulla coesione sociale. Ci si avvia verso un modello nel quale il problema principale non è quello di avere una pensione modesta in termini di importo monetario, ma è quanti accederanno alla pensione, per quanto tempo rimarranno in pensione, e soprattutto come si distribuiranno questi anni di pensionamento tra le diverse fasce sociali. Se ci si immagina che si andrà in pensione a 70 anni, bisogna valutare quanti anni in media i lavoratori a basso reddito e con lavori faticosi godranno di un effettivo pensionamento.
Che importanza avranno le pensioni complementari?
Di fatto bisogna avviare un ragionamento, che nel dibattito italiano non è stato aggiornato dai tempi delle riforme degli anni Novanta e dei primi anni Duemila. Mi riferisco alla riforma Amato ’92-’93, e alla riforma Dini ’95, oltre agli interventi del 2005 (riforma Maroni-Tremonti) e 2006 (riforma Damiano) che hanno completamente ristrutturato il modello pensionistico. Sia nel pilastro pubblico, con la transizione al metodo contributivo con limitatissima redistribuzione, sia con il lancio della previdenza complementare. L’idea di fondo era che nel 2040 circa il lavoratore avesse due pensioni: quella pubblica, che doveva rimpiazzare il 55-60% dell’ultima retribuzione, e quella complementare che avrebbe aggiunto un 15/20%, mantenendo perciò di fatto inalterato il reddito pensionistico rispetto al reddito da lavoro, nonostante le misure di contenimento della spesa. Ebbene, oggi il dibattito deve muovere da alcuni dati fondamentali. Il primo è che sono passati vent’anni da quelle riforme; il secondo dato è a due decenni dalle prime riforme gli iscritti alla previdenza complementare sono 6 milioni su circa 23 milioni di occupati. Quindi il progetto lanciato negli anni Novanta con il quale si immaginava il pensionato del futuro che potesse utilizzare la pensione pubblica e la “pensione di scorta” tramite un sistema di previdenza complementare ad adesione volontaria, ad oggi è fallito. Questo non vuol dire che la previdenza complementare non possa giocare un ruolo, ma bisogna ripensarlo se a vent’anni di distanza abbiamo 6 milioni di assicurati su 23 milioni di occupati.
Che sicuramente saranno lavoratori con garanzie già solide.
Esatto. E questo è un problema nel problema: la previdenza complementare è diffusa soltanto in alcuni settori, cioè settori altamente sindacalizzati, settori centrali dell’economia, tipicamente industriali, aziende di grandi dimensioni, e soprattutto tra lavoratori con contratti di lavoro “standard”, quindi a tempo pieno e indeterminato. Questi lavoratori con una carriera sostanzialmente ininterrotta e 40 anni di contribuzione percepiranno una pensione pubblica pari all’80% percento dell’ultima retribuzione, proprio perché andranno in pensione molto tardi, una pensione complementare del 25%, con un tasso di sostituzione complessivo che raggiunge il 105% dell’ultima retribuzione. Quindi il “lavoratore standard” godrà di una pensione più elevata rispetto alla stessa retribuzione. Gli altri lavoratori, tipicamente occupati in aziende piccole con contratti a termine e dunque carriere più frammentate, rischiano di avere una pensione pubblica più bassa, attorno al 60%, senza il contributo della previdenza complementare, perchè di solito non si iscrivono a fondi integrativi. Dunque, non soltanto la platea di membri è ridotta rispetto agli occupati totali, ma la previdenza complementare per come è strutturata oggi di fatto protegge quei lavoratori che hanno meno bisogno di essere protetti.
Sono cambiate molte cose nel mondo del lavoro dal 1995.
