di Christian Elia
Perché il movimento pacifista, al contrario di quello ambientalista, con il quale condivideva pure molti elementi, non è riuscito a diventare un attore politico in modo continuativo? Attorno a questa domanda ruota il saggio di Giulio Marcon, Fare pace, edizioni dell’Asino.
Una risposta non c’è, ma è tempo di porre domande. E’ tempo di farlo, come nel libro dell’attuale deputato di Sel, in primo luogo a coloro che di quel movimento hanno fatto parte. Perché se è vero che le manifestazioni del 15 febbraio 2003 non hanno impedito l’assalto e il massacro in Iraq, è altrettanto vero che quel movimento aveva ragione.
Eppure, oggi, sono gli stessi soloni di allora che ritornano a promettere guerra. Solo che di quel movimento resta poco, una piccola parte, divisa, spesso litigiosa. Il libro di Marcon si divide in due parti: la prima è un saggio sul pacifismo dalla Seconda Guerra mondiale a oggi, davvero interessante, mentre la seconda è un diario dei reportage del pacifismo attivista nei teatri di guerra che ci hanno ferito tutti.
Dal pacifismo concreto dei convogli in Jugoslavia, passando per i pacifisti internazionalisti, legati all’idea di un nuovo ordine mondiale da costruire dopo la caduta del muro di Berlino, e per i pacifisti del disarmo e della lotta non violenta. Fino al pacifismo interventista, o quello ideologico, che ha nella struggente parabola umana e politica di Alex Langer il simbolo dolente.
Un movimento che non ha saputo farsi, come i Verdi, formazione politica. Solo che vista la difficoltà, almeno in Italia, dei Verdi, non è detto che sia un male. E’ rimasto un fiume carsico, pronto a riemergere prepotentemente in casi come l’assalto all’Iraq nel 2003. Ed ecco il vero limite: è sempre mancata una pratica condivisa, che oltre la piazza (quando funziona) non ha saputo darsi un coordinamento.
E la seconda parte del libro racconta proprio questo: storie, persone (più o meno note), luoghi, popoli, guerre. Entusiasmo, impegno, anche in prima persona. Scorrendo gli appunti di viaggio di Marcon si fanno incontri curiosi, magari di uomini e donne che poi sono finiti a votare missioni militari all’estero.
Domande che rimangono senza risposta, ma che spingono a riflettere, perché al di là delle contraddizioni e degli errori, degli entusiasmi e delle ingenuità, c’era una partecipazione, un sentire comune, che oggi è come svanito. Se è prezioso ragionar sulle pratiche, diventa ancora più importante capire perché un mondo intero, oggi, resta come impotente di fronte a Gaza, alla Siria e ad altri pezzi di mondo, e di umanità, che vivono nell’incubo della guerra.
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