di Flavia Zarba, IRPI
Eco-giustizia è fatta. Da ora in poi gli ecomafiosi e gli ecocriminali non la faranno più franca: grazie ad una norma come questa sarà possibile colpire con grande efficacia chi fino ad oggi ha inquinato l’ambiente in cui viviamo contando sull’impunità.
Questo il grido di Legambiente e Libera all’indomani dell’approvazione definitiva del testo di legge sui reati contro l’ambiente, un pacchetto di misure entrato già in vigore che prevede il carcere, allunga i termini di prescrizione, aumenta le pene, offre anche la possibilità di ravvedimento operoso e introduce la confisca preventiva e l’aggravante mafiosa. Non mancano però le incertezze. Vediamo quali.
Quali sono gli eco-reati? Definiti in modo improprio come eco-reati sono stati introdotti in un autonomo Titolo del Codice Penale, il VI bis, dedicato esclusivamente ai reati contro l’ambiente.
Si tratta, nello specifico, del reato di inquinamento ambientale, del reato di disastro ambientale, di quello di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività e di quello di impedimento del controllo o di omessa bonifica. Tra i più discussi il reato “disastro ambientale” di cui si macchia chi provoca “un’alterazione grave o irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema” e offende la pubblica incolumità rischiando così la reclusione da cinque a 15 anni.
Afferma la Onlus “Il Gruppo di intervento giuridico”:
“Gli ecoreati sono delitti (non contravvenzioni) e qualsiasi studente di giurisprudenza sa benissimo che, se un evento non è prevedibile ed evitabile, e se qualcuno, in buona fede, si è sempre attenuto alle leggi, ed ha agito con diligenza e prudenza non rischia niente. Manca, infatti, l’elemento soggettivo, dolo o colpa (imprudenza, negligenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline), necessario per l’integrazione del delitto”.
Ma che cosa si intende esattamente per prevedibilità ed evitabilità? La logica comune vuole, ancor prima dei diktat dei manuali di diritto penale, che un evento è imprevedibile e inevitabile quando è compiuto da qualcuno che ha agito in buona fede, senza poter prevedere ciò che sarebbe accaduto poi. Quindi se un disastro ambientale è imprevedibile nessuno può rispondere penalmente per non averlo evitato. E se è vero che alla prevedibilità ci pensano le leggi e all’evitabilità l’uomo, allora la licenza dovrebbe prevenire i danni e l’azienda, rispettando le rigorose prescrizioni, dovrebbe evitarli con la conseguenza che non potrà mai essere punita, per un disastro causato da un’attività autorizzata, anche se intrinsecamente pericolosa.
Come venivano puniti i disastri ambientali prima della recente normativa? C’è chi risponderebbe “non venivano affatto puniti” e citerebbe qualche noto caso. Eppure una previsione di legge esisteva già! Si tratta del noto “disastro innominato” il cui nome è emblematico: l’art. 434 comma 1 del codice penale punisce tutti i fatti diretti a causare un disastro per aver creato una situazione di pericolo concreto per la pubblica incolumità, anche quando il disastro, in concreto, non si verifica. Una norma tanto generica da essere innominata di nome e di fatto! Ecco spiegato perché molti disastri ambientali sono rimasti impuniti per mancanza dei requisiti richiesti, tra cui, per esempio, l’ampiezza e l’irreparabilità del danno all’ambiente.
Cosa cambia quindi con i nuovi reati ambientali? Tutto o forse nulla. Il problema è che non incorre nel reato di disastro ambientale, perseguito dalla nuova normativa, chi compie un disastro “non abusivamente” perché “a norma di legge”.
Un sillogismo insomma: se le licenze esistono per evitare i disastri ambientali consentendo l’esercizio di attività pericolose e se i disastri ambientali vengono puniti solo in mancanza di licenza e quindi “abusivi”, allora chi inquina o porta avanti un’attività pericolosa ma “non abusiva” non viene incriminato.
Ma è proprio così? Come deve interpretarsi l’avverbio abusivamente? Il Ministro all’Ambiente Gian Luca Galletti, in una sua dichiarazione all’Avvenire, ritiene che il termine “abusivo” sia giusto perché “Noi ogni volta che autorizziamo un’azienda a una produzione pericolosa da un punto di vista ambientale, accompagniamo l’autorizzazione con prescrizioni molto rigide. E la violazione di queste prescrizioni ricade nei reati che abbiamo individuato.” Si intuisce l’antifona: molte attività, ancorché pericolose, sono a tutti gli effetti autorizzate! Proprio ciò che è successo con l’Ilva di Taranto che ha inquinato con le autorizzazioni in regola (che consentivano emissioni di diossina in concentrazioni abnormi). Ma erano in regola e, dunque, non punibili. D’altro canto però se le aziende dovessero rispondere anche per una loro attività non abusiva si giungerebbe a dire che l’ordinamento giuridico da un lato legittima e dall’altro punisce.
Il dibattito è aperto e di campane ce ne son tante. In molti ritengono che la terminologia voluta sia, in realtà, l’escamotage legislativo per il lasciar fare argomentando che senza quel fatidico avverbio si inibirebbero eccessivamente le attività aziendali.
Tra coloro che criticano la mancanza di effettività della normativa, scagliandosi contro il termine ‘abusivo’ c’è il padre dell’ambientalismo italiano, il magistrato Gianfranco Amendola, che in un suo recente intervento sostiene: “Noi italiani non ci facciamo mancare mai niente, specie se si tratta di normativa ambientale. E così adesso abbiamo inventato il disastro ambientale “abusivo”, e cioè un disastro che può essere punito solo se commesso “abusivamente”. Altrimenti, il fatto non sussiste e l’imputato viene assolto.”
Solo critiche di forma e non di sostanza replicherà qualcun altro. Eppure anche Confindustria ha criticato la portata applicativa del testo legislativo ritenendo che la portata di quell’avverbio sia, al contrario, eccessivamente ampia e troppo rigorosa volta a ricomprendere anche comportamenti non direttamente lesivi del bene ambiente ma volti ad aggirare la licenza o la procedura per ottenere la stessa. Due orientamenti opposti. Uno troppo restrittivo e l’altro troppo estensivo. Ma allora qual è il vero intento della normativa? A dirsi pienamente soddisfatto della riforma è il ministro Gian Luca Galletti che ribadisce il principio europeo del chi inquina paga.
“Abbiamo tipicizzato i reati e questo rende molto più facile perseguirli rispetto a prima e poi abbiamo duplicato i tempi di prescrizione, e anche questo permetterà di arrivare alla fine dei processi. Quello che è mancato in questo periodo è stato proprio questo, come per il caso Eternit. Troppo spesso è intervenuta la prescrizione perché il reato ambientale è difficile da individuare e ancora più difficile da colpire…”
L’ultima parola spetterà alle future pronunce della Cassazione.
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