di Valerio Polani, tratto da Il Mitte
Un salto nel passato, nei lontani anni ’20 addirittura. Poi di nuovo uno, nel presente – forse il futuro?- fino ad oggi. Un filo invisibile che collega Broadway e Berlino, e che passa per le mani di un australiano di Melbourne.
Lui è Barrie Kosky, e il progetto è tra i più romantici di sempre.
Stiamo parlando della riscoperta dell’arte degenerata dell’opera e dell’operetta degli autori, quasi tutti ebrei, messi al bando ai tempi del nazismo. Dalle opere non convenzionali di Monteverdi e Puccini, fino ai capolavori della corrente mittle-europea di Emmerich Kàlmàn o Oscar Straus, di Paul Abraham e Arnold Schoenberg.
Oltre a Budapest e a Vienna infatti, fin dai primi anni venti all’avvento del nazismo, fu proprio a Berlino che, grazie alla presenza e alla musica di numerosi compositori ebrei, riscosse particolare successo il movimento dell’operetta. D’altronde, la città non aveva eguali per creatività e cosmopolitismo, e subiva quotidianamente le influenze dei migliori artisti d’Europa.
Nel ’32 però, con l’ascesa del nazismo, le melodie tipiche delle opere non vennero ritenute idonee alle idee totalitarie di Hitler, specie se poi erano frutto di compositori ebrei. E fu così che, opere quali “Ballo al Savoy” di Abraham, o “Eine Frau, die weiss was Sie will” di Straus furono bandite a pochi mesi dal giuramento del fuhrer al Reichstag.
Opere non conformi ai concetti nazisti.
I compositori fuggirono a Vienna, poi a Parigi, poi in America addirittura. Straus poi ottenne persino una certa notorietà a Hollywood, grazie anche alla bravura di Fritzy Massaro, soprano ebrea viennese che portò con sé oltre oceano.
Ad oggi, sono passati 82 anni, e quel filo invisibile ora è il connettore naturale tra il passato e il presente.
Ad un’estremità, abbiamo gli anni d’oro dell’operetta fino all’arrivo delle camice brune, dall’altra parte Barrie Kosky e una Berlino che mai come ora sembra essere tornata il centro creativo dell’Europa, del cosmopolitismo, della libertà d’espressione nell’arte e della multiculturalità.
In mezzo, a tenere il filo più teso che mai, la Komische Oper, il teatro dove tutto nacque e che all’epoca era chiamato Metropol-Theater; sopravvissuta a due guerre mondiali e che ospiterà le opere del direttore australiano affinché tutto riparta dal punto in cui si è fermato.
Come se il tempo non fosse trascorso mai.
Come se la Berlino di quel periodo fosse la Berlino di oggi, e perché in realtà un po’, in fondo in fondo si assomigliano, e questo progetto non è né un’operazione ricordo né un omaggio al politically correct imperante nella Germania post guerra, ma un’idea che racconta anche qualcosa, o forse di più, della Berlino del 2015 che viviamo oggi.
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