Vent’anni sono un’era geologica per il sistema pensionistico. Solo un dato: la riforma Dini, considerata la rivoluzione copernicana del sistema pensionistico italiano, venne adottata ventisei anni dopo la grande riforma del ’69 che aveva generalizzato il sistema retributivo introducendo pensioni pari all’80% dell’ultima retribuzione. Ventisei anni tra la grande riforma espansiva e il grande intervento sottrattivo. Adesso ne son passati già venti dalla riforma Dini, nel frattempo le condizioni economiche sono modificate, ma soprattutto si è modificato il mercato del lavoro con un significativo incremento dell’occupazione flessibili e “atipica”, cioè tramite contratti a termine o a tempo parziale. Nel 1995 il mercato del lavoro aveva pochissima flessibilità e i contratti atipici erano praticamente sconosciuti: basti pensare che il primo intervento di effettiva flessibilizzazione del mercato del lavoro è arrivato nel ’97. La riforma Dini è stata pensata per un’economia e un modello di carriera che è ancora quello dell’epoca industriale: una carriera lunga, spesso ininterrotta per 35-40 anni fino al pensionamento. Queste condizioni di contesto non ci sono più e le decisioni di politica pensionistica di previdenza pubblica e complementare, dopo una fase decisionale (tra la metà degli anni Novanta e Duemila) più o meno integrata, hanno seguito due percorsi diversi e soprattutto sulla previdenza complementare non si interviene più dal 2007, se si eccettuano le recenti misure del governo Renzi che rischiano di ridurre le risorse a disposizione del sistema di previdenza complementare. Alla luce di quanto detto prima, il sistema richiede un ripensamento che tocchi sia la previdenza pubblica che la previdenza complementare, e soprattutto i punti di contatto, l’interazione, fra le due.
Quindi da quali considerazioni deve partire un modello pensionistico valido?
Deve coniugare tre elementi: sostenibilità economico-finanziaria, adeguatezza dei trattamenti ed equità. La sostenibilità è un obiettivo che è stato raggiunto: la spesa pensionistica è più elevata degli altri paesi europei, ma da qui al 2050 è prevista rimanere sostanzialmente stabile, con alcune oscillazioni: diminuzione di 1 punto percentuale sul Pil dal 2014 al 2026, successivo aumento di un punto e mezzo sul Pil, infine una nuova diminuzione dopo il 2035-2040. Quindi, dal punto di vista della sostenibilità economico-finanziaria il sistema pensionistico italiano era riconosciuto come valido dalle istituzioni europee già da prima delle tre riforme recenti. Il secondo punto su cui si è raggiunto un “equilibrio imperfetto” è l’adeguatezza. Almeno per i lavoratori con carriera continuativa e prolungata problemi non ce ne dovrebbero essere: andare in pensione tardi mitiga le preoccupazioni di qualche anno fa sul livello delle pensioni. Il problema vero è il terzo obiettivo, che non entra mai, o quasi mai, nel dibattito pubblico italiano quando si ragiona di pensioni future: l’equità. Questo tema coinvolge due aspetti, il primo riguarda l’adeguatezza del livello delle pensioni per diverse categorie di lavoratori, il secondo concerne la durata del pensionamento soprattutto rispetto all’aspettativa di vita delle diverse fasce della popolazione.
Può spiegare meglio quest’ultimo punto?
In un contesto di elevata flessibilità del mercato del lavoro è necessario, per garantire l’adeguatezza e la sostenibilità economica, muovere verso schemi pubblici maggiormente redistributivi, che non riflettano in modo sistematico le dinamiche di carriera dentro il sistema pensionistico. E questo è un punto in cui il dibattito italiano è sordo nel senso che c’è una sostanziale convergenza dei principali esperti circa quello che io definisco il “dogma” del metodo contributivo. Viene usato il termine di equità attuariale, come se il metodo contributivo che fa corrispondere i contributi effettivamente versati alle prestazioni godute sia l’unico effettivamente equo. Questo sistema è equo per il contribuente medio, cioè per quell’individuo che ha una durata della vita pari alla durata della vita media. È iniquo in vantaggio per tutti coloro che vivono di più dell’individuo medio, è iniquo in svantaggio per quelli che vivono di meno. Quindi, più che equità attuariale la chiamerei neutralità attuariale, cioè corrispondenza tra contributi e prestazioni, sapendo che questa corrispondenza esiste soltanto per l’individuo medio. E siccome le aspettative di vita non si distribuiscono in modo omogeneo nella popolazione, il metodo contributivo ha delle grandi lacune sul piano distributivo e dell’equità. In un’epoca di risorse scarse in cui la popolazione sopra i 65 anni aumenterà di 6 milioni da qui al 2050, la quota di risorse pro capite diminuirà. La questione cruciale è perciò come verranno distribuite tale risorse, tramite il sistema pensionistico, nei prossimi decenni.
Ci sono modelli ai quali ispirarsi?
Si possono immaginare diverse riforme nel senso di una maggiore capacità redistributiva del sistema pensionistico pubblico. Si può muovere verso una pensione di base uguale per tutti, come esiste in Olanda, oppure immaginare una metodo simile a quello degli Stati Uniti in cui i tassi di sostituzione, cioè il livello delle pensioni rispetto alla retribuzione precedente, siano progressivi. In questo caso la pensione è più elevata in rapporto alla retribuzione quando la retribuzione è bassa; e la pensione è meno elevata in rapporto alla retribuzione quando la retribuzione è alta. Un modello che gioca sui livelli minimi e massimi che è paradossalmente più redistributivo di quello italiano. Si può pensare, infine, di re-introdurre una sorta di “integrazione al minimo” delle pensioni contributive, una misura già inclusa in alcune proposte di legge presentate in parlamento.
A seconda della scelta che si opera sul modello pensionistico pubblico, pensione di base o legata al reddito con minimi e massimi ovvero re-introduzione di una pensione minima, chiaramente devono essere compiute anche delle scelte sulla previdenza complementare. Pur se affidata alla gestione delle parti sociali, infatti, le decisioni su sistema di previdenza complementare devono infatti essere compiute in modo “integrato” con la scelte fondamentali relative al pilastro pubblico. Di fatto, preso atto delle lacune di copertura degli schemi complementari, bisogna riflettere in primo luogo sul “chi” tali schemi devono tutelare in futuro – tutti i lavoratori, prevalentemente quelli a reddito più elevato, ecc… – e agire con scelte conseguenti specie con riferimento alle modalità dell’adesione (solo volontaria, obbligatoria, vincolante tramite contrattazione collettiva, ecc..)
Uno dei dati più sorprendenti sulle pensioni in Italia è quello diramato dall’Istat secondo cui oltre il 46% dei pensionati in Italia percepisce meno di mille euro al mese. Ci sono, secondo lei, dei numeri più preoccupanti?
Sul versante della sostenibilità è preoccupante l’aumento di 6 milioni di over 65, nei prossimi sei anni. E ancora il basso coinvolgimento dei lavoratori italiani nella previdenza complementare che, come abbiamo detto, sono 6 milioni di iscritti su 23 milioni di occupati. Infine ci sono i dati che non si conoscono, o non sono disponibili in maniera sistematica, e riguardano la differenza dell’aspettativa di vita tra le diverse fasce di reddito della popolazione. Dati provenienti da studi britannici dicono tuttavia che tra due diversi quartieri di Londra, ad alto e basso reddito, il gap sull’aspettativa di vita è di 18 anni.
Sul fronte pensionistico siamo in regola con le raccomandazioni europee?
L’Ue sta avviando una serie di riflessioni relative all’Italia sul versante dei requisiti di accesso al pensionamento. Il problema riguarda la capacità dell’Unione di intervenire in maniera consistente su questo tipo di politiche, nel senso che le politiche economiche hanno i vincoli “duri” dei trattati, mentre quelle sociali poggiano su raccomandazioni e linee guida “soft”. Il settore pensionistico è quello in cui più si nota questo sbilanciamento di competenze delle Ue, che riesce a incidere in maniera importante sul versante della sostenibilità economico-finanziaria e in maniera più leggera sul lato dell’adeguatezza e dell’equità. Ciò detto, anche a livello europeo le cose si muovono perché la Commissione non è un ente monolitico bensì composto da direzioni generali con orientamenti politici differenti. Laddove la DG Ecfn ha fatto la voce grossa rispetto agli equilibri economico-finanziari, la DG Occupazione e Affari Sociali è stata spiazzata negli anni della crisi e ha cercato dal 2012-2013 di recuperare terreno. A fine anno è atteso un suo report focalizzato sull’adeguatezza dei sistemi pensionistici (Pension Adequacy Report) in un contesto trasformato dalla crisi. Inoltre, circa la questione della ricalibratura menzionata poc’anzi, va ricordato che l’Italia ha ricevuto una raccomandazione specifica da parte della Commissione relativa alla necessità di istituire uno schema di reddito minimo nazionale e di sviluppare i servizi sociali. Ma è chiaro che anche se Bruxelles cerca di spingere i governi in alcune direzioni, rimane fondamentale la volontà degli attori nazionali di mobilitarsi.
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